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Vertical – Black Palm

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Esiste una forma intelligente di suonare musica portandosi dalla propria parte tutte le ragioni del mondo, la musica strumentale non finisce mai di stupire (e inventare), i Vertical girano nell’ambiente da un decennio, il disco “nuovo” dei Vertical si chiama Black Palm. Gli anni settanta per i Vertical non sono mai passati, gli Area cuciti a vivo nel cuore e il pensiero rivolto costantemente al 2005 quando nel fiore dell’attività aprivano le date nord italiane del maestro James Brown. Funk Rock senza troppi giri di parole, i pezzi saltellano in svariate direzioni ma il principio di base rimane sempre quello del Funk (arricchito dal Rock). Detto così potrebbe sembrare una cosa poco attraente sentita e risentita fino al collasso ma devo prontamente ammettere che le cose non stanno in questo (scontato) modo. Rifacendomi a quello che dicevo all’inizio i Vertical in Black Palm non si accontentano mai e sperimentano in continuazione lasciando sorrisi dolci e amari sulle labbra dell’ascoltatore. Non sono certo prevedibili e il disco respira ad ogni modo con i propri polmoni, una band capace di spaccare il mondo quando diventa possibile farlo, sorprendenti è il giusto termine per definirli. Black Palm apre le proprie porte con “Divo”, un esagerazione di basso e riff acidi che esplodono la propria energia in un ritornello sostenuto dall’hammond e voci Soul campionate, non ci sono prove a sostenerlo ma ho pensato subito ai Pink Floyd più intimisti. “New World” tutto sembra tranne che un nuovo mondo, la mia impressione è stata quella di un campionamento per karaoke con atmosfere da crociera, scusate se non sono riuscito a cogliere l’innovazione. Forse non sono molto perspicace. Colgo invece la realistica terapia d’urto mentale portata da “Tispari (ho voglia di piangere con te)”. Poi si continua a cavalcare l’onda del Funk aromatizzato al Jazz e le condizioni sono decisamente carine, un disco interamente strumentale è difficilissimo da tirare per oltre quarantacinque minuti mantenendo sempre la stessa intensità, questa è bravura. Sfiderei chiunque a farlo lasciando da parte Demetrio Stratos o gli attualissimi Calibro 35 a cui i Vertical dimostrano di essere molto affezionati. E non parliamo di Post Rock alla Mogwai. Poi esiste anche un brano nel disco “Watcha Gonna Do” cantato da Ken Bailey e definito dalla band Acid-Jazz con tutto il diritto di farlo, roba nuova per non lasciare mai la puzza della scontatezza. Assolutamente da segnalare il pezzo che dà il titolo all’album che nella sua semplicità non porta comunque scompensi. I Vertical sarebbero una perfetta band da colonna sonora da impiegare in molteplici forme di arte. Presente anche (ovviamente in chiusura) una ghost track “900” e la voglia di ascoltare nuovamente Black Palm invade tutta la mia attenzione. Un album concepito in maniera decisamente professionale da musicisti altrettanto validi, Black Palm inganna il tempo, non si esce vivi dagli anni settanta.

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Rivoluzioni musicali in mostra alle OGR di Torino

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Quando si parla di musica, ognuno ha senza dubbio i propri riferimenti, i propri miti, le stelle polari che lo guideranno lungo il corso della propria esistenza ,in lungo e in largo, a destra e manca, forever and ever, “finché morte non vi separi”. Alcuni di questi miti, però, non fanno solo parte del nostro universo musicale, ma sono delle vere e proprie pietre miliari della storia della musica, simbolo di un’ epoca, esempio per le generazioni future ed esponenti di rivoluzioni che hanno deviato il corso della storia stesso.  Ed è proprio a questi Dei dell’Olimpo musicale che fa riferimento Alberto Campo, curatore della mostra fotografica Transformers – Ritratti di Musicisti Rivoluzionari, allestita presso i Cantieri OGR di Torino e visitabile dal 28 settembre al 3 novembre 2013. Il filo conduttore che la caratterizza è quello della “Trasformazione”, tema tanto caro alle ex Officine Grandi Riparazioni Ferroviarie (una delle ultime testimonianze della storia industriale della città), oggetto di un recente restauro che le ha restituite alla popolazione torinese sottoforma di “Cantieri Culturali”, sede di eventi musicali, teatrali, mostre, fiere ecc.

