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Benjamin Clementine – At Least for Now

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Come non innamorarsi di questo ragazzo, partito dalla periferia di Londra alla volta di Parigi, dove ha vissuto senza casa, suonando per strada, nei bar, negli hotel? Benjamin Clementine si siede al pianoforte e si scoperchia l’anima. Arriva dal Soul di Nina Simone, dal songwriting di Leonard Cohen, ma anche da Erik Satie, Antony Hegarty, Jimi Hendrix. C’è nella sua musica, piena di parole e gonfia di una voce calda, ritmica come un martello o liscia come velluto, tutto un mondo, leggermente sfalsato rispetto al nostro. Dalla dolcezza appuntita e struggente di “Gone”, perla che chiude il disco e che ha lo spessore di un classico d’altri tempi, alle ritmiche salterine di “Adios” che accompagnano linee melodiche spezzate o rapidissime, ironiche, fino ad arrivare al parlato e a momenti quasi lirici: At Least For Now è un esordio complesso ma profondo, che porta dentro dei semi preziosissimi, che, coltivati bene, sotto il sole, possono portare alla nascita di una personalità importante, un folle che si muove tra Pop, Jazz, Soul, Spoken Word e musica classica come se non avesse un passaporto: i confini solo linee tracciate nel niente, unica stella polare una musica piena, intensa, vibrante. Come non farsi rapire dall’intensità di “Cornerstone”, dall’effetto straniante da musical di “Winston Churchill’s Boy”, dalla malinconia folle, quasi animale, di “Quiver A Little”, dal Pop stiloso e radiofonico di “London”? Arrangiamenti scarni, molto pianoforte, una voce dalla personalità imponente, qualche percussione, archi che appaiono e scompaiono: tutto costruito ad arte intorno a Benjamin Clementine, gradita nuova scoperta di questo 2015. Ci metterà qualche ascolto a conquistarvi, ma se avete un cuore non vi deluderà.

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Belle And Sebastian – Girls In Peacetime Want To Dance

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Nono disco per la band scozzese, Girls In Peacetime Want To Dance è un concentrato di morbido Indie-Rock e luccicante Pop radiofonico, con una spruzzata di Folk nei ritmi e nelle armonie e quel tanto che basta di elettronica danzereccia per far muovere teste e piedi. Precisi come un orologio (12 brani per circa un’ora di musica) i Belle And Sebastian sfornano un caleidoscopio di emotività da sing along, motivetti fischiettabili, ritmi in quattro da video in slowmo, richiami Eighties e morbidezza pacata e sussurante. Un breviario del successo facile nell’Anno Domini 2015, dove poco s’inventa e tutto si ricicla (per bene, ci mancherebbe), l’importante è l’atteggiamento (musicale, ché il resto non sappiamo né vogliamo sapere): hip, cool, chiamatelo come volete, insomma, roba che funziona, garantita al 100%. Mi rimarrà nel cuore questo disco? Non so, ma non ci scommetterei troppo. Nelle linee affusolate delle melodie catchy, nei ritmi comodi per orecchie e glutei, nella morbidezza (sapiente, competente, senza passi falsi né scomodità) di un Pop perfettamente calibrato per il godimento senza troppi pensieri né preoccupazioni si nasconde sempre la trappola atavica di brani senza unghie, che non feriscono, ma proprio per questo non lasciano il segno. Un ottimo prodotto di musica di consumo, e, a costo di ripetermi, lo preciso: Pop architettato magnificamente, arrangiato e prodotto con gusto. Che però sulle mie papille sa di sottofondo, di riempitivo, di accompagnamento. Un perfetto contorno che per me non sarà mai una portata principale. Ma de gustibus…

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Andrea Arnoldi E Il Peso Del Corpo – Le Cose Vanno Usate Le Persone Vanno Amate

