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Al via il River Sound

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Dall’idea di accompagnare con la buona musica il ritmo naturalmente offerto della corrente del fiume Foro, nasce il River Sound Festival, che si terrà proprio sulle rive del corso d’acqua nei pressi della Calcara di San Camillo a Bucchianico sabato 13 settembre 2014 a partire dalle ore 17.00. “Il nostro intento è quello di accordare le melodie dell’arte con quelle della natura, nel luogo speciale e meraviglioso dove abbiamo trascorso gran parte del nostro tempo, e con l’idea di creare un collettivo culturale abbiamo invitato diverse band abruzzesi, ognuna con il proprio stile e con le proprie peculiarità.” affermano gli organizzatori Daniele D’Orazio, Fabio Di Tullio e Luigi Max Di Paolo. Con questo spirito si esibiranno i gruppi che hanno aderito con entusiasmo al progetto: Claudette & The Farmer con il loro cabaret comico-musicale, gli Essenza con il loro Jazz ricercato, i SangueMosto!, abili esponenti della scena Rap/Hip Hop nostrana, i Why Not? che proporranno un repertorio Blues, Pop e Rock in versione acustica, i Brigata Savoia, che sottolineeranno il legame con il territorio con il proprio tributo alla musica popolare, le She Rocks, formazione femminile dalla dirompente carica energetica, Filters, Louibox e x2jeep, incantevole beatboxing e Rap freestyle, e infine La Sete di Tè, armonie elettroniche su base Pop. A seguire, in collaborazione con Elettropark di Guardiagrele dalle ore 22,30 alle ore 2,00 i djset di Boris, Luca Cola e Christian Crash. L’ingresso è gratuito.

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Limes – Slowflash

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Confini bagnati dalla pioggia, esce in autunno il primo disco ufficiale dei Limes. Sono perfetti se avete voglia di piangere, se il vostro cuore dice una cosa ma le vostre intenzioni sono bruscamente condizionate dalla stancante normalità. Slowflash entra duramente a gamba tesa sui sentimenti, Alternative Rock dagli intenti poco italiani, certamente una botta da lasciare penetrare nello stomaco, mischiate rabbia e amore, adesso potete iniziare a capire le vere intenzioni dei Limes. Intro strumentale, poi “Hunting Party” diventa subito una grande hit, sentori di Indie dei primissimi anni zero, ritornello da pelle d’oca, i peli si rizzano sulle braccia, il resto conta veramente poco. Autunno caratterizzato dalle melanconiche foglie che cadono dagli alberi, dei nuovi propositi musicali, questo disco registrato da Abba Zabba presso il Palo Alto Studio di Trieste uscirà il prossimo trenta Settembre portandosi dietro parecchie attenzioni. Scariche di potenza in “Pressure Variation”, un dolce piano spezzato da una forsennata batteria, la voce mantiene sempre la propria importanza anche quando i pezzi sembrano avere tutto il gusto della classica ballatona romantica (“The Fall”). Pian piano riesco a percepire una saporosità internazionale piuttosto accentuata, sembrerebbe quasi di ascoltare una navigata band mondiale. E navigata vuole essere un complimento, un grande complimento.

Un esordio del genere potrebbe segnare l’inizio di una grande avventura artistica, il blocco vergine dal quale iniziare a scolpire una grande carriera, difficilmente risulteranno apatici e scontati in futuro. Lo stomaco inizia a divorare farfalle durante l’ascolto di “Path of Mind”, struggente Post Rock arricchito da una vena decisamente Popular e piacevole, inconfondibile immediatezza dei brani proposti. Poi piccole perle Alt Rock continuano a darsi il cambio fino alla fine del disco, tutto sembra essere buttato giù con estrema semplicità, niente di artefatto, la sperimentazione gli appartiene poco, ai Limes piace tirare dritti fino alla fine senza complicarsi la vita. La semplicità risulta essere l’arma vincente, il colpo sferrato nel giusto momento, anche quando il patos sale in puro stile Dawson’s Creek (White), avete presente i finali di puntata? Quelli dove si rimaneva sempre con il cuore in subbuglio ed un sottofondo Romantic Rock si sposava perfettamente alla scena? Bene, non abbiate paura di sentirvi obbligatoriamente dei rockettoni duri e cattivi, lasciatevi trasportare dalla vostra coscienza, apprezzate Slowflash senza riserva. I Limes potrebbero tranquillamente recitare nel mainstream la parte degli indipendenti. Questo lavoro suona bene, un esordio discografico da tenere in seria considerazione, nessuno oserà mai dire il contrario.

