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Tati Valle – Livro dos Dias

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Tati Valle ha viaggiato per un po’ così da esplorare nuovi luoghi, nuovi suoni e pure se stessa, decidendo poi di fermarsi in Abruzzo per conoscere meglio il territorio e la lingua italiana. Nasce così Livro dos Dias, un diario di viaggio in cui l’artista brasiliana cerca di convergere l’identità di diversi paesaggi, culture e musicisti per farle un po’ sue e un po’ di tutti. Si inizia con il paradosso degli ultimi saranno i primi attraverso “Ultimo Samba” dove a farla da padrone sono una voce calda, percussioni e un basso pieno ed articolato. Si prosegue con “Camaleao” in cui il Pop comincia a prendere forma descrivendo quel desiderio di avventura e di scoperta nascosto in ognuno di noi. C’è invece lo zampino di Gustav Lundgren alla chitarra e di Luca D’Alberto alla viola elettrica in “Novo Mundo”, traccia Bossa Nova pesante come il tempo che passa, e che grazie agli archi riesce ad accompagnarti cullandoti in un viaggio calmo e sensuale. Bellissima, malinconica e a volte contornata da suoni elettronici è “Arrepio”: quì attraverso una tromba di altri tempi si racconta quel senso di inadeguatezza che a volte si prova restando incastrati in un contesto sbagliato. “Samba de Quinta” nasce da un’improvvisazione e questo rimane, risultando un brano carino ma sicuramente non speciale. Altra storia invece per “Diante de Voce”, dove finalmente si iniziano ad esplorare nuove influenze musicali dando un tocco Rock e meno acustico al tutto. Si vola a Trastevere con la romantica e poetica “Voz e Violato” per poi finire con “Slowmotion Bossa Nova”, brano che racchiude in sé un po’ tutto il senso dell’album: si parte dal Brasile, si attraversa l’Italia e si arriva inaspettatamente alla Hawaii. Dunque il testo giustamente è in inglese e sul finale incontra anche la voce di Ivan D’Antonio (amante delle Hawaii e produttore artistico del progetto).

Per concludere, Livro dos Dias è riuscito alla fine a esprimere l’idea di un viaggio internazionale? Più o meno direi, in quanto se l’intenzione era appunto quella di fare un disco dipinto da diverse contaminazioni sonore, il risultato appare si complesso (specialmente per la varietà di strumenti utilizzati suonati egregiamente), ma però ancora troppo radicato alle sue origini d’oltre oceano e quindi poco sperimentale a livello compositivo.  Godetevi la versione live di “Novo Mundo”, buon viaggio!

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Dead Neanderthals / Kuru – 7’’ Split

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Si sa, la gestione del rumore è alquanto difficile. E questo 7’’ Split è l’esempio lampante di come (per lo meno provare a) gestirlo, qui si uniscono due realtà distanti geograficamente ma vicine nel creare un macello unico, anarchico e massiccio. Quasi ipnotico, da portare un profano del genere come me ad immergersi con somma attenzione nei due brani di “catastrofe” sonora presentati dagli olandesi Dead Neanderthals e dai trentini Kuru. La mia domanda all’ascolto di questi estremismi musicali è sempre, ma chi si comprerebbe mai un disco così? La risposta in questo caso è: chi, oltre ad avere una percezione uditiva completamente ostile al Pop, vuole sperimentare nuovi stimoli sonori totalmente assenti di regole e limiti. L’unico limite in questi due pezzi pare essere la nota, sprigionata fuori dalla potenza del sax, domata a frustate con spregiudicata violenza, come se si fosse in sella un cavallo totalmente impazzito. La musica è nemica, una presenza quasi maligna, da estirpare, da strapazzare, da sconvolgere.

Le note in realtà nel brano dei Dead Neanderthals pare non ci siano mai, sommerse in un vortice di piatti, qualche colpo di rullante, strilla lontane (probabilmente generate proprio con un sax) e il costante tappeto di rumore puro che sembra una mietitrebbia che ci spappola il cervello. Più cruento di qualsiasi gruppo Heavy Metal che abbiate mai ascoltato in vita vostra. Un incubo sonoro più che un brano musicale. Il sax invece prende una forma perlomeno riconoscibile nel brano dei Kuru, “Fiume Asaro” parte con note distanti e distorte. Sono e rimangono lente ma ben si infilano nei ritmi tribali e storti che accompagnano con dinamica, stacchi difficilissimi e lunghissime pause il brano. Il suono del fiume e dei sonagli dona realismo ai suoni, crudi e primitivi come le grida disperate che anticipano un assolo lacerante di sax. Sapore di Jazz dentro l’Africa più nera. Ormai alla soglia dei trent’anni c’è poco da fare, questi suoni non li capirò mai bene a fondo e certamente non li riterrò mai degni di essere musica per le mie orecchie, troppo tarate sulle comode melodie. Ma sicuro questa tempesta ha un’incredibile forza comunicativa. Forza antica, come un urlo nella giungla. Ad oggi un ballo scoordinato e folle contro la società.