Ed eccoli allora sfilare uno per uno i Grandi della musica, in una serie di scatti che li ritrae durante la loro vita di artisti (con una predilezione per quelli realizzati durante gli eventi live) e di comuni mortali; un richiamo all’idea della “Trasformazione” come trapasso dalla dimensione pubblica a quella privata. Le fotografie sono attinte dal vasto bacino messo a disposizione da Getty Images, ed abbracciano sessant’anni di musica (dall’avvento del Pop negli anni ’50 all’era del web e delle tecnologie digitali odierne); il sottofondo musicale è una lunga colonna sonora composta da canzoni-simbolo degli artisti considerati. Campo fa cominciare tutto con Elvis (e come dargli torto!), opportunamente inserito nella sezione “Origini della Specie” e fotografato durante una delle sue celebri mosse di bacino. La seconda tappa porta il titolo de “l’Invasione Britannica” ed i protagonisti non potevano che essere Beatles e Rolling Stones, considerati perennemente in antitesi. Gli anni ‘60 si tingono anche di Folk e dei ritratti di un giovanissimo Bob Dylan, che con la sua “Blowin’ in the Wind”, cantata come inno di chiusura dei comizi di Martin Luther King, diviene il rappresentante della “Canzoni di protesta”, mentre Miles Davis e James Brown lo sono del Jazz e del Soul-Funky nella sezione “Black Power”. Si conclude un decennio e ne comincia uno nuovo, segnato dall’ “Utopia Hippie” che vede i suoi massimi esponenti nei Doors e in Jimi Hendrix (immortalato mentre dà fuoco alla chitarra elettrica durante il festival di Monterey), mentre il Transformer per eccellenza, David Bowie (nelle vesti di Ziggy Stardust) trova posto nella sezione “Rock a Teatro” insieme alla primissima formazione dei  Velvet Underground (fotografati con l’immancabile Andy Warhol ), quella di cui faceva parte anche la splendida Femme Fatale Nico, immortalata in un primo piano stupendo, mentre indossa una maglietta riportante la scritta Fragile. Nella sezione “gli Outsider” si piazzano Tom Waits e Frank Zappa, mentre l’unico artista italiano preso in considerazione, Ennio Morricone, non poteva che collocarsi nella sezione “la Musica Come in un Film”. Passano gli anni, cambia il modo di far musica, che diventa “definitivamente prodotto dal vivo su larga scala”: Led Zeppelin e Pink Floyd sono esempio dell’ avvento dei grandi concerti che riempiono gli stadi. Dall’altro capo del mondo, sempre in quegli anni, “One Love”, Bob Marley si faceva portavoce di un nuovo genere musicale: il  Reggae. Altra rivoluzione musicale degna di nota in quegli anni è il Punk, rappresentato nella sua forma più grezza dai Sex Pistols (lo scatto che ritrae Johnny Rotten nel tentativo di armeggiare un paio di forbici enorme parla da sé) e nella sua forma più colta da Patti Smith, la sacerdotessa del Rock che sembra non aver alterato con gli anni l’espressione che ha in volto mentre canta. Gli anni ‘80 sono quelli dell’ Hip Hop dei Beastie Boys, del re e della regina del Pop: Michael Jackson e Madonna. Gli anni ’90 segnano una frattura col decennio precedente grazie all’avvento del Grunge e dei Nirvana: il primo piano di Kurt Kobain troneggia in sala (forse è una delle immagini più belle della mostra), mentre ha in mano la chitarra che riporta la scritta “Vandalism: beautiful as a rock in a cop’s face”. La mostra arriva fino ai giorni nostri, e si conclude con l’ “Evoluzione della Rockstar” verso una musica sperimentale e ricercata, i cui esponenti sono rappresentati da Björk e Radiohead (riconoscere una foto scattata durante il loro ultimo tour del 2012 ti fa sentire fiero di esserci stato) per chiudersi definitivamente con l’avvento della musica elettronica dei Kraftwerk e dei Daft Punk nella sezione “Technologia”.

I grandi assenti? Tanti, ognuno sicuramente troverà qualche suo “mito” mancante all’appello. In ogni caso, non è un buon motivo per privarsi di questa mostra, che non è una semplice esposizione fotografica, ma un viaggio visivo e sonoro indietro nel tempo, verso tappe della storia e rivoluzioni musicali compiute dai musicisti che tanto amiamo. Allacciate le cinture, si parte.

Fonti: http://www.ogr-crt.it/events/transformers-ritratti-musicisti-rivoluzionari/

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Good Morning Finch – Cosmonaut

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Aria timida fuori dalla finestra, il cielo che sembra gettare a forza su di noi i suoi rantoli, spuntando fuori i polmoni per soffiare l’ultimo vento caldo. E in un panorama così apparentemente banale abbino casualmente il romanzo che in un’estate troppo movimentata non sono riuscito a finire e un disco da recensire, pescato dagli arretrati di questo frenetico anno.

Murakami “Kafka Sulla Spiaggia” incontra i Good Morning Finch, band siciliana attiva dal 2010 che abbatte dalle prime note tutte le barriere spazio-temporali. Le visioni oniriche e magiche dei personaggi del romanzo si mischiano alla perfezione ai delay, alle poche chitarre ben incastrate tra beat carnali (questo è un album suonato e si sente) e ritmiche soffici. Sensazioni di calma, ma anche di angoscia e di tremenda lentezza e imprevedibilità invadono l’atmosfera. La dinamica non esplode mai, anche quando potrebbe permettersi più violenza come in “Last Rocket From Moskow to Neptune” è tenuta volutamente soffusa, calibrata quasi alla perfezione. Non ci abbandona l’alone di mistero e la sensazione di stare a mezz’aria pur avendo ben cosciente ed impresso il ricordo del nostro mondo terreno. Pink Floyd e Sigur Ròs trovano un facile accordo e mischiano le loro deviazioni. I Good Morning Finch però tralasciano spesso le efficaci venature pop. Qui nulla è cantato, anche la poca voce presente è un incredibile veicolo tra spazio e terra.Ci sentiamo astronauti più vicini alle stelle ma mai troppo distanti dal suolo. Non lo perdiamo mai di vista, lo osserviamo attentamente per vivere più intensamente il sogno. Proprio come in Murakami, dove mai perdiamo la sensazione del tatto. Anche quando si parla di fantasmi perduti nello spazio in “Alexis Graciov is Gone” (Alexis Graciov è un cosmonauta che pare essere scomparso nel 1960 in una missione spaziale russa, leggenda o complotto?) la chitarra acustica ci riporta in una spiaggia con un falò, resa surreale da una voce femminile lontana, che echeggia tra le onde.