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È, pare, un disco sulla morte, questo Le Cose Vanno Usate Le Persone Vanno Amate dello stralunato Andrea Arnoldi, accompagnato da tutta una serie di musicisti che va sotto il nome de Il Peso Del Corpo. Ma questo suo status di concept escatologico potrebbe sviare l’attenzione, potrebbe confondere e dare un’idea sbagliata: Le Cose Vanno Usate ecc. è un disco di cantautorato leggero (e non per questo senz’anima, anzi), canzoni d’arpeggi lievi di chitarra acustica affondate in atmosfere cangianti fatte di strumenti vari e curiosi, archi, theremin, organetti, fiati, sitar, campane. Una scrittura che sa essere impalpabile e piena di grazia, disposta a farsi indietro per dare spazio agli arrangiamenti, vero gioiello di questo disco che si espande e si gonfia in code e introduzioni oniriche, celesti, su armonie comode ma prendendo strade anche poco battute nel folto selvatico di volumi contenuti e rigoglio sonoro, ricco di timbriche originali e sognanti. La scrittura di Andrea Arnoldi è sommessa e gentile, si muove per scarti sottili, evanescenti (“tu risplendi come i melograni / e hai rami al posto delle mani / io sono vuoto come un cruciverba / e sulla testa mi cresce l’erba”, da “Àncora”; “E quanti anni abbiamo adesso / e dove siamo? / Ne avete quasi mille / e siete biologia”, da “L’Ortica”; “e per ringiovanire recatevi in un campo / scavatevi una fossa, sdraiatevici dentro / davvero è poca cosa ma del vostro triste corpo / si nutrirà una rosa / e questo, che io sappia / è il solo scudo contro l’aldilà”, da “Ringiovanimento”). Una poetica delle leggerezza, del peso nascosto e alleggerito, sussurrato, in equilibrio. Unica pecca la voce, poco incisiva, con un timbro che a volte stride, ma che, bisogna riconoscerlo, è stata adattata il più possibile al mood etereo del disco. È un disco da scoprire e riscoprire, sperando che non passi senza lasciare traccia, sperando che rimanga nell’aria il tempo di farlo penetrare nelle orecchie e nella testa come l’acqua che filtra nella terra o come la luce che ci bagna le retine sotto le palpebre chiuse in un giorno di sole. “Non voglio perdere la meraviglia / di amar qualcosa che non mi somiglia”.

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Fabi Silvestri Gazzè – Il Padrone della Festa

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Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e Max Gazzè insieme per un album corale, in parte scritto a sei mani e in parte fatto di apporti personali dei tre cantautori della scuola romana. Apprendo la notizia sul web ad aprile dello scorso anno, a ridosso dell’uscita del primo singolo estratto, “Life is Sweet”. Un banner pubblicitario lampeggia sulla pagina web, sono mio malgrado alla ricerca di una macchina nuova e non c’è modo di sfuggire agli algoritmi della rete, e accanto all’articolo l’ironia della sorte ha appiccicato un annuncio che recita “usato garantito”. Sono in molti a dire che l’arrivo di un lavoro corale fosse prevedibile e alcuni lo auspicavano da tempo. A metà settembre, la release ufficiale de Il Padrone della Festa. È inequivocabile sin dal primissimo ascolto che il succitato padrone qui è Fabi. Tra le dodici tracce individuo i brani di Max Gazzè con un pizzico di fatica in più di quella che avevo preventivato. Il suo sound ironico fa capolino solo in “Arsenico”, giustapposizione di fiati e liriche sottili, dopo tre brani sufficienti a sancire il ruolo di deus ex machina di Niccolò. Non si discute l’eccelsa fattura del prodotto finale. Esecuzione raffinata e cura puntuale nelle registrazioni sono garantite da un esercito scelto di musicisti, tra cui Roberto Angelini e Adriano Viterbini solo per citarne un paio, oltre che ovviamente dall’esperienza dei tre generali. Ciò nonostante resto perplessa sulle dichiarazioni del trio sulla natura ludica e spontanea dell’esperimento. Il Padrone della Festa ha piuttosto l’aspetto di un’esca da lanciare nei palasport, non di un divertente e sperimentale mescolarsi. Eppure in passato li avevamo visti collaborare fruttuosamente (indimenticabile “Vento d’Estate” di Fabi e Gazzè, raro caso di pop contagioso e al contempo raffinato) o guidarsi vicendevolmente l’uno nelle fatiche dell’altro senza contaminarne la natura. Li ritroviamo ora miscelati in un modo che finisce per appiattire le peculiarità di ognuno, quei dettagli che pur gravitando nello stesso circuito li avevano sempre piacevolmente contraddistinti. Inevitabile è perciò che questo “usato garantito” che i tre propongono oggi suoni meno potente se paragonato agli episodi del passato di ognuno dei tre. Sì, insomma, sono un po’ incazzata, perché penso che con qualche sforzo in più e qualche sold out in meno ora io avrei tre ottimi dischi da ascoltare mentre invece me ne ritrovo uno soltanto con cui devo anche in qualche modo tentare di far pace, ed anche che dopo il successo del tour in Italia e in Europa la situazione appaia ormai consolidata e dovrò probabilmente accontentarmi di metter su “Lo Spigolo Tondo” quando avrò voglia della vocazione gitana di Silvestri, di “Canzone di Anna” come condensato degli arrangiamenti orchestrali di cui Fabi è capace, e accenderò un cero a “Il Dio delle Piccole Cose” pregandolo di concedermi a breve un Max nella sua forma migliore, tutto intero.