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Amanda Rogers – Wild

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Nono album per la cantante dalla voce da usignolo che viene dall’Upstate NY, Wild è un doppio (ma neanche troppo lungo) album, che vede Amanda Rogers alle prese con un ritorno a casa (Syracuse) e allo stesso tempo un ritorno parallelo alle radici della musica che ama, una connection che mescola la ruvidezza e la spontaneità dei 70 con la sfrontatezza senza paura dei migliori 90.  La storia del disco (l’ideazione, la composizione, la registrazione) è la storia della musica che nel disco è contenuta (non è sempre così). In questo caso, l’essere inciampata in Jon Lessels, proprietario del Subcat Studio, di base proprio a Syracuse, e l’aver trovato in lui una metà musicale perfetta, ha reso la produzione del disco qualcosa di inaspettato e di liberatorio (in questo senso, “wild”). Registrato per la maggior parte live, con Amanda al piano e Jon alla batteria, Wild ha subito pochi rimaneggiamenti posteriori, e la musica da cameretta di Amanda ne ha giovato.

Le canzoni (20!) sono immediate, facili ma non banali: arrivano dritte alla testa e al cuore. Leggere, come leggera è la voce di Amanda, bellissima e adamantina, mobile e intensa, lieve e suadente (e non so che altri aggettivi inventarmi). Un disco doppio che non stufa, che potrebbe girare per ore, e noi con lui a seguire le evoluzioni Folk, Blues, Pop di questo spirito libero alle prese con temi universali e particolari in rapida sequenza – il vero amore, il ritorno a casa, la critica al consumismo imperante e l’ironia sul maledettissimo sogno americano. Ciò che soddisfa di Wild è l’approccio: un ritorno alle origini, una registrazione scarna, sincera, una composizione organica, che è un tutt’uno con la produzione e, poi, con l’ascolto. Amanda Rogers ci ha donato una piccola perla, una bolla spazio-temporale affacciata sugli anni in cui la musica era un po’ meno plastica e un po’ più legno, terra, fango (“Calendar of Yesterdays” mi ha spedito lontano sul bagnasciuga del mare del tempo…). Non so se ne abbiamo bisogno: ad ogni tempo la sua musica. A me, però, Wild fa stare molto, molto bene… e non basta questo, in fondo?

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Elle – Nowherebut Here

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Quando ho iniziato ad ascoltare Nowherebut Here, ho pensato per un attimo di trovarmi di fronte alla nuova Joan Baez o al clone italiano di Edie Brickell, ma in realtà Elle si è dimostrata agli stessi livelli delle sue colleghe estere. Il motivo? Passare dal cantautorato Pop di “Berlin” alla più movimentata e gradevole “Let me be Your Eyes” (primo singolo dell’album) chiarisce subito la poliedrica direzione sonora del disco. Poche voci femminili riescono ad arrivare come una freccia nell’anima di ognuno di noi, ed Elle è talmente dotata che rimarrete estasiati dai suoi acuti.

Grazie al “casuale” incontro con il produttore Flavio Zampa, dopo anni di salite e discese, andate e ritorni, e forti esperienze, arrivano i nove brani inclusi in Nowherebut Here, che racchiudono un po’ ciò che è stato il suo viaggio, interiore ed esteriore, di vita artistica e non solo. Nowherebut Here, che può essere considerato il suo primo lavoro, è carico di energia e passione frutto di anni di esperienze che segna solo l’inizio di un nuovo ed emozionante capitolo del libro della vita di Elle, da cui ci aspettiamo molto nel futuro. Il talento c’è e lo si vede (anzi lo si sente), e con la giusta promozione questo album può anche mirare in alto. “Lover” ricorda infatti un po’ lo stile della compianta e mai dimenticata Whitney Houston e della nostrana Giorgia e proprio l’amore a fare da filo conduttore delle successive “Nowherebut Here” e “Killing my Love”. In quest’ultima addirittura sembra di sentire al piano Miss Germanotta, in arte Lady Gaga, artista sempre al centro delle cronache e dei gossip mondiali. Il disco scorre piacevolmente con il soft Rock di “A New Life” e la più movimentata “She’s Alone” per concludersi poi con la (quasi) acustica ballad “A Lie” e con la introspettiva “Enlightens”. Sicuramente il disco si presterà più facilmente ad un successo oltralpe, ma auguro ad Elle di diventare famosa anche qui in Italia perché era dai tempi di Pipes And Flowers di Elisa che non si sentiva un esordio così bello nel nostro paese.