Qualcosa combina romanzo e disco in uno strepitoso vortice in cui le sensazioni visive, le parole e le note si combinano chimicamente. Conoscendo i miei gusti questo EP (sebbene prodotto al meglio) non si sarebbe mai insediato nelle mie orecchie in assenza di “Kafka Sulla Spiaggia” e dei suoi bizzarri soggetti. Fatemi pensare che sia nulla più che una piacevole coincidenza.

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Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Settanta

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Nella mente di ogni buon italiano medio, poveretto, gli anni 70 sono stati quelli che per i paesi occidentali anglosassoni erano i sessanta. Si sa che da noi le mode, le tendenze e gli stili musicali sono inclini ad attecchire con un certo ritardo e figuriamoci cosa poteva essere avere vent’anni nel decennio di cui stiamo parlando. Poca la stampa italiana che chiacchierava decentemente di musica estera. Non c’erano certo canali televisivi come Mtv (quella degli esordi, intendo) e, ovviamente, non c’era Internet. C’era solo da sperare in qualche perla regalata dal cinema e dalle sue colonne sonore, dalla radio, oppure aspettare che il fratello maggiore emigrato qualche anno prima facesse ritorno con un disco sconvolgente.

Gran parte delle cose straordinarie accadute in musica nei 70 finirono quindi per entrare nell’immaginario collettivo degli italiani solo qualche anno dopo. Pensate ai Beatles, ai Led Zeppelin oppure a Hendrix o Janis Joplin (entrambi morti nel 1970, mentre Jim Morrison morirà l’anno seguente).

Sarà il tempo a restituirci una straordinaria foto dei seventies, gli anni delle sit-com, del Pop e del Rhythm & Blues, della Disco-Music e delle discoteche, dell’Elettronica e del Punk. Dei polizziotteschi e della commedia sexy; de Lo Squalo, Rocky e Il Padrino. Anni fantastici, pur nelle sue ambiguità,per chi li ha vissuti e malinconici per chi ne ha solo subito il colpo di coda, come me del resto.

Di seguito la classifica stilata dalla redazione di Rockambula dei migliori album dal 1970 al 1979. Grande assente la Disco Music e l’Elettronica, presente con i Kraftwerk ma ben oltre la decima posizione e un primo posto che conferma una certa ruvidezza di gusti da parte nostra, già mostrata nella classifica dei sixties.

1) The Clash – London Calling

2) Pink Floyd – The Dark Side of the Moon

3) David Bowie – The Rise And Fall of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars

4) Black Sabbath – Paranoid

5) Sex Pistols – Never Mind The Bollocks Here’s The Sex Pistols

6) Joy Division – Unknown Pleasures

7) Bob Marley – Exodus

8) The Rolling Stones – Sticky Fingers

9) Queen – A Night at The Opera

10) Television – Marquee Moon

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Artefacendo Rock Festival: la musica dal vivo, la musica che vive! (con intervista ad Erica Mou)

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Sabato 22 Giugno 2013 @ San Giovanni Rotondo

Da queste parti, si sa, il Rock’n’Roll è roba per pochi; per questo  nessuno si è preoccupato più di tanto se la piazza non era gremita di gente. All’Artefacendo Rock Festival, chi ci doveva essere, c’era. Il contest, rivolto ai musicisti emergenti, organizzato e ideato dai Laboratori Urbani Artefacendo di San Giovanni Rotondo, è arrivato alla sua III edizione e ancora una volta ha dato la possibilità ai partecipanti di  poter vincere una borsa di studio a seguito di un’esibizione live.

A esibirsi sul palco, con un pezzo inedito ed una cover, sette band del territorio garganico e non. Ad accendere la musica ci hanno pensato  gli  Stereofab di Manfredonia, seguiti a ruota dai Red Dust di San Giovanni Rotondo, i Paper Walls di Mafredonia, i Blastorm di Manfredonia, i Johnny Freak di Cassino, i Figli di Bacco di San Giovanni Rotondo ed infine gli Psilocibe di Troia. Dopo le varie esibizioni è stato bello poter constatare che la maggior parte dei gruppi era ad un livello abbastanza buono per tecnica, capacità compositive, presenza scenica e comunicazione al pubblico, tanto che per l’assegnazione del premio è stato necessario valutare un’ulteriore esibizione dei due gruppi più votati dalla giuria.

Ed è così che Psilocibe e Red Dust sono scesi nuovamente in campo per contendersi la vittoria assegnata, infine, ai Red Dust.  Giovanissimi,  hanno sicuramente ancora molto da imparare, ma di certo non necessitano di lezioni di grinta e coraggio; il loro pezzo inedito e la loro cover di  “Time” dei Pink Floyd sono arrivati dritti sul pubblico come una valanga, sommergendolo di emozioni. Il premio della critica Rockambula è stato assegnato invece ai Jhonny Freak che, nonostante qualche problema tecnico con le chitarre, sono riusciti ad incantare il pubblico sia con il loro pezzo inedito (rigorosamente in italiano), sia con la stupenda interpretazione de “La Donna Cannone” di De Gregori.