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Dagomago – Evviva la Deriva

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Comodo definirsi Indie Rock quando si sa bene che vuol dire tutto o niente. E così i Dagomago contornano il loro genere di nessuna specifica e ci obbligano o ad ignorarli per quell’etichetta o ad ascoltarli per forza per giudicare. Evviva la Deriva è il frutto di poco meno di due anni di collaborazione del trio piemontese, eppure è un disco già supportato da un’etichetta, da un bel packaging, da una bella squadra di promozione. “Male”, la traccia di apertura, promette male come il titolo sembra preannunciare visto che apre con una serie di versi in rima, immagini depresse stereotipate, vocali aperte alla Manuel Agnelli. Sembra la solita roba nostrana, già sentita. Ma la band si riscatta con “Le Cabine del Telefono” che si rivela, invece, ben più particolare, con un cantato acido alla Francesco-C e un non so che dei Dari. Questa sensazione prosegue con “Cucinami Se Vuoi”, una canzone d’amore finito che ha più il sapore Punk di un vaffanculo che quello di una ballad di addio. Bella, mi ha fatto ridere. E anche con la successiva “Cervello in Fuga” capiamo che i Dagomago non sono la solita band nostrana che si piange addosso. Anzi: sembrano di proposito riprendere nei titoli tematiche care al Rock di protesta italiota per farne una bella caricatura, come in questo caso, in cui il testo recita “Il mio cervello è in fuga e io non gli sto più dietro” mentre la musica è una scanzonata serie di passaggi accordali delle tastiere, direttamente dagli anni 80. E si gioca con gli stereotipi anche in “La Vita Acida”, tra musicisti che suonano davanti a nessuno, Roma ladrona, la Milano da bere. Ok, non è che siamo di fronte a degli idioti o a dei ragazzotti leggeri che scherzano su tutto e non riescono a prendere niente sul serio. Evviva La Deriva è un album lucido, che affronta semplicemente da un altro punto di vista e con un altro piglio. E la faccenda è evidente in “Apprendista a Tempo Indeterminato”, un insieme di malessere diffuso che attraversa longitudinalmente la sfera privata e il contesto sociale, la vita professionale e l’amore. Il tutto condito con una bella chitarra sanguigna che finalmente esce fuori, più che nelle altre tracce, rivelando una certa bravura tecnica. Le tracce confluiscono con molta naturalezza una nell’altra, così “Viva Salsedo!” inizia quasi senza essercene accorti e lascia spazio a “Maninalto”, una marcia che apre a singhiozzo, elettronica e freddissima. Il disco prosegue con “Iocnr”, forse la traccia meno immediata di tutte, complessa nell’arrangiamento, non immediatamente incasellabile in nessun genere, con uno stacco dissonante, artificiale, confusionario. Quando inizia “Tenera È  la Notte”, quindi, la differenza stilistica è notevole: accordi in deelay e cantato soft e fumoso, puntellato da effetti strumentali e doppie voci che danno subito un tocco di etereo al brano. Una bella parentesi o più semplicemente il climax di una maturità che la band sembra andare acquisendo man mano che le tracce scorrono, come in un percorso di formazione. Il cerchio non può che chiudersi con la smentita della prima traccia: “Non Fa Male” è un’altra ballata, che richiama vagamente i Perturbazione per l’arrangiamento e gli Eva Mon Amour per il mood delle liriche.

Nel complesso è un disco che si fa ascoltare e che può rivelare anche qualche bella sorpresa. Ve lo consiglio, e, se vi capita, andate a vederveli dal vivo già che sono in tour.

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Cesare Cremonini – Logico

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Luogo di ascolto: in metro, di fronte a un ciccione con un cheesburger grande quanto il mio orgoglio.

Umore: come di chi prova a imparare qualcosa che già sa.