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Colpi Repentini – Arriva Lo Zar

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Sei belle canzonette di Pop d’autore per spazzare via la banalità. Tanta intelligenza, sia nelle liriche che negli interessantissimi intrecci musicali, in questo EP dei milanesi Colpi Repentini. La band è di giovane formazione ma questo Arriva Lo Zar definisce bene la rotta del quintetto. “Brucio la Città” è l’inizio festaiolo e funkettone con un ritornello aperto ed epico che non dista molto dalle melodie di Cesare Cremonini. Un pizzico di teatralità e un suono un po’ chic, che pare certamente più ironico che snob. Gli ingredienti sono innumerevoli e lo dimostra anche la title track “Arriva lo Zar”, testo senza troppo criterio e suono retrò dove il piano domina la cavalcata fino all’arrivo dell’inatteso chitarrone (troppo?) distorto. In ogni caso il mix è vincente e le canzoni sono storie nonsense ma divertenti, con quella patina che le rende chic e terribilmente “milanesi”. Anche quando i ritmi calano in “Non ti ho Persa Mai” il pacchetto rimane compatto e anzi guadagna in intensità.

Senza contorcersi in complicazioni i Colpi Repentini si destreggiano bene tra l’essere piacioni e ricercati. Una sezione ritmica mai scontata e la grande espressività nella voce di Alessio Piano, che spesso sembra al servizio della musica più che delle parole, fondendosi bene con gli altri strumenti. Un ottimo collante. “Il Diavolo (da Lui si Presentò)” è una danza scura, un po’ Fred Buscaglione e un po’ Tom Waits con un finale quasi Hard Rock. Una sana dose alcolica per sciogliere gambe e cervello. “Un’Ottima Giornata” chiude l’EP. Spensierata e rilassata (a parte il video tremendo che la accompagna), la canzone rimane un buon singolo per farsi conoscere sebbene non risalti in pieno le potenzialità e il sapore variegato della band, meglio espresso in tutto il resto del prodotto. Niente per cui gridare al fenomeno. Ma questa band è un ottimo esempio di come la musica italiana possa essere colta e presentare innumerevoli sfaccettature. Senza dimenticarsi di essere semplice e bella.

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Levante – Manuale Distruzione

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Io non so cosa spinga Levante a scrivere canzoni, ma soprattutto io non ho proprio mai neanche parlato con Levante. Non ho la minima idea di che persona sia. Non so come mai abbia intrapreso la difficile e coraggiosa via della cantautrice con tanto di chitarra in spalla. Non so che abitudini abbia, ne tantomeno che stile di vita intraprenda. Ma ascoltando il suo Manuale Distruzione riesco facilmente ad sentire il fuoco che brucia dentro a questa ragazza. Mi sento di dire che le sue canzoni sono così personali, così vere e così aperte, che è impossibile non plasmare una forma mentre le si ascolta. Si “ascoltare” non “sentire”. Andiamo oltre lo sfrenato successo di “Alfonso” e la sua “vita di merda”, ma non schiviamolo, osserviamolo da vicino. Levante si apre e ci fa guardare dentro, senza filtri. Con purezza e umanità. Ma pure con parecchia autoironia. Doti molto rare nel mondo della canzone italiana. Claudia Lagona (classe 1987, catanese trapiantata a Torino) è al suo esordio discografico. E l’entusiasmo con cui sta vivendo questo momento è trascinante. Tanto da esaltare e rendere unico un disco che ha le sue contraddizioni e i suoi punti di debolezza. Ma la debolezza è arma a doppio taglio e se l’inizio scarno di “Non Stai Bene” può apparire come puro esercizio di stile vocale (e la ragazza la voce ce l’ha di brutto!), nasconde in realtà un ritornello che cattura ascolto dopo ascolto e un testo di una disarmante intimità, che conserva la bellezza di chi ancora scrive a getto. La fine del brano di apertura pare accompagnare l’inizio del secondo episodio. “Cuori D’artificio” non è una canzone d’amore, ma molto di più. E’ una canzone sull’amore. Una vera bomba Pop, con l’attitudine di chi il Rock’n’roll lo mastica ad ogni occasione. La produzione di Alberto Bianco è sorniona, vince nelle dinamiche e in suoni che esaltano la splendida voce di Claudia, intrecciata tra chitarre e ritmiche patinate al punto giusto.