Guest Star della serata: Erica Mou, che ha presentato il suo ultimo disco Contro le Onde, uscito lo scorso 28 maggio, eseguendo i brani “Mettiti la Maschera” e “Mentre mi Baci (Scena Madre)”, insieme a “Nella vasca da Bagno Del Tempo” (brano che l’ha portata a vincere il Premio della Critica Mia Martini a Sanremo 2012 nella categoria Sanremosocial) e “Oltre”, pezzo scritto alla sola età di 16 anni, suonato in occasione di diversi contest a cui la cantautrice ha partecipato, e con il quale ha augurato il suo personalissimo in bocca al lupo a tutti i musicisti presenti. Alle volte si dimentica che anche un artista ormai conosciuto al pubblico e con una carriera ben avviata ha dovuto fare anni ed anni di gavetta e cominciare da zero, proprio come tutti i grandi hanno fatto.

Chitarre in spalla, furgoni stracolmi di strumenti, chilometri su chilometri da percorrere, il tutto per giocarsi un’altra possibilità, per creare una nuova connessione col pubblico, per trasmettere a tanti l’emozione di uno, per generare un suono, per tirar fuori la voce, per improvvisare un assolo, per catturare anche per un attimo l’attenzione e generare all’interno di chi ascolta un piccolo grande wow! E’ così che forse succede quando la musica centra il bersaglio, e nessun ascolto “digitale” potrà mai generare questo tipo di emozioni ed improvvisazioni che può provocare solo un evento live. Per  un musicista emergente tale tipo di esibizioni è indispensabile, come lo è per il pubblico che ascolta, che ha la possibilità di apprezzare a 360° le doti di un artista dimenticando per una volta quel maledetto filtro con la realtà che è lo schermo, di un  pc, di un televisore o di qualsiasi altra diavoleria elettronica.

Iniziative come quella dell’Artefacendo Rock Festival, ed in genere di tutti i contest musicali di musica dal vivo, dovrebbero essere preservate e moltiplicate. Ognuno di noi dovrebbe dire grazie a chi, tra mille e più difficoltà, si impegna a diffondere e preservare quel bene raro che è la musica live, emergente e non, il più delle volte senza un preciso ritorno economico ma semplicemente in nome della propria passione per la musica, in nome del Rock’n’Roll.

Artefacendo Rock Festival, quattro chiacchiere con Erica Mou, sogni e progetti sparsi qua e là, sorrisi ovunque, qualche domanda sul suo presente e sul suo passato, una serie di belle risposte.  

Grazie, Mou!

Ciao Erica, in questo periodo sei impegnata con la promozione del tuo ultimo album “Contro le Onde” uscito lo scorso 28 maggio. Cosa sono per te le onde contro le quali bisogna andare? Cosa rappresentano?
Le onde sono prima di tutto quelle fisiche, quelle del mare. In tutto il disco parlo tantissimo dell’acqua e del mare visto sia come compagno di viaggio che come ostacolo da superare, come elemento rassicurante ma anche come pericolo.
Però le onde contro cui sono voluta andare in questo album sono anche più in generale le avversità della vita, tutto ciò che ti impedisce di viaggiare ma soprattutto tutti gli ostacoli che ci costruiamo da soli, che sono nella nostra testa.
Contro le onde è per me un inno a liberarsi, a rischiare.

Quali sono le maggiori novità di questo disco? (Ho letto di una collaborazione con Boosta dei Subsonica).
Sicuramente la produzione artistica di Boosta è una grande novità! Con Davide abbiamo davvero lavorato a quattro mani su queste canzoni, ne abbiamo anche scritte un paio insieme (“Il ritmo” e “Non dormo mai”) e anche scrivere con un altro artista rappresenta per me una novità. Le sonorità sono un po’ più elettroniche, senza rinunciare però ad un approccio molto suonato, molto “live”. Inoltre è la prima volta che do dichiaratamente un senso comune ad un album, c’è un unico concept che si sviluppa attraverso le canzoni.
E poi grazie a Davide sono riuscita a tirar fuori la parte più ironica di me senza perdere quella intimista, sono riuscita a scrivere e cantare con una libertà che finora non avevo mai avuto in uno studio di registrazione.

Oggi siamo ad un Rock Festival dedicato allamusica emergente, torniamo al tuo di esordio. Ne hai ripercorso le tappe sul palco del Roxy Bar di Red Ronnie il 15 giugno (il racconto, tra l’altro, è stato davvero bello ed emozionante). Hai definito la tua partecipazione al contest che ha “scatenato una serie di cose stupende”, “una serie di fortuite e fortunatissime coincidenze”. Credi davvero sia solo questo? Dicci la verità, quanta energia e quanto impegno ci hai messo per arrivare fin qui?
Io mi impegno da quando avevo cinque anni, dalla mia prima lezione di canto. La musica è un percorso infinito di studi, di ascolti, di incontri, di pensieri. Le coincidenze sono quegli avvenimenti magici che ti portano in un luogo al momento giusto, per me è stato davvero un caso iscrivermi a quel contest. Ma poi ovviamente… la performance sul palco non si fa con la fortuna, ma col portare il pubblico per un attimo a guardare dall’interno il punto in cui ti trovi in quel percorso infinito, tecnicamente ed emotivamente.

Il Rock Festival di oggi è organizzato dai Laboratori Urbani Artefacendo di San Giovanni Rotondo, uno dei 151 laboratori urbani la cui nascita è stata finanziata dalla Regione Puglia all’interno del programma Bollenti Spiriti, il programma della Regione Puglia per le Politiche Giovanili. Quanto hanno influito le politiche della Regione Puglia rivolte alla musica per il tuo esordio e per la tua carriera di musicista?
Per me sono state fondamentali sia a livello promozionale (per esempio un mio brano era inserito in una compilation allegata al mensile XL) che economico (grazie ai bandi di Puglia Sounds abbiamo avuto un sostegno per la Prima del mio precedente tour e per la realizzazione del mio ultimo videoclip “Mettiti la maschera”). Inoltre essere pugliese mi ha agevolato nel suonare all’estero ma, più di ogni altra cosa, grazie alle istituzioni della nostra regione ti senti parte di un sistema, senti di produrre qualcosa di concreto, qualcosa che fa parte nel suo piccolo di una economia. Ed oltre ad essere un musicista diventi anche una persona che fa il musicista.