La mia curiosità di recensire Cremonini parte tutta da un punto: dal momento in cui si è sentita per la prima volta uno spezzone del suo primo singolo nello spot dell’Algida (credo). Ebbene quel frammento di canzone deve avere colpito non poco gli abituali detrattori dell’ex enfant prodige del Pop di 50 special, perchè di lì a poco tempo l’etere era tutto un gorgogliare di sperticati ravvedimenti sulla caratura dell’artista; gente che evidentemente aveva bisogno di un temone con synth house per passare dalla parte di quelli che ” devo ricredermi su Cesare Cremonini, forse sto male, ma il disco è una bomba”, oppure “il nuovo di Cremonini ha suoni da Arcade Fire“. Fermo restando che chi vi parla ritiene gli Arcade Fire stessi una band sopravvalutata e modaiola, ho sentito l’obbligo morale di spendere una parola anche io in merito. Mi sono preso la briga di aspettare il nuovo Logico e ho provato a farmi un’idea un pò meno legata agli isterismi concettuali di certa critica, quella di cui non si capisce un cazzo quando scrive, non perchè scriva con parole sofisticate ma perchè scrive roba che non significa un cazzo. Vi dirò, il disco di Cremonini non è male. Ma non erano male nemmeno quelli che lo avevano preceduto. E lo so perchè li avevo ascoltati e lo avevo visto dal vivo più volte. E’ un personaggio multiforme Cremonini, oppure semplicemente in evoluzione e maturazione: dotatissimo musicalmente e con i giusti riferimenti davanti (è uno cresciuto a pane e Queen, per intenderci, altro che Arcade Fire), ha passato un buon decennio per imbruttirsi e sgarruparsi l’immagine per non essere più associato ad una Pop star alla Eros, manco a farlo apposta ha frequentato le donne giuste (Malika) per uscire dalle grinfie dei primi sogni erotici delle quindicenni e entrare in quelli dei salotti con la puzza sotto il naso, ha provato in ogni modo a cancellare la cadenza scanzonata Bolognese, addirittura storpiando l’italiano del suo precedente lavoro fino a farlo assomigliare al calabrese (provare ad ascoltare “Una Come te”), aveva reso espliciti i suoi ascolti dei Beatles nella coda dello stesso pezzo, meritoriamente simile nelle scelte di orchestrazione ad “All You Need is Love” (l’influenza dei Beatles si avverte, ad onor del vero anche nella nuova “Quando Sarò Milionario”).

Non ci è ancora riuscito. Eppure non serviva, perchè chiunque capisca un pò di musica e non abbia l’anello al naso (come spesso chi dice di capire di musica) si era accorto del talento dell’ex Lunapop già da subito. Uno non può vendere 900 mila copie fisiche e far cantare mezza Italia a 17 anni ed essere un brocco. Scrivere una melodia che rimanga è la cosa più difficile, se ti viene così spontaneo parti già molto bene. Andando avanti è cresciuto ed ha ampliato il raggio, ha approfondito i testi, ha reso più ricercata la musica e gli arrangiamenti. Ma la crescita è stata costante e sicuramente faticosa, considerato il successo da giustificare, mantenere e in un certo senso amplificare. Con questo disco il Cremonini non mi sembra abbia fatto il passo decisivo, la tracklist di Logico scorre fluida e rispecchia tutti i temi intimisti della sua poetica, conserva anche quel gusto per le suggestioni american style (in “John Wayne”) tradotte in salsa Padana (nel senso di pianura); non mi sembra però che abbia ancora acquistato quella personalità e quel carisma che serve per farsi chiamare cantautore, se ancora quella parola ha significato. Forse dovrebbe solo fottersene di tutti quelli a cui quel synth di Logico ha fatto così tanto effetto; del resto quelli non comprano i dischi, nè danno alcuna patente di cantautorato. Perchè Battisti della critica se ne fotteva e Rino Gaetano pure, non parliamo dei Beatles e dei Queen: la critica la patente di artisti glie l’ha data vent’anni dopo, molti anni dopo il pubblico. Diamo a Cesare quel che è di Cesare, non un centesimo di più, nè un centesimo di meno, perchè anche aspettare che arrivi è una bella colonna sonora.