“Le Margherite Sono Salve”, “Come Quando Fuori Piove” e “Nuvola” sono brani sicuramente minori, che però colorano il disco evitando che sia semplicemente un concentrato di pezzoni spacca classifica. E mostrano sempre più sfaccettature del personaggio Levante, che comunque non perde di intensità anche nelle canzoni meno brillanti. Capitolo a parte proprio per i singoloni. “Alfonso” e “Memo” dominano incontrastati, produzioni sopraffine e canzoni che ti entrano in tutti i pori e a volte provocano persino fastidio per quanto sia difficile liberarsene. “Sbadiglio” risulta invece più pilotata, ma dalla disarmante quotidianità. Il finale è affidato a “La Scatola Blu” (per me anche questo merita un posto tra i pezzi di punta), ballata da brividi per sola chitarra e voce. La ragazza non si chiude fino all’ultima nota e la sua onestà è spiazzante. “Vendo Vento alla Gente. Oltre Te, Tutto e Niente”. La bravura di Claudia nello scrivere pezzi orecchiabili e accattivanti è indiscussa. E oltre a questo c’è molto di più: mettersi in gioco mostrando tutto è sintomo di grande determinazione e di strabordante passione. Sebbene Manuale Distruzione non sia un disco memorabile è un disco che si fa toccare con mano, e per questo piace. A me e credo a molti altri. Piacere è una grande dote ed un grande merito. Come diceva la mia saggia prof di Italiano al Liceo: “se sapessi scrivere romanzi come Susanna Tamaro, non sarei qui ad insegnare Leopardi a dei caproni come voi”.

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Nicolò Carnesi, parte il tour da Milano!

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Il cantautore siciliano torna il 1 aprile con il nuovo album intitolato Ho una Galassia Nell’Armadio – anticipato dal singolo “La Rotazione” nelle radio da questa settimana – e parte per un primo tour nei club delle principali città italiane, che verrà inaugurato al Magnolia di Milano il 3 aprile per toccare poi i principali club italiani.
Nicolò Carnesi, palermitano classe 1987, risulta da sempre sfuggevole alle etichette: troppo riduttivo definirlo un cantautore, troppo semplice dare una sola chiave di lettura alle sue canzoni. Brani che mischiano Folk, Pop e New Wave, che frullano i Flaming Lips e gli Smiths con Planck e la meccanica quantistica, che studiano il complesso rapporto tra l’universo e ogni singolo uomo, tra il grande e il piccolo. Canzoni d’amore, ma non solo, canzoni che guardano in tutte le direzioni e che Nicolò aveva così chiare in testa da volerle suonare tutte da solo strumento per strumento (con la preziosa collaborazione in regia di Tommaso Colliva), ad eccezione di inserti mirati. E gli ospiti sono pesi massimi come Roberto Angelini, Antonio Di Martino, i Selton e Rodrigo D’Erasmo. Così le dieci tracce che compongono Ho Una Galassia Nell’Armadio uniscono una scrittura più rifinita e matura ad uno studio certosino dei suoni, con un uso maggiore di elettronica e di synth rispetto al passato, come testimonia il primo estratto “La Rotazione”, piccolo grande e doloroso gioiello pop che si muove tra Palermo, Milano e New York e che racchiude le parole con cui Nicolò, dal primo momento, voleva concludere il disco: “E c’è da qualche parte un amore che uccide gli inverni, e c’è da qualche parte un universo dove non si odia mai”.

Prossime date del tour:
03 aprile: Milano @ Circolo Magnolia
04 aprile: Conegliano (TV) @ Apartamento Hoffman
05 aprile: Montevarchi (AR) @ Auditorium Comunale
19 aprile: Catania @ La Lomax
25 aprile: Palermo @ Candelai
30 aprile: Messina @ Retronouveau
01 maggio: Andria (BT) @ “May be” Officina san Domenico
02 maggio: Santa Maria a Vico (CE) @ SMAV
08 maggio: Bologna @ Locomotiv
09 maggio: Firenze @ Tender Club
10 maggio: Foligno @ Supersonic Sonic Music Club
14 maggio: Padova @ Macello
22 maggio: Roma @ Blackout
24 maggio: Salerno @ Palazzo Fruscione (Rassegna linea d’ombra)