Quale consiglio daresti oggi ad un artista, ad una band emergente?
Consiglierei di suonare ovunque, sempre, tanto. Di essere in movimento, di divertirsi, di studiare e di ascoltare. Alla fine dell’Artefacendo Rock Festival una giovanissima band mi si è avvicinata e mi ha detto: “noi ci siamo formati da pochissimo, come si fa ad avere un contatto con una casa discografica?”. Ecco, consiglierei soprattutto di ragionare sui propri obiettivi, di essere autocritici e non farsi mai domande come questa.

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Le Superclassifiche di Rockambula: Top Ten anni Sessanta

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Anni  60, quanti ricordi. Ad essere sinceri nessuno, perché in quel decennio anche mio padre era, al massimo, solo un adolescente. Eppure ogni cosa che ha riguardato la nostra vita, un disco, un film, un vestito, un pensiero, ha a che vedere con i Sixties. Erano gli anni della guerra fredda di Usa e Urss e di Cuba, del terremoto in Cile, di Martin Luther King e  Jurij Gagarin, del muro di Berlino, dell’avvento dei Beatles, dei Rolling Stones e del Papa buono. Gli ultimi anni di Marylin, Malcom X e John Fitzgerald Kennedy. Gli anni di Chruščёv e della minigonna, del Vietnam e della Olivetti, di Mao e del Che, della primavera di Praga e dei Patti di Varsavia, di Reagan e degli hippy, del pacifismo e dell’anarchia felice. Gli anni dei fascisti e dei comunisti, della British Invasion e di Mina, di Kubrick, della Vespa, della 500, di Carosello e di Celentano. Gli anni della contestazione studentesca e dell’uomo sulla luna, gli anni di Woodstock, delle droghe, della psichedelia e gli anni del Rock perché quegli anni sono le fondamenta solide su cui poggia tutta la musica (o quasi) che ascoltate oggi.

A scadenze non prefissate, Rockambula vi proporrà la sua Top Ten di determinate categorie e questa di seguito è proprio la Top Ten stilata dalla redazione in merito agli album più belli, strabilianti, influenti e memorabili usciti nel mondo nei mitici, impareggiabili anni 60. Nei commenti, diteci la vostra Top Ten!

1)      The Velvet Underground – The Velvet Underground & Nico

2)      Jimy Hendrix –   Are You Experienced

3)      The Beatles – Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band

4)      The Doors – The Doors

5)      Led Zeppelin – Led Zeppelin II

6)      Pink Floyd – The Piper at the Gates of Dawn

7)      Bob Dylan –   The Freewheelin’ Bob Dylan

8)      Led Zeppelin – Led Zeppelin

9)      David Bowie – David Bowie (Space Oddity)

10)   The Stooges – The Stooges

Vincono Cale, Reed e Nico con la loro banana gialla disegnata da Andy Warhol ma la presenza di Hendrix e The Stooges in Top Ten la dice lunga su quanto, a noi di Rockambula, piacciano le ruvide e sperimentali distorsioni dei mitici Sixties. Ovviamente non potevano mancare The Beatles, i re del Pop di quegli anni, presenti con uno dei loro capolavori assoluti, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, mentre la scena Psych Rock, formidabile nei Sessanta, è rappresentata degnamente grazie all’esordio dei Pink Floyd con Syd Barrett ancora in grado di esserne l’anima e l’omonimo The Doors. Chiudono la lista uno dei più grandi cantautori mai esistiti con The Freewheelin’ Bob Dylan, il re del Glam Rock David Bowie e l’unica band capace di piazzare nei primi dieci posti ben due album, ovvero i Led Zeppelin.

Esclusi eccellenti, anche se citati dai nostri redattori, i Beach Boys con Pet Sounds, Frank Zappa, Captain Beefheart e, udite udite, i Rolling Stones.

Ora potete iniziare a urlare le vostre Top Ten!

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W-H-I-T-E – III

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Cory Thomas Hanson è l’artista e musicista di Los Angeles che si nasconde dietro il nome W-H-I-T-E. Già nel 2008, quando prendeva vita il suo percorso artistico, era chiaro che Hanson non avrebbe certo intrapreso la strada calma e pulita della melodia tradizionale e del cantautorato. Sceglie il nome d’arte W-H-I-T-E per esprimere fin da subito alcuni concetti fissi nella sua mente, per dare l’idea di quell’attrazione trascendentale che la luce bianca ha verso ogni creatura e la sua necessità di allietare e nello stesso tempo “bruciare” i sensi saranno una prerogativa di tutte le sue opere. I primi full lenght sono Sunna del 2009 e Twin Tigers di due anni più giovane. Dopo queste esperienze studio inizia una lunga traversata per il mondo, che lo porterà anche in Europa dove si esibirà con Mikal Cronin. Proprio durante queste scorrazzate soniche inizia a prendere vita III; W-H-I-T-E scrive e registra parzialmente i pezzi “on the road” (non vanno sottovalutate le soste parigine e il ritorno alla città natale) per quasi tre anni. III è una sorta di sunto, di raccolta di questo lungo tempo passato a registrare. Il risultato è qualcosa di prodigiosamente celestiale.