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The Fence – 14 – The Fence EP

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Mi ha molto stupito quest’ultima fatica de The Fence, soprattutto per l’eclettismo e la varietà della proposta. Il quintetto veneto miscela andamenti Rock aperti e poco graffianti (“Nowhere Land”, con synth e ritmiche molto eighties), Pop con una vocazione fortemente mainstream (“Don’t Be Sad”, assai radiofonico, o “Run And Hide”, con i suoi archi e il suo andamento rilassato), addirittura qualcosa che pare uscito dagli anni ’60 più morbidi e trippy (“All That Matters to Me”). Certo, il rischio che ci si porta sempre dietro in questi casi è la mancanza di coesione, ma, salvo qualche caso, il prodotto tiene, resiste. Buone anche le capacità tecniche, dalla voce di Ale (con qualcosa di femmineo nel timbro che funziona molto bene) agli arrangiamenti di piano e synth, che si inseriscono in modo degno dentro armonie quasi mai banali. Le ombre di 14 – The Fence EP stanno più nella messa in scena, in un amalgama sonoro che non sempre risulta omogeneo, o in alcuni difetti di pronuncia che rendono chiara la provenienza non anglosassone della band, dettagli che non permettono all’EP di passare mascherato da opera di livello (cosa che, per quanto riguarda la scrittura, al netto di alcune ingenuità, potrebbe essere stata anche possibile, se non addirittura probabile). In soldoni, molte potenzialità che forse montate in modo diverso e distribuite con più malizia e gusto avrebbero potuto creare un disco veramente commerciale, di un Pop Rock di livello, mainstream, competente, di musica suadente, intrigante, energica e vellutata insieme. Per ora, un tentativo riuscito a metà.