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The Tablets – The Tablets

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Si può combinare il Pop statunitense anni 60 di Merrilee Rush & The Turnabouts o The Ronettes con sonorità marcatamente moderne, quasi figlie di certi anni 90, compatte e ossessionanti? A questo ci pensa la messicana Liz Godoy, che prendendo il via appunto dal Pop Garage dei sixties, scorre attraverso le atmosfere Darkwave e Gothic degli 80, tra Cure, Cocteau Twins, Nick Cave, The Go Go’s e Siouxie fino a sfociare nelle grintose chitarre Shoegaze di fine Ottanta e inizio Novanta di The Jesus and Mary Chain per intenderci e nel Pop Alternativo, rumoroso, elettronico, psichedelico e sperimentale di Stereolab o Tv on the Radio. Tutto questo fatto con una cura maniacale del dettaglio che non si trasforma mai in eccesso stilistico ma che anzi, talvolta, suona come una ricerca voluta della nota imperfetta. L’album omonimo targato The Tablets è uno spettacolare esempio di Dream Pop sintetico, basato su liriche profondamente appassionate e melodie morbidissime, tutto sullo sfondo di ritmiche meccaniche e personali. Liz Godoy prende a prestito la lezione che una certa Nico ha lasciato al mondo e cerca la strada per rinnovarne i fasti e il risultato non è molto lontano da quanto probabilmente sperato.

The Tablets è un disco bellissimo, che poteva essere eccelso se solo la voce di Liz Godoy avesse avuto un regalo più grande da madre natura e se la vena artistica della stessa si fosse trovata in un particolare stato di grazia. Un album seducente perché mette insieme con naturalezza mondi apparentemente lontani anni luce e che recupera, almeno con questa sua capacità di rinnovare, i grandissimi limiti della composizione pura, delle melodie, degli arrangiamenti non sempre troppo interessanti e spesso quasi grossolani. Difficile giudicare un disco come questo perché mostrare al mondo dell’arte musicale una possibile strada per il futuro è già di per sé meritevole di apprezzamento ma non solo ciò siamo tenuti a stimare e quindi c’è un’orrenda ma necessaria strada della sufficienza da tracciare, per inquadrare con onestà un disco che non dovrebbe comunque essere ignorato.

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Idhea – No Chains

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Idhea è una cantante ligure e No Chains il suo ultimo disco, presentato come melodie accattivanti, arrangiamenti taglienti, un viaggio tra il pop d’autore, la ricerca, la sperimentazione e il rock. Ora, è un mestiere anche quello di abbellire in ogni modo possibile un disco in sede di presentazione, però dai, un limite mettiamolo. La sottile linea tra il make up e la chirurgia plastica. No Chains (non ha senso girarci attorno) è un disco brutto. Esplicitiamoci meglio: è un disco immerso in un immaginario (sonoro e non) che è vecchio, stantio, odorante morte e putrefazione. Si dirà: è lo stesso immaginario che vive ogni giorno in molte delle nostre radio, delle nostre televisioni. È l’immaginario che vince sul mercato. Verissimo. Idhea e i suoi collaboratori, su questo, possono stare tranquilli: la mia profonda e insindacabile stroncatura non avrà nessun seguito sulla carriera di questa bella ragazza a cui piace cantare, con una voce molto particolare (bassa, piena), le sue canzoni Pop / finto Rock. Ma un disco così è un disco inutile, e, in quanto tale, dannoso.

Le canzoni sono trasparenti, le solite tre cose che sentiamo ovunque. Il Pop d’autore lo si cerca dalla coffa, sperando che spunti nella nebbia per gridare con sollievo “Terra!!!”, ma non accade. La ricerca e la sperimentazione, per favore, lasciamole a chi si fa il culo per uscire dal seminato dopo 60 anni e più di musica leggera (non basta un synth buttato dentro a caso). E il Rock… se Rock vuol dire una batteria in 4/4, qualche chitarra elettrica e due assoli, allora Sanremo è Woodstock e il mondo non ha più senso. E anche ad inserire questo disco nel filone del Pop italico mainstream, si fa fatica a dargli la sufficienza. Le melodie non sono poi così accattivanti come ci si vuole far credere, e la produzione, sebbene di livello, non è nello standard radiofonico che possiamo raggiungere oggi (alcuni suoni sono pugni nelle orecchie, e non riesco a farmi piacere questa voce maschile che si appoggia in ogni ritornello sulla voce principale: distrae troppo, manco fossero tutti duetti). E anche quando si tenta di fare di più, si toccano degli attimi di involontaria ilarità: sentire “No Chains” che cita “La Bamba” e “l’hit single” “Non è possibile” dove ad un certo punto si cerca il semi-Rap parlato con risultati purtroppo pessimi. Un disco da cui girare alla larga se appena appena capite la differenza tra Cristina Donà e Laura Pausini, tra Carmen Consoli e Emma Marrone. Fate voi.