Se ”Intro” somiglia in modo imbarazzante al pezzo d’apertura di Palace degli Chapel Club non ci s’illuda e non si pensi che vi sia alcun tipo d’influenza Neo-Gaze. Ciò che accomuna III alla scena di cui fa parte la formazione britannica di Lewis Bowman e Michael Hibbert è solo una certa vena dreamy, celestiale, spirituale, incorporea. Un po’ la stessa che si respira in alcuni brani dei Radiohead (“I Wasn’t Afraid”), considerando anche che la voce di Cory Thomas Hanson, ricalca per timbrica la stessa proprio di Thom Yorke. Non mancano reminescenze di psichedelia sixties e folk barrettiano fatto di voci melodiose e note ossessive come incubi colorati e passaggi in cui il Dream-Pop acquista una vena bucolica (“Can’t Fight The Feeling”, “Friends”) e naturista. Nella seconda parte, prevale invece l’aspetto più duro, freddo e sintetico della proposta di W-H-I-T-E, che miscela le ritmiche tipiche dei Club anni ’90, il cantautorato statunitense di vecchia data e la storica scuola dei precursori dell’elettronica applicata alla New Age e all’Ambient (“Pretty Creatures”, “Lost”) con la musica cosmica in stile Tangerine Dream (“Deep Water”).

Assolutamente gradevoli anche i momenti più essenziali, legati indissolubilmente alla linea melodica e dalla forte ispirazione Radiohead dei momenti più intimi (“Demons”), cosi come riuscitissimo suona l’incontro tra psichedelia e Dream Pop in “Swim”. Nella parte conclusiva troviamo sperimentazioni che sembrano miscelare le basi irriverenti e Lo-Fi tanto care a Beck, altro genio di Los Angeles, con il Pop-Rock britannico (“Wet Jets”) mentre III si chiude con il pezzo più oscuro, freddo, ambiguo dell’opera di W-H-I-T-E, ricco com’è di ossessioni e speranza (“Building On”).

È lo stesso Cory Thomas Hanson a spiegare bene la sua opera. “Ho iniziato a scrivere con l’idea di John Lennon che fa una registrazione sulla luna con Cluster e Eno a fare da produttori. Il tutto remixato da Moby”. Io aggiungerei questo. Pensate a brani scritti da John Lennon, cantati da Thom Yorke e suonati dai Pink Floyd con i Tangerine Dream a gestire la parte sintetica, il tutto sotto la supervisione di Cluster ed Eno e mixato da Moby. Rende ancor meglio l’idea.

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Wire – Change Becomes Us

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Gli anni passano inesorabili per tutti, anche nella musica non si transige, tutto ingiallisce meno i capolavori di patina doc, artisti e idiomi musicali che sopravvivono all’usura e che – tra cadute e calici alzati – sono riusciti sempre a raccogliersi e rialzarsi, tanto è che ancora oggi sono cattedre incontestabili della sconfinata cosmogonica Rock.

Non a caso i Wire, la formazione inglese che dopo la liquefazione del punk, meglio di altre ha saputo traghettare tutta quella dolorante trasgressione nelle lattiginose coordinate della New-Wave appunto Post-Punk , seguita a sfornare crediti ragguardevoli e non, ma che comunque hanno segnato la scena di allora e questa di oggi, e Change Becomes Us, tredici tracce recuperate nel tempo della loro carriera e mai registrate prima d’ora, riporta la band di Colin Newman a certi splendori ovattati, li fa oscillare tra movenze deep e ondivaganti trilli nerofumo.

Via le grattate e le retoriche di larsen che smerigliavano il passato, ora vive una specie di “aggiornamento”, un calarsi nei tempi moderni con maturità e riflessione senza tuttavia fare a meno (ma in maniera meno eclatante) di scariche e lampi distorti, ma usati con dovizia e senza più quell’urgenza straripante, un riqualificare le potenzialità di gruppo dove l’intensità di scrittura e gli affondi dolciastri del mood trovano un equilibrio – all’ascolto –  perfettamente in bolla; tolta la ridicolaggine pop di “Re-Invent Your Second Wheel”, la tracklist è una genialità anomala che se da una parte  becca effluvi spacey di stampo smaccatamente Floydiani, dall’altra si trasforma in mantra ipnotico “Time Lock Fog”, trascina nelle armonie sottocutanee di “Keep Exhaling”, e anela il ritorno al primo amore punk “Stealth Of A Stork” per poi immergersi completamente tra nebbie e foschie wave fino a sparirci dentro “B/W Silence”.

Ovvio che siamo sulle strade della buona musica ma niente di cui urlare  al miracolo, semplicemente una scheggia di classe musicale che mantiene una eccezionale seconda vita, i Wire – con un incedere deciso e inarrendevole – ancora ipnotizzano fino alla malinconia, quella in positivo chiaro.

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Paolo Cecchin – Quanto Valgo?