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Cadori – Cadori

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Sono poche le volte che riesco ad emozionarmi con la musica, o meglio, ultimamente le cose sono andate in netto peggioramento. Mancanza di stimoli, produzioni mega pompate ma che in realtà non sono altro che scarni provini, una brutta copia di quello che poteva essere il cantautorato di una volta. Poi ascolto l’omonimo disco di Cadori e quasi piango, un misto sensazionale d’amore a calibrazione lo-fi. Perché fare il cantautore negli anni dieci è maledettamente difficile, la cattiveria liquida violentemente la passione, e senza cuore difficilmente si scrivono belle canzoni. Giacomo Giunchedi in arte Cadori dimostra di avere un cuore enorme dal quale farsi ispirare per la composizione dei propri brani. In “Cauntri #” respiro subito l’odore della classe, di un disco che fin dalle prime note emana aria fresca ma soprattutto pulita. E chi non ha bisogno di respirare aria pulita? Di aprire le finestre e godersi la naturalezza della vita? Sentori di anni settanta nella successiva “Fuori Cadono Fulmini”, almeno mi sembra di percepire ciò dai riff che accompagnano una sussurrata voce. Vorrei dedicare ad ogni donna amata parte del testo:”Tu invece sei diversa, perché non cadi mai”. Il disco d’esordio di Cadori è senza ombra di dubbio un lavoro grigio nell’animo, un rivolgersi dolcemente ad una lei, la tristezza è capace di regalare forti sensazioni quando si parla d’amore. Ed io percepisco tanto amore in questo lavoro nonostante lievi sperimentazioni elettroniche che non hanno alcun ruolo se non di attualizzare l’opera (“La Brutta Musica”). E non condivido troppo questa scelta, avrei seguito una linea più cantautorale classica, con meno fronzoli strumentali e più sentimento. Cadori prosegue il resto del disco con la stessa naturalezza compositiva dei primi pezzi, un concept che sembra seguire una linea definita tra gli spazi delle sensazioni. Il finale è nelle mani della bellissima “Le Cose”, poco da dire, viene quasi voglia di urlare, di spaccarsi lo stomaco, di essere liberi di amare incondizionatamente. In fondo le condizioni sono soltanto delle regole fatte per essere violate. L’omonimo esordio di Cadori è semplice, attuale nella sua freschezza, inizio già ad amare quest’uomo e la musica che rappresenta. Nel genere è tra le migliori uscite dell’anno.

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The Carriage – Alterazioni

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Devo dire che questo primo LP de The Carriage, Alterazioni, mi ha sorpreso, e non poco. Purtroppo non è stata una sorpresa in positivo. Leggendo di loro nella cartella stampa, scoprendo i loro obiettivi e i loro desideri, oltre che i loro background tecnicamente di tutto rispetto, mi aspettavo tutto un altro disco. Inb4: no, non ho giudicato il disco misurandolo con le mie aspettative. Semplicemente volevo palesare la mia sorpresa nel constatare un distacco così ampio tra la carta e il suono, tra il racconto e il risultato. Alterazioni è un disco mediocre, suonato, nei singoli comparti, anche abbastanza bene (ad esempio, la vocalità di Matteo Mora è di tutto rispetto, usa la voce in modo molto buono e molto intenso, anche se forse c’è da limitarsi un po’ in istrionismo). È il risultato che non convince appieno: tra i suoni non eccelsi (la chitarre non spingono e la batteria è molle) e la composizione fuori fuoco (va bene voler essere sperimentali – anzi, tanto di cappello – ma poi le canzoni devono stare in piedi, non basta incastrare qualche giro d’accordi non proprio originale su strutture inconsuete per farle funzionare) si fa fatica a concentrarsi sul nucleo fondante del disco, sullo “sguardo” della band, che non si capisce bene dove è puntato, cosa sta fissando, né perché. Anche i testi non si sforzano granché, sia a livello ritmico che di contenuti, e fanno aumentare la sensazione di scollatura tra le varie parti dell’insieme. Non è un disco da buttare, intendiamoci: ci sono passaggi interessanti qua e là (qualcosa di “In Medias Res” non mi è dispiaciuta, per esempio, così come l’introduzione arabeggiante de “L’Intrusa”, e in generale ci sono idee curiose sparse tra le dieci tracce), però lo trovo abbastanza fuori fuoco, ed è più la somma di piccoli difetti che un grande e irrimediabile errore generale. Messe a posto le storture nelle sonorità e nella scrittura, probabilmente The Carriage può sfornare qualcosa di molto, molto più interessante. Alterazioni paga un po’ lo scotto di non avere alle spalle una visione chiara del risultato, cosa che gli dà, purtroppo, un aspetto alquanto amorfo, dall’appeal limitato. La band, sulla carta, ha i numeri per poter migliorare. Vedremo.

