L’italiano è una lingua che si modella difficilmente su una canzone, specie quando l’attenzione al testo è tale per cui è complesso sostituire una parola con un’altra senza che si perda l’esatta sfumatura di senso che si voleva dare.
Nell’alternative rock italiano, poi, si ha spesso la sensazione che sia già stato detto tutto, tanto nelle liriche, quanto nelle sonorità.
I Pois Noir, quattro ragazzi di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, sembrano patire un po’ proprio questa situazione. Fare alternative in Italia, ultimamente, è sinonimo universalmente accettato di impegno socio-politico e di riflessione generazionale. È la nostra Italia, ci sta, ma è anche vero che quando ci sono gruppi come i Ministri, Le luci della centrale elettrica e il Teatro degli Orrori, è veramente difficile sperare di poter dire qualcosa di nuovo, di almeno altrettanto incisivo e con la stessa profondità e competenza tecnica.
Lungi da me suggerire di rivoluzionare i testi accecandosi di fronte ai fatti quotidiani della nostra penisola o fingendo di non essere membri di una generazione tendenzialmente precaria e oscillante tra rabbia e frustrazione: dico solo che è molto difficile dare un contributivo significativo senza rischiare di essere un’altra voce persa nel coro degli indignati.
C’è grande attenzione ai testi nelle canzoni dei Pois Noir, probabilmente scritti addirittura prima della musica, visto che non sempre gli accenti quadrano perfettamente con l’andamento musicale (una cosa che personalmente trovo fastidiosissima) e si sente la ricerca di un sound personale, che si discosti un pochino dalle sonorità del rock nostrano, con l’aggiunga di tastiere spesso con funzione più rumoristica che melodica e il ricorso a ritmi in levare, ma manca qualcosa.
In un brano come Il banchetto dei nuovi dei, ad esempio, manca un po’ di personalità vocale, visto che, per quanto la capacità tecnica emerga con forza, timbro e linee scelte ricalcano troppo quelle di Davide Autelitano dei Ministri e di Samuel Romano dei Subsonica.
Thumbs up invece, per la costruzione di Tempo: ritmo veloce e incalzante, tastiere che arpeggiano ipnotiche, un bel ritornello molto orecchiabile e strofe arrabbiate (l’unica pecca, proprio a voler fare i pignoli, è che le parole un po’ si perdono a causa della velocità).
Facilmente l’occidente è proprio l’esempio di come si possano dire cose anche di un certo spessore, anche espresse bene, con attenzione e con passione, ma non a sufficienza, finendo per essere banali e ridondanti: il ritornello non aggancia abbastanza l’attenzione dell’ascoltatore, la traccia passa e non lascia nulla. Peccato.
Più personale è Svanisce (l’anima), con dei bei cambi di tempo e di registro vocale, dall’arioso e melodico (con tanto di cori a rinforzare l’armonia), all’amareggiato, urlato, sforzato.
Molto più tirata, cattiva, veramente indignata, ma anche meditativa è Agorafobia, un tempo staccato piuttosto veloce, riff di chitarre di poche note ma efficaci, una chiusura netta ma armonicamente sospesa, che dà l’idea di un ritorno, ciclico, di questa situazione soffocante, come se, sconfitti, ci rassegnassimo al nostro destino.
L’impressione complessiva è che i Pois Noir sappiano giostrare meglio le canzoni veloci, chitarrose e furibonde. Ho la convinzione che questi ragazzi siano veramente bravi e che abbiano davvero qualcosa da dire, ma che debbano ancora trovare una strada più personale per riuscire ad affiorare sul mercato indipendente.