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Tutti almeno una volta nella vita si sono fatti la domanda Quanto Valgo? Ma non tutti alla fine si sono dati una risposta con estrema verità, al contrario del cantautore vicentino Paolo Cecchin che su questo interrogativo esistenziale fa nascere un intero lavoro discografico, precisamente il secondo. Come per tutti i maggiori cantautori l’amore di Paolo per la musica nasce precocemente, ascolta i Beatles, i Nirvana, impara a suonare il pianoforte, la tastiera e la batteria, suona in gruppi tributo di Pink Floyd e Neil Young e da questi grandi impara tantissimo e guarda oltre fino a volersi esprimere da solo. Registra una cinquantina di canzoni, nel 2010 esce il suo primo album Nel Mio Mondo e nel 2013 Quanto Valgo?, formato da undici brani che finalmente hanno una loro precisa ragion d’essere sia singolarmente che nel lavoro complessivo.

Una cover di Ivan Graziani “Pigro”, un brano “Lettera al Mondo” scritto da Stefano Florio e nove pezzi originali di Paolo Cecchin, con testi profondi e tormentati, che spaziano parlando della libertà, dell’essere “Alternativo”, del ricordo del padre, dell’amore e della solitudine. La strada musicale è quella Rock di matrice Indie Pop, nella quale finalmente si scorgono energie diverse, più forti e adrenaliniche come in “Quanto Valgo?”, “Alternativo”, “Lei, “Confesso”, rispetto a brani più lenti come “Dentro Me” simile a una ballata “veloce”, “Da Te Ritornerò” e “Fuoco”. Un vero viaggio, delle vere storie per un album tenuto per mano, come si vede dalla copertina, al suo interno pieno zeppo di fotografie dell’infanzia, del passato e del presente musicale. Un saluto a suo padre e via verso un’arte che non viene fatta per caso, ma intarsiata minuziosamente di ricordi ed esperienze.

Un secondo album piacevole da scoprire e ascoltare, fatto per necessità di esprimersi e non per voglia di esibirsi, come spesso capita per quegli artisti/gruppi un po’ vuoti di sostanza ma pieni di apparenza. Un album concreto che va riascoltato volentieri, anzi, che si deve riascoltare se si vogliono scoprire quelle sfaccettature non saltate all’orecchio al primo ascolto. Un album dove io non trovo difetti, poi sta ai gusti di ognuno capirne i significati e trovarne i pregi…

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Il Silenzio Degli Astronauti – Moments of Inertia

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Tra le influenze che i ragazzi de Il Silenzio Degli Astronauti citano sulla loro pagina Facebook si possono leggere God is an Astronaut, Godspeed You! Black Emperor, Mogwai, Pink Floyd. Il loro primo disco Moments of Intertia (5 brani per quasi 40 minuti di musica strumentale in gran parte onirica e cullante) pesca a piene mani dal repertorio Post-Rock internazionale, dall’opener “It Doesn’t Matter What we Fought” fino alla lunga, conclusiva, sospesa “Clouds Are Indifferent”. Una chitarra, un basso, una batteria, uniti a ricamare, con semplicità e pazienza, lenti crescendo, aperti soundscape suonati (niente – o quasi – elettronica e pochi, oculati effetti) con una naturalezza e una consapevolezza quasi artigiane.

Il Silenzio degli Astronauti, come da monicker, ci prende per mano per trascinarci verso l’orbita, dove la gravità ci abbandona lentamente, per lasciarci ondeggiare e vagare nello Spazio, scuro e luminoso insieme, così vuoto eppure così prepotentemente gonfio di significati, significati da cercare nel silenzio: un silenzio riempito solo dagli intrecci vibranti di una chitarra, un basso, una batteria.

Moments of Inertia non inventa niente, non rielabora granché, non scopre nulla: regala poco più di mezzora di volo nel buio assoluto e silente. Ma se (come me) apprezzate l’immaginario stellare, cosmico, spaziale di un Vuoto da riempire con gli abissi della mente, andate a farvi staccare il biglietto per il vostro personale razzo extraplanetario e seguite Il Silenzio degli Astronauti. Il disco è in ascolto gratuito su Soundcloud: fateci un salto e fateci sapere.

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Pills (contraccettivo efficace) Consigli Per Gli Ascolti

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“Prendo la pillola contraccettiva da più o meno 7 anni, è possibile che una pillola anticoncezionale smetta di fare effetto sull’organismo e quindi non funzioni più?” (cit. di un forum medico)
Questa volta invece dell’esperto rispondiamo noi, beccatevi le nostre Pills dall’effetto duraturo e immediato.

Ida Diana Marinelli
Cibo Matto – Viva! La Woman (USA 2006)/ Pop-Trip Hop  2/5
Duetto newyorchese che dopo molti anni di silenzio e rottura torna, per (s)fortuna, sulla scena musicale con un sound che contamina Pop con Elettronica e il solito stile da giapponesine doc.
Lita Ford – Lita (USA 1988)/Pop-Rock-Metal   3.5/5
Terzo album della chitarrista/cantante statunitense. L’album del successo, molto anni ottanta, una via di mezzo tra Madonna e Bon Jovi.

Silvio Don Pizzica
Captain Beefheart – Trout Mask Replica (USA 1969)   Avant-Rock   5/5
Per Scaruffi l’unico album Rock che valga la pena di essere ascoltato, per me il disco che ha cambiato il mio modo di concepire la musica.
Pink Floyd – The Piper at the Gates of Dawn (UK 1967)   Psych-Rock   5/5
L’unico album dove Barrett abbia un ruolo chiave è l’unico con quel sound speciale ironicamente lisergico. Da qui in poi la musica dei Pink Floyd non sarà più la stessa.