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L’Officina della Camomilla – Senontipiacefalostesso Due

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La band-giocattolo brainchild di Francesco De Leo torna ad un anno di distanza dall’esordio con il seguito, Senontipiacefalostesso Due, titolo esplicitamente strafottente e che già dà l’idea di quell’arroganza bambinesca e sognante che sorregge tutto l’immaginario de L’Officina della Camomilla. Più che il seguito del primo disco, comunque, Senontipiacefalostesso Due è considerabile come una sua seconda parte, e ne prosegue il discorso in modo omogeneo (è cosa nota che il repertorio de L’Officina sia pressoché infinito, e che lo sia stato già da prima dell’uscita su Garrincha). Abbiamo anche qui due direttrici che fanno da scheletro ai quindici brani del disco: un cantautorato giocattolo, naif, fatto di chitarre acustiche, arpeggi, pianoforti che gocciolano, archi malinconici, tastiere e synth; e un Post-punk indie dalle chitarrine acide e la batteria pestata, distorsioni spuntate da forbici arrotondate. Personalmente riesco a farmi convincere più dal primo dei due mood (“Piccola Sole Triste”, “E Londra e Londra”, “Gentilissimo Oh”, “Bucascuola”) che dal secondo, che mi sembra un po’ più paraculo, come se fosse un vezzo più superficiale (anche se, ogni tanto… per esempio, “Rivoltella”). In ogni caso, l’asso nella manica del quintetto è la voce di De Leo, e quando scrivo “voce” non intendo solo il timbro vocale e lo stile canoro, ma tutto il punto di vista, ingenuo e tagliente, meravigliato e cinico, spensierato e lunare, malinconico e ironico assieme. È su questo fulcro che gira tutta la band, e se non sapete farvi trascinare dai flussi di in-coscienza di questo “bambino stronzo” allora per voi ascoltare L’Officina della Camomilla sarà piuttosto una tortura che uno strano, vergognoso piacere. Che possa convincere o meno, De Leo si è creato un mondo, fatto di nazipunk e kebabbari, campi a grancassa, gente col labbro spaccato e meringhe e lexotan, biciclette e squatter, licei che sembrano fabbriche, muri che sbavano… uno stile inconfondibile, che per forza di cose divide in estimatori e bestemmiatori. Io, mio malgrado, mi trovo nel primo gruppo, ma sarò capace di lasciarmi andare senza sensi di colpa solo quando riusciranno a perdere la strafottenza indie sopra le righe, ché sembra sempre che debbano strafare per convincerci a schiaffi (“Biciclettapirata”, “Ho Visto un Nazipunk sul Tram”), quando potrebbero tranquillamente sussurrare storie nella penombra e farci innamorare perdutamente (“quella giovane donna appartiene a nessuno, e a nessun altro”). Spero, ardentemente, nel loro invecchiare.

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Nicolas J. Roncea – Eight (Part One)