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Ex-Otago – In Capo al Mondo

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Gli Ex-Otago arrivano al quarto disco con sempre più voglia di lasciare tutto e partire, per arrivare (chissà, forse) addirittura In Capo al Mondo. Perso per strada il Pernazza, ora nei Magellano, la bussola non sbanda troppo e la loro musica rimane leggera, acustica, diretta e “comoda”, se vogliamo – che non è assolutamente un male, anzi. Un disco che è una serie di serenate, di spiagge al tramonto, o, forse, al chiarore dei fuochi di falò in piena notte. C’è freschezza nelle dodici tracce di questa perfetta colonna sonora estiva, da ascoltare in auto, in barca, nelle cuffie mentre si sonnecchia in aereo con gli occhi mezzi aperti per guardare le nuvole, per una volta, dall’alto in basso.

C’è qualche pecca (personalmente non apprezzo i momenti parlati che affiorano qua e là, così come sono poco convinto dal tono salmodiante di Maurizio Carucci, che peraltro fa parte, in pieno, della cifra stilistica del gruppo, quindi mea culpa), ma il disco è una conferma del talento dei genovesi nel tessere trame impalpabili di corde e ritmi, chitarre acustiche e clap, flauti, tastiere e un’atmosfera di festa continua, una festa rilassata, d’altri tempi, d’altri luoghi (“Amico Bianco”, “Nuovo Mondo”). Saper indicare con precisione la strada per finire (tranquilli, sorridenti e senza troppi sbattimenti) In Capo al Mondo è il segreto e la ricetta fortunata di questo piccolo, grande gruppo che magari non ti cambia la vita, ma sa certo renderla più sopportabile.

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Lo Stato Sociale – L’Italia Peggiore

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Tornano quei fenomeni, nel bene e nel male, de Lo Stato Sociale, e lo fanno con L’Italia Peggiore, secondo disco che prosegue il discorso del precedente Turisti Della Democrazia. Verbosi, danzerecci, di un’allegria folle che ricorda il discorso di Vasco Brondi sulle “feste senza senso” in cui “ballare sotto le bombe”: tutto è in macerie, tanto vale pompare il volume e cantare con una voce sola, sentirsi finalmente insieme ad alzare le mani e batterle, forte. Mentirei se dicessi che le canzoni de L’Italia Peggiore sono brutte canzoni (a parte qualche faux pas in cui si toccano le profondità di una piscina per bimbi, tipo elenchi alla Jovanotti – “C’Eravamo Tanto Sbagliati” – oppure quando si cerca la simpatia a tutti i costi in situazioni di cui ormai abbiamo la nausea“Instant Classic”). I testi sono ironici e brillanti, e quando non eccedono in paraculaggine si fanno ascoltare con un mezzo sorriso complice. Certo, c’è sempre quella sensazione sotterranea e strisciante di fregatura, ma ci torniamo dopo.

Musicalmente, Lo Stato Sociale fa esattamente ciò che si pone come obbiettivo: farti ballare e sorridere. L’uno-due con i testi (tu balla, ridi, ogni tanto ti tocco la spalla, serissimo, per ricordarti che vivi in un Paese di merda in mezzo a gente di merda, poi scoppio a ridere anch’io e tu continui a ballare senza capire se ti sto coglionando o meno) è ciò che distingue Lo Stato Sociale da altri act simili: un loop trasformista tra serietà acida e follia demenziale (esemplare “”Questo è un Grande Paese”, che è più cabaret radiofonico che canzone). Da questo punto di vista, il disco è riuscitissimo, e sono certo che sarà un successo, trascinerà torme di fan ai concerti, pronti a scatenarsi nel delirio quasi tamarro di questi cazzoni col cuore dal lato giusto. Però. Però c’è qualcosa, lì dentro, che non mi convince più di tanto. C’è qualcosa che puzza, che serpeggia tra le righe dei quattordici pezzi di questo disco variopinto. È una sensazione di incompiutezza, di pressapochismo. I sostenitori dei bolognesi la chiameranno Lo-Fi, scelta artistica, stile. A me sembra scazzo, una terribile parvenza di ruvidezza generale. Il fatto che magari sia voluta non so se migliori o peggiori la situazione. L’effetto che mi fanno le canzoni de Lo Stato Sociale è quello degli animatori nei villaggi vacanze. Ti devono caricare, energizzare, devono per forza farti sorridere, partecipare. Si attaccano ai luoghi comuni, li sfruttano, per poi farti credere che è ironia, e magari lo è davvero, ma dopo due o tre giri di giostra, come si fa a distinguere il cliché dal commento sarcastico al cliché? Si divertono a cazzeggiare senza remore, però in fondo si percepisce un orgoglio da gruppo impegnato che a quel punto un po’ stona.