Marco Lavagno
Ministri – Per un Passato Migliore (ITA 2013) Rock  4/5
Finalmente il disco che aspettavamo dai Ministri. La band non pecca più di pressappochismo e sforna un album semplicemente pieno zeppo di grandi pezzi rock, concreti e reali. Suonati con la solita rabbia. Rabbia di coloro a cui (per fortuna) ribolle ancora il sangue.
Eric Clapton – Slowhand (UK 1977) Rock/Blues 4.5/5
Sommerse tra le radici del passato spiccano alcune grandi composizioni del chitarrista britannico: “Wonderful Tonight” e “Lay Down Sally” proiettano avanti una musica mai destinata a morire.

Ulderico Liberatore
Slo Burn – Amusing the Amazing (USA 1996) Stoner Rock 4/5
Album e band praticamente sconosciuti ma l’idea partita da John Garcia, con la sua inimitabile voce, non fa altro che essere un estensione dei Kyuss e un pezzo imperdibile di musica tostissima.

Lorenzo Cetrangolo
Arctic Monkeys – Whatever People Say I Am, I Am Not (UK 2006) Indie Rock, Garage 4.5/5
Il debutto degli alfieri indie del nuovo millennio. Un disco che, bene o male, ha segnato un’epoca.
Vari – Nightmare Revisited (USA 2008) Alternative Rock, metal 3.5/5
Compilation di cover dalla colonna sonora di Nightmare Before Christmas, capolavoro di stampo burtoniano del 1993. Con, tra gli altri: Korn, Rise Against, Marilyn Manson, Rodrigo y Gabriela, Amy Lee…
Pino Daniele – Dimmi Cosa Succede Sulla Terra (ITA 1997) Pop, Funk, Soul 4/5
Un bel disco di pop italiano, scritto e suonato bene. Da segnalare il piccolo gioiellino naif di “Canto do mar”, con Raiz.

Riccardo Merolli
Interpol – Antics (UK 2004) Alternative Rock 3.5/5
Un modo fantasioso di suonare Rock, una maniera inconfondibile soprattutto nella voce. Un disco interessante con tante cose da dire. Non è il paradiso ma neanche l’inferno.

 

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Progetto Luna – Ogni tanto sento le voci

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Max Paudice voce e chitarra, Marco Francavilla tastiere e cori, Alessandro De Carne basso e cori, Gionathan d’Orazio batteria ed Emanuele Nifosi percussioni formano la band torinese nata nel 2009: i Progetto Luna. Dal nome è abbastanza chiara l’influenza e il significato del loro esistere: la luna che accompagna il finir dei giorni, le notti, le paure e i sogni. La luna che diventa anche e soprattutto progetto multimediale per accompagnare la musica, i musicisti e i viandanti, con video, danze, effetti sonori e di luci. In tutto ciò si ricordano i primi Pink Floyd nelle loro esibizioni psichedeliche/allucinogene e i Muse per l’elettronica che diventa il mezzo (e non il fine) di massima espressione.

Per i Progetto Luna dopo la vittoria al concorso nazionale Rockelo 2011 e la partecipazione a Sanremo Autori nel 2012 è anche la volta dell’uscita del loro primo lavoro Ogni Tanto Sento le Voci, album di dodici tracce nelle quali il genere è subito facilmente inquadrabile: Rock.             
Quel Rock orecchiabile che come nel caso del primo brano “Fastidiosi Rumori” ti rimane nell’orecchio per parecchi giorni. Quel Rock che può anche contenere altro, come in “Onda” che inizia con suoni arabeggianti per poi sfociare nel regge sottolineando un testo impegnato. “Sono Vivo”, invece, con il suo testo essenziale sfodera un bel timbro chitarristico caldo e preciso. La vocalità invece appare sguaiata soprattutto nelle finali molto aperte, elemento che può un tantino infastidire e che senza il quale i brani sarebbero più apprezzabili e godibili. In “Ridere di Nuovo” protagoniste sono le tastiere che assieme agli altri strumenti creano un buon amalgama musicale, come in “Respira”, quinto brano dell’album il cui testo evoca esperienze soggettive e particolari. I testi del sesto e settimo brano “10” e “Un Mondo senza Re” sottolineano le oggettive speranze per il futuro e gli imprescindibili ostacoli della vita, avvicinandosi all’elettronica e a qualcosa di già sentito musicalmente parlando. Il brano che da il titolo all’album “Ogni Tanto Sento le Voci” è quello più interessante soprattutto per la struttura musicale e come il buon Rock che si rispetti arriva la ballata “Quello che Vorrei”, dolce, romantica, sospirata e da ballare stretti-stretti in un abbraccio. Gli ultimi due brani di Ogni Tanto Sento le Voci, invece, si rinchiudono in quell’atmosfera già sentita spesse volte durante il lavoro.

Un lavoro che oltre ai suoi tanti pregi (approccio multimediale, testi impegnati, buon’amalgama strumentale, belle chitarre, grafica interessante dell’album e soprattutto del sito web) appare certe volte quasi scolastico nei brani in cui si avverte quell’elemento eccessivamente orecchiabile e già vissuto. La parte vocale potrebbe migliorare non solo nella chiusura delle frasi ma anche nella comprensione dei testi che certe volte appare difficile, e infine in questo miglioramento generale entra anche l’Elettronica che potrebbe svilupparsi ulteriormente per diventare il genere predominante assieme al Rock senza rimanere in secondo piano.                                                          

Insomma, un album che c’è, esiste, ma che non entusiasma se non fosse per una o due canzoni e che necessiterebbe di vari miglioramenti per fare emergere ancora di più tutti i suoi buoni elementi.
http://www.youtube.com/watch?v=fjox_bzSr7U

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