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Molla – Prendi Fiato

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I beat che introducono “Barbie 83” hanno il gusto melanconico, il sapore dei bei tempi passati, un romanticismo goffo, adolescenziale che strappa un sorriso, e perché no una speranza. Il disco di Molla è intenso e frivolo allo stesso tempo, proprio come questa canzone che cattura l’ascoltatore con l’astuzia di chi i pezzi Pop li sa scrivere per davvero. E mettere come prima traccia un brano come questo è sintomo di malizia, che spinge l’ascoltatore a tendere l’orecchio per il resto dell’album con parecchia curiosità. Un po’ Tiromancino, un po’ Subsonica, un po’ Daniele Silvestri. Ma così personale che è inutile cercare le miriadi di sfumature e contaminazioni presenti in questo progetto. Il disco solista di questo artista pugliese parte in realtà da una collaborazione. In bilico tra il perfetto connubio di sonorità Elettro-Pop generato da Luca Giura (proprio colui che si fa chiamare Molla e già conosciuto nell’underground pugliese con gli Ameba4 e Il Sogno) e DJ Amber, che qui la dj non la fa per nulla, ma scrive dei testi che sembrano incisi direttamente sulla pelle, e a volte riescono pure a perforarla ed ad entrare dentro. Complice anche la voce di Luca, non di certo virtuoso o con una voce che si possa ricordare facilmente per la sua timbrica. Ma la sua espressività riesce a vincere e a rendere ogni momento del disco profondo e vero. Dieci brani in cui parole e musica si fondono, si toccano e vibrano insieme. “In Silenzio” è vera poesia elettronica: “sei arrivata dentro me come una foglia, che ad ogni mio respiro si muove”. Non ci sono voli pindarici, neanche troppe pretese. Molla parla terra terra, al cuscino sudato in una notte d’estate, al caffè tutte le mattine e al traffico nel rientro da un weekend lungo. Rende meravigliosa e ricca di sfumature la quotidianità. I brani non vanno oltre il rapporto di coppia? Non proprio, il disco è uno spaccato di indecisione, paure più o meno futili, ma anche di riflessione. Specchio di una realtà che va oltre la difficoltà delle relazioni interpersonali.


La struggente ballata “I Nostri Occhi” è un frullato di ricordi e rimpianti, del destino già scritto nella roccia. “Aldilà” sembra essere suonata in una calma prateria di fonte ad un cielo stellato, pare descrivere l’eterna ricerca, “prendiamo fiato” perché qui le atmosfere non sono mai frenetiche ma piano piano ci si sposta, la meta non esiste. La canzone parte con una semplice e scarna chitarra acustica per poi arricchire il tutto con un goccio di feedback, sintomo di un lavoro sopraffino su suoni ed arrangiamenti. Produzione eccelsa insomma, anche nei pezzi più difficili ed ostili come la sbilenca “Sottovoce”. La rotta è storta, quasi a rompere una monotonia, che personalmente non riesco proprio a trovare in questo album. La linearità del Pop ritorna a chiudere il cerchio con “Prendi Fiato”, facile, comoda e diretta. Non un singolone certo ma salvata dai versi di pura poesia recitati nel mezzo. “Ho lasciato quella brutta espressione del viso in uno specchio sempre più sfocato. Ho cancellato con una mano come si fa su di uno specchio bagnato il ricordo che nella testa girava. Solo prendendo fiato”. Sono arrivati tardi, ma posso dire che questo è uno dei dischi italiani più riusciti e più intensi dell’anno passato. Una vera sopresa.

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Le Luci della Centrale Elettrica – Costellazioni

