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Kreativ In Den Boden – Disco Suicide

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In questi tempi bui e sclerotici, tra depressioni di massa e crisi economiche, le otto tracce più la cover dei ChromeDrown” contenute nel disco “Disco Suicide” dei milanesi Kreativ In Den Boden si potrebbero benissimo candidare a soundtrack, a ricamo sonoro, proprio del momento storico dalle profonde tinte nere e color fango che corre, e se è vero che peso aggiunge peso, per il  nichilismo, il pessimismo, la disillusione ed il No-Future declamato e suonato qui dentro, una prepotente “toccata” agli “apparati” è d’uopo e necessaria come l’ossigeno che si respira.

La collocazione ideale del disco sono gli anni Ottanta, la Germania fredda della Neue Deutsche Welle, le comparazioni con  Skynny Puppy o Throbbing Gristle e tutto il cosmique elettronico, la cold-wave e tenue tinte industrial, un sound eccentrico che cerca a tutti i costi di risultare “pessimista” e cieco; per quanto il lavoro di produzione sia pregevole, i risultati sono più altalenanti che convincenti e mostrano una band che vuole sperimentare, esplorare, ma che gira su sé stessa, che non trova sbocchi ed impronte sulle quali tagliare un’uscita più che necessaria; paesaggi desolati, animi raggrinziti e sintetici cuori sfasati fanno parte del bagaglio lirico della poetica “negazionista” che i  KIDB portano a compimento in questa carrellata refrattaria ad ogni minimo sollecito ottimista.

Un lavoro che calca la mano sull’electro-minimalismo alla DevoClub”, nei sintetici pulse dance “Electronic warfare”, striscia laconico in paesaggi post-atomici “Like the wave of the sea” e si fa marziale nel salto nel vuoto di “You are still queen”, una possibile hit la potrebbe configurare la tribalità solenne che sbatte in “Happiness brings loneliness”, dopodiché, sebbene plasmato da buoni musicisti, il disco risulta a fine giro troppo dispersivo e soffocante, che non riesce ad emergere dalla pletora dell’attuale scena sovraffollata elettronica.

Aspettiamo la prossima avventura dei nostri, per adesso, gli si può solo concedere qualche ascolto mentre si pensa ad altro.

PS: su con la vita!

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Chester Gorilla – Solo Guai Ep

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A noi piacciono così, visionari e amplificati, assolutamente genuini nel loro grattar di voce che fa balance tra hard-blues, convulsioni rap, sofferenze di corde elettrificate e tesissime e scatarri punkyes, pruriti heavy e stati calorici inimmaginabili, si, ci piacciono cosi questi palermitani Chester Gorilla, qui al loro primo passo ufficiale “Solo guai Ep”, cinque tracce intrise di utopia e amore per un certo dosaggio psichedelico influenzato dai sixties, da qualche icona di quella decade, anche contrapposte – come  Eric Sardinas e Uriah Heep, e che comunque vanno in brodo di giuggiole a contatto con i woofer dell’impianto stereo.

Dopo una serie di rimaneggiamenti nella line-up, ora il quartetto siculo è al massimo della forza d’insieme, testimoniata, se non altro, da questa  tracklist ottimamente sporca, grezza e vissuta come si deve, un insieme di pezzi che bruciano sul sacro altare del rock contaminato e riverberato, una scheggia sonica che aggroviglia orecchi e sublima certi amarcord inconfessabili di vecchi rockers; una formazione che riesce a stabilire un buon convivere tra sounds storici e il vezzo underground, un certo romanticismo elettrico con una dolce violenza di pedaliere; e per fare il confronto basta apprendere da “Another day” la lascivia hard-blues alternata di primitivi T.Rex con bridges di cordami Zeppeliniani, lo shuffle Litfibaniano messo a pareggio con lo sviso alla Humble PieVoglio solo guai”, “Genio della lampada”, lo speed battagliero rap di “Che me ne fotte” traccia a confine immaginario col gioiello dell’intero lotto sonico, “Sometimes”, magnifica sospensione “ubriaca” e smaniosamente stonata che si struscia e finisce in una eiaculazione svisata, degna sensazione dei grandi olimpi Heavy-metal, delle insaziabili scaricate di energie, d’anime e diavoli.

Questa voce al comando dei CG, diabolico trasporto tra le vene gonfie di Manuel Agnelli e il Kelly Jones degli Stereophonics, si raccoglie, incanta e comincia a girare su sé stessa, cala l’oscurità e la dilatazione-riverbero si fa incontrollabile, mentre il resto della band si da da fare per ucciderci con un’overdose di droghe col jack.

Chester Gorilla are: Danilo Lombardo voice, Daniele Caviglia guitar, Filippo Caviglia bass and Gabriele D’Armetta drums.

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Efram – Il silenzio è d’argento

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Sono tornati in quei pochi metri quadri di quella saletta di Airasca, ora chiamata il Nanhouse Studio, dove sono venuti alla luce anni fa, e incidono il loro nuovo disco interamente strumentale, una forma musicale in bilico tra post-rock e rinascite a tempo determinato di wave consumate; loro sono gli Efram, formazione piemontese qui con il nuovo disco “Il silenzio è d’argento”, una dinamica che – fregandocene alla grande di tutti i calcoli, sigle, codici e DR qui o la – vogliamo valutare cosi, semplicemente ascoltando e registrando le emozioni che ci arrivano dai suoni o dai timbri e dando delle “impression” su quei numeri messi al posto dei titoli in tracklist e ai posteri poi l’ardua sentenza, se  posteri si incontreranno..

Un fluido elettrico e sensorialmente ondifrago prende tutti i quasi trenta minuti del giro disco e si è portati a concentrasi sull’attività strumentale in crescendo, che man mano lievita e penetra come un solstizio amaro e laconico in tutti i pori dell’immaginazione, in tutti gli anfratti dell’ascolto; tutto sommato difficile resistere al fascino muto di questa basicità interiore e solinga, da una parte vive un romanticismo liquido e amniotico, dall’altra, invece, esplosioni elettriche, disperazione e goduria di scosse porpora che abbagliano di cromatismi allucinati, una guerra tra forza e dolcezza che in sette melodie rarefatte fanno l’amore senza una pace decretata. Ovvio si sa da sempre che un disco “instrumental” può sempre correre il rischio sacrosanto di non essere consumato e tantomeno albergato nella memoria, ma questi Efram glissano il pericolo in maniera egregia, forse per la non pesantezza lirica o magari per il tocco strumentale che rimane sempre e comunque sospeso sopra la testa dell’ascolto, comunque tracce, emozioni  e pads tecnici che non deflettono da un’etica che rimane rigorosamente post-immaginationally.

A voi provare il volo che gli Efram vi propongono, a voi il piacere di decifrare tra i numeri della list quale siano gli stati sonori più idonei  per attraversare il loro mondo di “correnti elettriche” e radenti pronunciati; dall’1 al 7 è tutto uno sviluppo di armonico e vibrazioni che all’inizio danno un pizzico di apatia, poi una volta “fatte parlare in silenzio” le adotti come personali lezioni di volo.

Immaginariamente bello, realmente altrettanto.

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