Forse non si può fare tutto, o forse è la mia piccola testa limitata che, ad oscillare così ampiamente tra un estremo e l’altro, si sente nauseata e incerta sul da farsi. Senza parlare della resa sonora che, qua e là, tocca livelli pessimi (pensate a come sono prese certe voci, o considerate che, in “C’Eravamo Tanto Sbagliati”, c’è una chiarissima interferenza da cellulare, minuto 0:33 – per dire). Sono queste sensazioni, per così dire, “scomode”, a non farmi godere il divertimento e l’acutezza che certamente Lo Stato Sociale sa così efficacemente trasmettere. Ma voi non fatevi problemi: L’Italia Peggiore fotografa, forse meglio di molto altro, lo spirito (anche musicale) di questi tempi. Voi ballate e divertitevi, e cercate di perdonarmi se non faccio salti di gioia…

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Matinèe – These Days (singolo)

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A volte è difficile credere che un gruppo o un artista italiano che non sia una Laura Pausini o un Eros Ramazzotti trovi fama abbondante oltralpe. I Matinèe sono fra i pochi eletti che ce l’hanno fatta riuscendo ad aprire i concerti di The Lumineers, Doughter, Mistery Jets e Futureheads senza mai sfigurare e tenendo alta la bandiera dell’Italia musicale. Nel loro curriculum possono persino vantare esibizioni dal vivo in tutti i live clubs londinesi più importanti per le giovani band come il 100 Club e un’apparizione alla Death Disco Night di Alan McGee (fondatore della Creation Records e scopritore degli Oasis). Il nuovissimo singolo “These Days” è stato realizzato con la collaborazione di Chris Geddes dei Belle&Sebastian alle tastiere sotto gli occhi e le orecchie attenti del produttore Tony Doogan (già al lavoro con Mogwai, Carl Barat dei Libertines e Glasvegas). Il sound della band appare molto più maturo rispetto a quello degli esordi, in cui persino i Franz Ferdinand si accorsero di loro ospitandoli ad un loro concerto italiano.


Le chitarre sono molto più incisive, con i loro riff accattivanti che si incastonano alla perfezione col drumming preciso del batterista e con la voce del cantante. In poco più di duecento secondi è condensata tutta l’essenza e la purezza del Brit Pop più eclatante ed anche quella del Rock indipendente inglese, perché le radici del gruppo sono sì italiane ma ormai i Matinèe sono a tutti gli effetti trapiantati nel Regno Unito. La canzone si presta molto all’ascolto ed è facile immaginare che verrà trasmessa anche sulle frequenze delle principali stazioni radiofoniche e sarebbe bello quindi se i Matinèe riuscissero a spopolare anche qui da noi. Noi di Rockambula facciamo il tifo per loro, consci di poter scommettere su una futura promessa del Rock Italiano. Mi rimane solo da chiedermi se la loro prossima hit sarà cantata nella lingua di Dante o in un inglese perfetto quale quello esibito da Luigi Tiberio (che nel gruppo suona abitualmente anche synth e chitarra) e da Alfredo Ioannone che è tra l’altro anche un ottimo bassista.

 

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Rockambula al Primavera Sound, Day 0

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Rockambula è presente al Primavera Sound con i nostri inviati speciali Maria Pia Diodati e Angelo Violante, avete capito bene, proprio il Primavera Sound. Vivi con noi in diretta le band sul palco con foto e commenti a caldo!