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È difficile scrivere una recensione di questo disco. Forse perché non stiamo parlando davvero di UN disco, ma di dischi, al plurale. E poi stiamo parlando di Vasco Brondi, che, volenti o nolenti, è stato considerato una voce di punta della fantomatica leva cantautorale degli anni zero. Da questo disco (il terzo) ci si aspetta qualcosa, fosse anche il proseguimento della continuità che c’era tra i primi due, ma più realisticamente si spera in un’evoluzione, un passo avanti nel percorso artistico de Le Luci della Centrale Elettrica. E quindi? Andiamo con ordine. Prima di tutto va detto che il disco è un disco denso. Non è un disco facile da esplorare. Alcuni episodi sono magari più accessibili del solito, ma si ha bisogno di tempo per entrare in tutti i dettagli, e anche scrivendo questa recensione continuo a scoprire cose e a rendermi conto di particolari prima inosservati. Questo fatto è strettamente collegato a ciò che accennavo più sopra: I dischi, non IL disco. Costellazioni (così ammette lo stesso Vasco) ha avuto una genesi travagliata, prima scritto e arrangiato “al computer” con Federico Dragogna dei Ministri, poi registrato in studio con una pletora di (peraltro ottimi) musicisti, ottenendo in pratica due dischi distinti, che in seguito sono stati “fusi” per creare questo prodotto ibrido, che Vasco sente suonare come “canzoni dalla pianura padana lanciate verso la galassia, storie piccole ma che si vedono anche dalla luna”. È un disco in cui convivono tante anime diverse, dove Vasco si è divertito a inseguire i tanti suoi gusti e punti di riferimento (CCCP e Battiato su tutti), dove ha sperimentato cose mai tentate prima (testi narrativi, più focalizzati; il cantato, che prima era esclusivamente parlato o urlato, diventa in alcuni casi più melodico; la chitarra viene spesso relegata in secondo piano, e sostituita con pianoforti, beat elettronici, oceani di synth, archi, fiati). Abbiamo quindi “I Sonic Youth”, una dolce ballata per pianoforte, elettronica e voce, ma anche “Firmamento”, elettrica e aggressiva, dove Vasco riprende “lateralmente” i generi che suonava nella sua adolescenza; c’è “Le Ragazze Stanno Bene”, scritta con Giorgio Canali, più classica, con voce e chitarra acustica a giostrare il marasma, ma anche “Ti Vendi Bene”, che è in pratica un pezzo sfigato dei CCCP (ma non per colpa di Vasco, sono i CCCP che sono inarrivabili).

Insomma, Costellazioni è un pastiche, è caos, è confusionario e sfilacciato, però è anche un disco coraggioso, perché darà nuovo materiale critico ai detrattori, scontentando al contempo quella fetta di seguaci affezionata allo stile sempre identico che Le Luci della Centrale Elettrica aveva reso quasi materiale di barzellette o di generatori automatici di canzoni di Vasco Brondi. In questo io ci vedo coraggio, perché Vasco ha saputo inseguire alcune ispirazioni che lo tentavano, lasciando i lidi comodi e sicuri della sua solita solfa, sperimentando, incastrandosi, cucendo, scucendo e ricucendo i brani. In alcuni casi questo coraggio ha pagato (il primo singolo, “I Destini Generali”, è luminoso e leggero, cosa che non gli era mai riuscita bene in passato, e rappresenta bene il filone di speranza, di “musica sotto le bombe” che attraverso il disco come una lama di luce nel buio; in “Un Bar Sulla Via Lattea” e in “La Terra, l’Emilia, la Luna” è riuscito a rendere bene l’idea di musica rurale e spaziale” tra la provincia, a cui tiene tantissimo, lui emiliano di Ferrara, e le stelle), in altri casi rischia molto di più di spiazzare l’ascoltatore (“Padre Nostro dei Satelliti”, “40 Km”, “Macbeth Nella Nebbia”, per alcuni versi “Uno Scontro Tranquillo”) e di sembrare perso, smarrito nel disorientamento causato da un overload di informazioni, idee, spunti. Il disco, insomma, è un mezzo fallimento, ma al contempo una mezza vittoria: porta Le Luci della Centrale Elettrica fuori dal pantano, verso le stelle. È vero, lo fa spesso con ingenuità e con poca chiarezza del percorso da fare, ma mi sento di dire che ascoltando Vasco parlare durante la presentazione del disco ho percepito che questo, lui, lo sa. Sa che il disco è il risultato di tentativi, di prove, di colpi di reni disperati e molto, molto necessari. E sa (e lo ammette) che il futuro sarà scegliere, tra le numerose vie che questo album-crocicchio ha aperto, quella che saprà convincerlo di più, e prenderla e percorrerla fino in fondo.