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Prima parte di una trilogia di album contenenti ciascuno otto canzoni, Eight (Part One) di Nicolas J. Roncea nasce da alcune considerazione dell’artista sullo stato della musica dal vivo oggi: “L’interesse per la musica dal vivo, mi riferisco soprattutto a quella di nicchia, purtroppo è calato notevolmente e che la stragrande maggioranza degli appassionati ascolti musica quasi solo ed esclusivamente su Spotify o Youtube è una verità appurata e non è da considerarsi come una grande novità ormai. Sono orgoglioso degli ultimi brani che ho scritto ed ho pensato che tentare una nuova strada, utilizzare uno strumento per me ancora inedito, potesse essere un buon modo per arrivare a catturare l’attenzione di chi magari ad un mio concerto non ci sarà mai ed allargare i miei  orizzonti”. Roncea dunque dallo scorso gennaio presenta i suoi brani in anteprima su Youtube,  brani che poi andranno a formare, per l’appunto, tre album distribuiti digitalmente e, infine, un cofanetto fisico, che li conterrà tutti e tre. La prima parte è composta di canzoni per voce e chitarra, sulla scia dei songwriter di stampo anglosassone come Damien Rice, che infatti viene omaggiato con una cover posta in calce al disco, dove appare anche un pianoforte. Eight (part one) è dunque tutto qui: otto canzoni (anzi, sette, considerata la cover) di Folk in inglese, confezionato in maniera pregevole ma senza particolari guizzi, cosa peraltro dovuta anche alla voce di Roncea che non ha la delicatezza e il virtuosismo di un Damien Rice, ma non ha neanche la malinconica stortura di un Elliott Smith. Gli arrangiamenti sono per forza di cose minimali e lineari (come si è già detto, voce e chitarra) e quindi l’ascolto un poco ne risente. Le canzoni hanno una loro forza, ma questa si stempera nella prevedibilità del pacchetto. Aspettiamo il seguito della trilogia per osservare come si evolverà il progetto in un habitat meno scarno.

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Area765 – Altro da Fare

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Nel 2011 i Ratti della Sabina si sciolgono, abbandonati dal loro fondatore Roberto Billi. Ma i ragazzi della band hanno ancora molto da dire, e riformano la band senza Billi, la battezzano Area765 e, mentre portano dal vivo i brani storici in una veste più immediata e Rock, pubblicano un nuovo primo disco, Volume Uno. Passa qualche anno e si arriva al presente: esce Altro da Fare, un lungo (diciotto brani) disco unplugged dove i quattro componenti della band si divertono a riarrangiare in chiave acustica pezzi tratti da Volume Uno e dalla lunga storia dei Ratti. Il risultato è piacevole, un disco leggero e fresco, davvero immediato, che si fa ascoltare con desiderio. I brani sono vari, e se gli arrangiamenti sono scarni e nudi, questo non fa che concentrare l’attenzione sul nucleo fondante dei pezzi, rendendo il disco un ottimo punto di partenza per chi volesse approcciare la band (anzi, in questo caso, “le” band) per la prima volta. I due inediti (“Altro da Fare” e “L’Ultimo Tango”) si inseriscono perfettamente nella lunga teoria di ballate sostenute dagli strumenti a corda (chitarre acustiche, bouzouki, dobro), da una voce che suona vicina e intima, da poche percussioni e ancor più rari strumenti solisti (violino soprattutto, ma anche diamonica, armonica). Un disco da consumare anche con facilità, se si vuole. Un disco semplice, ma non banale. Un disco che è un concentrato di ottime canzoni, distillate dalla storia pluriennale di una band che sa fare molto bene il suo mestiere. Come un concerto privato, solo per noi, sulla spiaggia, sotto le nuvole, senza pensare a niente.

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Jack White – Lazaretto

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Jack White è un tipo particolare, si sa, visibilmente eccentrico almeno nelle apparizioni ufficiali. Il suo look ultimamente è l’incrocio perfetto tra il surrogato Rock di Johnny Deep e un vampiro. Tanto eloquente è la cover di questo secondo e necessario album da solista; lui bianco pallido seduto su un trono di angeli, nel centro esatto della copertina, con la faccia imbruttita e una tinta blu glaciale che fa da sfondo. Diciamocelo, White, che ci piaccia o no, è uno che non lascia nulla al caso. Una chicca, se così può essere considerata, per i collezionisti, è il vinile: la testina del giradischi va posizionata alla fine del disco, verso il centro, l’album gira al contrario; sulle scanalature ci sono dei piccoli ologrammi raffiguranti gli angeli di copertina che risaltano alla luce e tengono i nostri occhi inchiodati sul disco che gira; la prima canzone sul lato B, “Just One Drink”, ha una doppia scanalatura che si traduce in una doppia intro, acustica/elettrica, in base a dove finisce l’ago della testina. Fissazioni?!