Iniziamo con una foto rappresentativa, sicuramente la più rappresentativa in assoluto…

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Il synth Pop di Sky Ferreira con molta pioggia e problemi tecnici, coda chilometrica fuori dalla Sala Apolo per i Brian Jonestown Massacre, invano..
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Ci si consola (poco) con il Soul lo-fi di Sean Tillmann in versione Har Mar Superstar
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I Missili – Le Vitamine

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I Missili sono una sorta di collettivo dai membri intercambiabili che giocano con ritmi Pop e arrangiamenti ridotti all’osso intorno a filastrocche infantili che richiamano la gran moda naif di questi tempi. Il loro disco, Le Vitamine, è un braccialetto plasticoso e colorato che si vende in spiaggia a poche lire (neanche euro, fa più fico), composto da otto perline dalle ritmiche lineari e dall’esecuzione volutamente approssimativa, sempre nell’ottica di un Lo Fi che vuol essere divertente e che, in parte, anche ci riesce. Le Vitamine è un disco leggero, solare, ludico. Si sfiorano ambientazioni estive e rotolanti arcobaleni Pop (“Dio Romano”, “A Bastonate”), oppure ritmi in levare ondeggianti che richiamano certi anni 70 stile “Giovane Esploratore Tobia” (“Fotoricordo”) negli episodi più riusciti (dove cioè il sorriso si fa complice e strizza l’occhio); in quelli più odiosi si striscia piagnucolanti attraverso pianure di noia (nonostante le ritmiche sempre uptempo, per quanto semplici) e immagini stantie (“Fossili”, “è da un po’ che ti guardo e tu, è da un po’ che non mangi più, bambina”, o “Una Grande Tribù”, “lassù c’è una grande tribù, hanno appeso un uomo a testa all’ingiù, e rulla il tamburo voodoo, com’è bello il coro delle mamme zulù, fammi restare qui sulla mia sdraio blu, fa troppo caldo e su, io non ci torno più”).

I Missili camminano sul filo, ridacchiando, tra una simpatia soave e lieve, che non riesce ad essere poetica quanto vorrebbe, ma che può regalare un sorriso e qualche passetto di danza, e una strafottenza sempliciotta che dovrebbe passare forse per illuminazione e che invece provoca fitte dolorose d’insofferenza. Ascoltatene a vostro rischio e pericolo se oltre ad una luminosa foschia volete toccare con mano qualcosa di fermo, sodo, vero.

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Damon Albarn – Everyday Robots

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Musicista, autore, compositore, produttore Damon Albarn è un artista poliedrico e traversale che, dagli esordi nel lontano 1991 fino ai giorni d’oggi, ha macinato chilometri nel mondo della musica, percorrendo molte vie e raccontando la sua arte in tanti modi. Un storia lunga ventitre anni partita dal Brit Pop dei Blur, continuata con l’Alternative Rock così underground dei Gorillaz, deviata dal super gruppo made in England The Good,The Bad & The Queen, inframezzata da un EP, qualche colonna sonora e due libretti per opera. Un bagaglio importante di esperienze, senza le quali, forse, Everydays Robot non esisterebbe. Ascoltando l’album tutto d’un fiato si percepisce subito il tiro di tutto il lavoro, maturo, calibrato, intimo e dall’essenza minimalista. La storia di un uomo di quarantasei anni che, spente le luci accecanti e riposti gli artifizi di scena nel baule, si racconta e ci fa assaporare un po’ del suo mondo e dei suoi ricordi, tra la paura ancestrale di perdere se stesso, al rapporto conflittuale con una tecnologia sempre più invadente, fino alla solitudine e alla dipendenza dalla droga.

Potremmo definirlo quasi una sorta dipiccola catarsi in musica, un percorso che non arriva mai ad esprimere le tensione del momento in maniera esplosiva e rabbiosa, ma che lo fa in maniera sommessa, con quell’attitudine all’understatement cosi maledettamente British. Visivamente anche la copertina veicola lo stesso messaggio privo di colori, ma ricco di sfumature di grigio, un’immagine semplice, reale, così reale da passare quasi inosservata. Quello che non passa inosservato sono le canzoni, un beat pulsante, un cuore-motore intelligente, le percorre da cima a fondo dandogli vita.  Uno stile asciutto ed equilibrato unisce in un unicum armonicosuoni elettronici e acustici, campionamenti, archi e cori dal sapore etnico. Un album di Ballad melanconiche e dolciastre, così come i ricordi nei quali affondano le radici e che contengono al loro interno tutta l’anima Pop di Albarn, filtrata,però,attraverso una consapevolezza nuova. “The Selfie Giant”suadentegrazie alpiano mutuato dal Jazz e alla collaborazione di Bath for Lashes, “Mr.Tembo”, che le sonorità africane rendono melodicamente e ritmicamente intrigante.“The History of a Cheating Art” e“You and Me”che ti colpiscono per l’eleganza e la forza del songwriting sofisticato e qualitativo.Il mood del disco non può che definirsi ombroso,ovattato a tratti illuminato attraversol’uso dei cori e degli archi, come nel finale tutto in positivo e dalla grande carica emozionale di “Heavy Seas of Love”, merito del coro gospel della chiesa di Leytinstine. Everyday Robots è un disco pensato nei suoni,testualmente pieno di pathos, calibrato negli arrangiamenti, che fanno la differenza e mostrano il talento di Albarn. Forse non un album di hit e molti rimarranno delusida questo nuovo capitolo non ritrovando il vecchio Damon, ma molti altri sapranno apprezzarne l’onestà, l’intensità, il valore, le atmosfere al limite dell’alienante e goderne a sufficienza.

