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Lana Del Rey – Ultraviolence
Il sadcore hollywoodiano del suo sophomore è una dichiarazione d’intenti.
Continue ReadingMichael Kiwanuka – Home Again
Ne parlano oramai tutti di questo ventiseienne ugandese ma trapiantato a Londra, e ne parlano come la nuova stella ascendente della piazza inglese e non solo; Michael Kiwanuka cresciuto a pane e Otis Redding, Marving Gaye, Curtis Mayfield per citarni alcuni, mette nella sua musica tutto il calore della spiritualità, valori, umanità e una sfilza di emozioni che non nascondono l’essenzialità di suoni vintage come forza e stile delle perle che la storia della musica ci ha donato; “Home again” è il passo ufficiale di questo giovane cantante e polistrumentista, uno stupendo viaggio attraverso la delicatezza e la passione contenute nel gospel e soul, poesie doloranti e maestose che ascoltarle ti trafiggono l’anima e felicemente ti colorano la faccia di nero.
Dieci tracce, dieci gemme di vissuto al 100%, una tracklist morbida e setosa che gira nello stereo come una carezza scottante, l’ombra di Sam Cooke che avviluppa tutto e tutti ed una onestà di fondo che fa di questo “emergente” un artista già con le doti dei grandi crooner, un ragazzo che con le sue armonie già parla al mondo allargato degli ascolti, agli orecchi delle moltitudini; per lui non valgono tecniche o geometrie di note, ma il modo, il sentimento con cui queste canzoni devono raggiungere gli ascoltatori, perché come dice lui stesso “.. la musica non deve essere ferma nella canzone, ma fermarsi nell’animo per poi guardarci dentro..”.
Non servono tante parole per descrivere un ritaglio di cielo come questo disco, occorre donarsi e arrivare al centro focale di queste musiche e lasciare momentaneamente il mondo ed i suoi carichi assurdi fuori dalla porta, poi in silenzio rivalutare parole come speranza “Home again”, accarezzare la fratellanza “I wan’t lie”, ritrovare il senso giusto del dove camminare “Tell me a tale” oppure tra le tante, scandagliare nel profondo la tua interpretazione di un dio “I’m getting ready”, e credetemi, ascoltare cose cosi nei tempi bui che corriamo, oltre che un sollievo, suona come una strana ma stupenda benedizione.
Scissor Sister – Magic Hour
Jack Shears, letteralmente prima donna a tutti gli effetti e non perchè sia dichiaratamente gay, al timone dei suoi Scissor Sister, continua a navigare in acque altamente glam disco, quella macchinazione perfetta – questo agli esordi – che del “micidiale attacco” ne ha fatto un baluardo della sorpresa, dello stupore; questo ad orecchio critico poteva esaltare appunto nella prima vita della band, ma ora con l’arrivo del nuovo “Magic Hour”, tutto comincia ad appiattirsi e legarsi al già sentito di prassi, nonostante gli sculettamenti, gli urletti e le tutine in latex che “evidenziano” pudende e push-up di scena.
Il disco ha il sangue e l’ingordigia di un disco Bee Gees, tanto da sembrare un loro prodotto finito e spacciato sotto falso nome, tutto si coagula intorno a certe estetiche – anche forzate – che non appartengono a questo molestatori da palcoscenico oltranzisti, ed è duro pagare poi pegno per una creatività che è scesa sotto terra, non più provvidenziale e tantomeno eccentrica come tutt’ora ci vorrebbero far credere Le Sorelle Scissor, qui il plagio non è alle porte ma forse è già entrato in qualche studio di avvocato, ma queste sono storie che non ci devono appartenere, abbiamo già tanti nostri azzi da pelare, come si dice.
Magic Hour è un disco iconografico, che guarda più alla frivolezza che alla sostanza, da ballare senza nemmeno pensare chi lo suoni se non i citati Gibbs Brothers, nulla che possa dimostrare una minima evoluzione o carattere che Shears e soci almeno potrebbero giocarsi – in angolo – come bsiders tra un vero disco e l’altro, ma nulla, e allora definire che questa formazione sia giunta al capolinea è d’obbligo dirlo per non prenderci e farci prendere in giro; una sbirciatina tra la tracklist? Benissimo prendiamo con le molle tutto quello che faceva pippone negli Ottanta “Somewhere”, “Shady love”, “F*** yeah”, la Minogue che viene depredata magistralmente tra le righe di “Only the horses”, una pattinata sui floor del fu Studio 54 Newyorkese “Self control” e, salvando per un capello la bella ballatona confidenziale “The secret life of letters”, tralasciamo il resto tra effluvi electropop e profumi agrumati di Dolce & Gabbana.
Il disco è già campione di incassi, adulato dalle comunità omosex e preso di mira da ortodossi benpensanti, ma le sorelle se ne fregano del mondo che le sta a guardare ed ascoltare, loro vivono in un mondo a parte, ma vivono dentro anche la sensazione che le loro mossette gay-friendly hanno fatto già il tempo e non incantano più nessuno.