Per finire, due considerazioni: la prima è che non scherzavo quando dicevo che il disco è un mezzo fallimento, ma anche una mezza vittoria. Sono I dischi, ricordate? Quindi il mio consiglio per l’ascolto è di approcciare Costellazioni col cuore aperto, e di saper riconoscere quali canzoni riescono a parlarvi, e quali no. C’è per forza qualcosa per voi, lì dentro. Io, per esempio, sono stranamente stregato da “Blues del Delta del Po”, da “Uno Scontro Tranquillo”, da “Le Ragazze Stanno Bene”… insomma, io mi sono creato una sorta di Costellazioni privato, che mi parla in prima persona, lasciando fuori ciò che non mi arriva. In questo senso, l’avere perso focus in favore della varietà e della sperimentazione anche “strana” è stata una mossa vincente. Pezzi così, nel bene e nel male, difficilmente li incontrerete altrove. La seconda considerazione è su Vasco Brondi. In questo disco è chiaro come non mai che definirlo cantautore, se non un errore, è quantomeno un understatement. Vasco fa Punk, fa Rock, ha nelle orecchie gli anni 80, l’elettronica, i sintetizzatori, le distorsioni. Le Luci della Centrale Elettrica può diventare, ancora di più, un progetto trasversale, aperto, capace di tutto. Questo disco è un azzardo, è, se vogliamo, uno sbaglio, ma è dagli sbagli che nascono le emozioni vere. E quindi ascolto questo delirio di disco immaginandomelo con la metà delle canzoni e con una concentrazione più affinata, e so (e spero) di stare ascoltando il prossimo disco, Le Luci della Centrale Elettrica di domani, ed è un bel sperare.

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Il Cane – Boomerang

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Nuova fatica per Il Cane che torna a due anni di distanza dal precedente disco Risparmio Energetico. Il secondo lavoro si chiama Boomerang ed esce sotto etichetta Moscow in collaborazione con Matteite Records. Un sound elettronicamente moderno scaccia la noia dei soliti cantautori Indie, ormai non sentiamo niente di nuovo da troppo tempo, la paura è sempre quella di scendere nella convenzionalità assoluta. Il prodotto di Matteo Dainese aka Il Cane è fresco, il profumo si sente da lontano, il rancido malessere della mediocrità non passa mai dalle sue parti. “Vero” apre Boomerang in maniera delicata, chitarra acustica ritmata dal sentimento, batteria che apre il pezzo come nei migliori stati di grazia, il riff gira simpatico e dannatamente orecchiabile. Grande impatto il primo brano. Capisco subito di avere tra le mani una produzione importante. Quindi qualcosa di musicalmente valido vive in Italia? Piacerà a molti, attirerà l’invidia dei saputelli musicali. Poi “Il Premio” e l’effetto sole continua ad abbronzarmi la faccia, quasi brucio ma resisto. Particolarmente colpito da “Maledizione”, elettronica cupa, ritmo capace di trasmettere gioia e tristezza. Miscela di sensazioni, tremo col sorriso e nonostante tutto sono felice. “Al Tuo Tempo” arriccia la pelle, intima e violenta. Interiorità trasmessa dalle fredde corde della chitarra, pezzi di vita in musica.

Musica ritmicamente incalzante in “Alla Grande” e “Sguardo Perso”, buona interpretazione vocale de Il Cane, la sua voce rimane impressa come poche. Particolare e da non sottovalutare. “Lacrime” sembra un inno alla delusione, pizzica lo stomaco. Emotività al massimo ed esplosioni Post Rock. Sempre tutto legato da un senso di innovazione, qualcosa di diverso. Sulla stessa linea “Spettri”, un testo bellissimo e la capacità di lasciarsi penetrare incondizionatamente. Perché fare musica significa soprattutto regalare emozioni, e in Boomerang troviamo tanta roba, ascoltate “Cuscino Rosso” e lasciatevi incantare. Le idee girano bene nella testa de Il Cane, girano talmente bene che le soluzioni sembrano essere sempre a portata di mano. Diversa e particolare “Panico”, si gioca molto d’effetto. Si ritrova la potenza delicata dell’inizio nella conclusiva “Sconosciuti”, molto Rock e introspettiva, Il Cane brucia di molto la diretta concorrenza. Non mancano importanti collaborazioni per la riuscita del disco, Egle Sommacal (Massimo Volume), Ilaria D’Angelis (… A Toys Orchestra) e Marco Testa di Fuoco (Giorgio Canali & Rossofuoco) sono soltanto alcuni dei musicisti presenti in Boomerang. Arrivare al secondo album e confermare il primo è roba rara tra le band e i cantautori di questa sporca epoca, Il Cane non solo conferma ma migliora la propria produzione e Boomerang assume una propria personalità garantendo bellezza e originalità. Il Cane è tra i migliori artisti italiani in circolazione, e quelli meritevoli si contano sopra le dita di una mano. Se non volete scendere nella banalità di album fotocopia e finti cantautori questo disco darà la svolta alla vostra ricerca. Pop è bello. Boomerang è stupefacente.

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