Ma arriviamo all’album, anzi, alla musica. Lazaretto è un’altalena in cui fluiscono sfumature di vari generi nella prosa Blues, oscura e psichedelica, di White. Una gestazione durata più di un anno al contrario dei precedenti album registrati in una manciata di giorni. White si chiude a Nashville nella sua Third Man Records, il suo Lazzaretto, luogo di confine per appestati e lebbrosi, catalizzando i suoni del suo passato e mettendo una distanza netta dagli White Stripes e trovando un mood più pieno, meno minimal. Tanta la strumentazione utilizzata ma permangono su tutto l’album soprattutto il magnifico suono del pedal steel di accompagnamento, i vari synth moog suonati alla barrelhouse come si faceva nei vecchi saloon western, mandolino Folk e ovviamente l’immancabile frastuono della sua chitarra elettrica; “High Ball Stepper” ne è un esempio perfetto. L’album si apre con “Three Women”, organo hammond in stile big band, propulsione R’n’B e disturbi di chitarra elettrificata. Si parte da qui, anche se la riconoscerete forse solo per il testo, questa è una cover del cieco (blind) Willie McTell (1928), alle radici del Blues quindi, alle radici della musica moderna. Tutto il disco risulta avvolgente, modulato a tal punto che si ascolta senza problemi, dal Blues più ritmico di “Lazaretto”, seconda traccia, a quello Country di “Temporary Ground”. Dalla malinconia desolante di “Whould You Fight for my Love?”, con i suoi cori tetri, alla più Punk “Just One Drink”, molto President of U.S.A..

Con questo lavoro White, dopo essere diventato una star con gli White Stripes, cerca la consacrazione nella Rock and Roll Hall of Fame. Undici pezzi impeccabili stilisticamente che ne fanno un lavoro da non perdere assolutamente. Godetevelo!

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Niagara – Don’t Take It Personally

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Se dovessi immaginare il secondo album dei Niagara come una creatura mitologica, sarebbe l’unione fantascientifica di essere vivente e macchina, un bio-computer di silicio e carbonio, nervi cellulari e codici binari, un centauro di metallo e carne, di corteccia lignea ed elettricità. Il duo di producer torinesi torna con Don’t Take It Personally, dieci brani che rappresentano il desiderio umano di sfruttare la tecnologia e, insieme, la lotta per rendere tale tecnologia più in sintonia con la natura. Questo meticciato d’idee è palpabile fin dalla prima traccia (“John Barrett”): i Niagara ci circondano di synth liquidi e frizzanti, ritmiche elettroniche che incedono uptempo e voci che oscillano tra il sussurro e la declamazione, ossessive ed ipnotiche (“Vanilla Cola”). Lo squarcio tra passato e futuro dei Niagara è suadente, rapisce la mente e le membra e vola lontano, nel tempo e nello spazio, tra echi orientali (“Curry Box”), glitch magici che diventano litanie desertiche immerse in arpeggiatori graffianti (“China Eclipse”), chitarre a sorpresa con finali beatlesiani (“Laes”) o echi di età elettroniche che vengono stratificate come ere geologiche, in un incedere che ricorda l’emersione del primo anfibio, in un incessante zoppicare mentre gli spuntano le zampe (“Speak & Tell”). Un disco di suggestioni, squisitamente elettronico ma con un’anima sperimentale, di ricerca leggera e Pop, aperta e pronta a tutto ma di facile presa, in cui le evoluzioni a spirale non si chiudono in cerchi autoreferenziali ma si aprono anche all’ascolto più occasionale, alla piacevolezza più immediata. Meno folli di un Flying Lotus ma con simile eleganza. Un disco da cui farsi cullare, da leggere alla profondità desiderata: tra divertimento animale ed elucubrazione sintetica.

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