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“Enti Serpenti” è il nuovo inedito video di Simone Cocciglia

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Esce “Enti Serpenti”, nuovo inedito del Cantautore Aquilano Simone Cocciglia, vincitore del Premio Poggio Bustone 2013. Singolo irriverente e pungente sul rapporto Artista/Famiglia che non sempre si rivela idilliaco e sereno. Brano Pop, dalle sonorità Dance, il cui ritornello orecchiabile ed insistente, ti entra in testa e non ti lascia più:
“TROVATI UN LAVORO VERO!”
Il singolo “Enti Serpenti” anticipa l’uscita dell’EP prevista per Settembre 2014 e dal 16 Maggio.

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Od Fulmine – Od Fulmine

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I sogni alcune volte riescono a realizzarsi ma le delusioni sono sempre molto più frequenti, la musica d’autore riesce a farci camminare spensierati e pulsanti sopra la bellezza della vita. Perché poi non è necessario esternare le proprie emozioni, potrebbero essere male interpretate e di colpo tutto potrebbe finire. Scrivono canzoni irresistibili come faceva Tenco gli Od Fulmine al debutto discografico con questo omonimo disco. Indie Rock d’autore tanto cercato dai Non Voglio Che Clara e sponsorizzato dai Perturbazione, la tecnica è quella giusta dei bei testi in chiave Rock, la formula perfetta per modernizzare il cantautorato italiano di tanti anni fa. Gli Od Fulmine sono di Genova e provengono da diverse ma affermate realtà musicali (Meganoidi, Numero 6, Esmen), il loro legame con la cosiddetta “scuola genovese” è strettissimo perché oltre Luigi Tenco si percepisce qualcosa di Fabrizio De Andrè e Umberto Bindi. Insomma, hanno imparato dai grandi maestri cercando di mantenere alta la qualità del cantautorato italiano. Brani come “Altrove 2” e “Ma Ha” spiegano benissimo il concetto di fusione tra cantautore e Indie Rock, soprattutto se viene considerato un sound prevalentemente estero e poco italiano. Se poi volete far increspare la pelle avete bisogno di un brano semplice ed emozionale come “Nel Disastro”, un classica struttura compositiva con un ritornello bellissimo: Ma nel disastro mi vedrai sorridere/Sotto un diluvio ritornare in me/Di notte ho visto quello che mi manca e tu mi vieni incontro anche se non lo fai più.

Non è facile trovare il giusto equilibrio nella musica, il rischio di strafare è sempre dietro l’angolo, gli Od Fulmine percepiscono soltanto le parti buone dell’arte, parlano di amore con chitarre indurite, non hanno paura di mettere a vivo i propri sentimenti. L’ascoltatore è libero di interpretare le canzoni come meglio crede, ognuno può vivere il proprio film senza dover rendere conto a niente e nessuno. L’omonimo disco degli Od Fulmine riesce a caricare di passione, giocando con intrecci sostenuti a volte dalle lacrime a volte dai sorrisi, piove ed immediatamente esce il sole, “Fine dei Desideri” come pezzo immagine dell’intero concept. Le cose che portiamo dentro non sempre riusciamo ad esternarle con la giusta precisione, questo disco parla con il cuore in mano, questo disco è veramente carico di considerevoli aspettative. E noi siamo fieri di ascoltare una band come gli Od Fulmine.

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