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“Sing for Absolution”: 7 dischi per i Deleted Soul
I dischi essenziali per accompagnare il proprio viaggio spirituale alla ricerca della redenzione.
Continue ReadingAlgiers @ Astoria, Torino | 13.11.2017
L’Astoria di Torino ha ospitato lunedì 13 novembre sul palco del suo basement gli Algiers, band che con soli due album pubblicati è riuscita ad attirare su di sé una discreta attenzione.
Lilia
Lilia Scandurra, in arte semplicemente Lilia, è una giovanissima artista pescarese che sta facendo tanto parlare di sé in questi mesi, grazie alla pubblicazione dell’Ep 44 e ad alcune convincenti esibizioni live, tra cui quella a Streetambula Music Contest dove ha ricevuto il riconoscimento Wallace Multimedia come miglior presenza scenica, premiata dal grande e storico leader dei Diaframma Miro Sassolini. In occasione dell’esclusiva video offerto a Rockambula, abbiamo parlato un po’ con lei di passato, presente, futuro e numeri.
Ciao Lilia, come stai?
Questa è la domanda più difficile del mondo, no comment! Scherzo, mi sento bene (ride ndr)
L’ultima volta che ti ho visto suonare dal vivo eri a Pratola Peligna (AQ), un paesino abruzzese dove c’è un grande fermento e dove hai fatto breccia nel cuore del pubblico. Avevi già suonato lì in occasione di Streetambula Music Contest, quando Miro Sassolini ha premiato la tua performance con un riconoscimento speciale. Che esperienza è stata e cosa ti ha lasciato? Credi nell’utilità dei contest?
È stata una bellissima esperienza, prima di tutto perché quando si partecipa ad eventi organizzati con il cuore, torni a casa con il sorriso, pieno di energie positive e voglia di credere in quello che fai. Lo Streetambula Music Contest è stato il secondo concorso a cui io abbia mai partecipato e lì ho avuto l’occasione di conoscere nuove persone ed interessanti realtà artistiche ed è soprattutto questo che conta per me.
Cerchiamo di chiarire che tipo di musicista sei. Da sola sul palco, in compagnia solo del tuo portatile, mescoli un’Elettronica leggerissima a suoni e parole multiformi usando piccole tastiere e percussioni generate da drum-machine oltre che la tua incantevole voce. Tu l’hai definita Elf-tronic, qualcuno la chiamerebbe Dream Pop. Spiegaci la tua musica lasciando da parte le definizioni.
Per me suonare vuol dire (anche) “giocare”. Quando mi esibisco sento scorrere dentro di me vibrazioni che risvegliano una parte istintiva e un po’ “mistica” perché è in atto un processo creativo, ed è anche per questo che preferisco la dimensione live: i brani registrati in studio sono come un “diario di bordo”, le performance sono “avventura”.
Sul palco non ti affianchi ad altri musicisti e le tue possibilità di movimento sono limitate dalla necessità di controllare il computer e tutto il resto. Quanto questa scelta minimale gioca a tuo vantaggio e quando può trasformarsi in un limite, sia in ambito compositivo e sia in merito alla capacità di riempire il set?
Allacciandomi alla risposta precedente, quello che mi piace di questa dimensione è proprio la possibilità che ho di divertirmi. Ho iniziato il mio percorso artistico cinque anni fa, esibendomi con la mia chitarra (e registrando poi un disco nel 2011, Il Pleut, che ho portato in giro talvolta in solo, talvolta accompagnata da ottimi musicisti) ed il limite personale che sentivo allora era proprio quello di sentirmi “racchiusa” in una bolla, dove abbracciavo la chitarra quasi fosse uno scudo protettivo. Con questo progetto sento invece molto forte la libertà di movimento, posso saltellare, spostarmi, premere, automatizzare, come un’alchimista nel suo laboratorio, e tutte le piccole scatole magiche (aka laptop, drum-machine etc) di cui dispongo, sono piccoli e potenti giocattoli che mi permettono di suonare, trasformare la voce, registrarla in tempo reale per creare atmosfere.
Da poco è disponibile (qui) il tuo Ep 44. Come nasce un lavoro come questo, quali sono le tue ispirazioni e i tuoi punti di riferimento?
Voglia di sperimentare ed ossessione (due mesi passati nella mia camera che pian piano è diventata un piccolo home studio) sono due fattori che hanno inciso fortemente nella creazione di 44.
Raccontaci il perché del titolo. In realtà io già so qualcosa e non posso negare che la storia è affascinante.
I numeri pari mi fanno sentire tranquilla. 44, è un numero che mi fa stare bene per vari motivi (sui quali non mi dilungherò per non sembrare una psicolabile (ride ndr)), ed è proprio per esprimere il benessere che ho provato nel registrare l’ep che ho scelto il mio numero preferito.
Lilia è indissolubilmente legata ad un’altra band che tanto sta facendo parlare di sé. I Two Fates. Cosa vi avvicina e ci sono delle affinità anche stilistiche tra voi?
Tiresia e LorElle (le due anime dei Two Fates appunto, ndr) sono amici preziosi. La loro caratteristica più potente è il coraggio di osare, e il loro naturale pregio è quello di riuscire a condividere: emozioni, sapere, pensieri e momenti. Tiresia si è occupato del mixing e del mastering di 44 e continueremo a collaborare per il prossimo lavoro (vero, Tiresia? (ride ndr)). Ci sono tante affinità che ci accomunano ma anche interessanti differenze stilistiche che rendono produttivo il nostro scambio.
Credi che una musicista come te possa trovare un suo spazio dentro la scena emergente e indipendente italiana o sei, volente o nolente, relegata ad un ruolo marginale?
Sì, lo credo. E il mio obiettivo è quello di emergere, sempre rimanendo un’artista che fa parte di un sottobosco che sia poco mainstream.
Perché hai deciso di fare questo nella vita? È solo questione di passione o ci sono stati eventi in particolare che ti hanno fatto prendere certe decisioni.
Non nascondo che all’inizio è stato “strano”. Come un po’ tutti quelli che si “scoprono” eseguendo repertori inediti, ho cominciato molto timidamente perché ero abituata a suonare per me. Nel mio primo live ho eseguito tre canzoni… e mezzo. Ero terrorizzata! Inoltre, come spesso accade, il fatto di esibirmi davanti a degli ascoltatori mi ha aiutata a migliorarmi. Inoltre prima di suonare sono sempre un po’ nervosa ma, non appena comincio, questo stato d’animo lascia spazio ad un benessere che mi riempie. Tutti dovrebbero avere uno spazio dove poter provare questo.
Restando in tema, nella vita ti occupi di altro o sei musicista a tempo pieno? E comunque, pensi che nel 2014 si possa scegliere di essere musicisti professionisti (turnisti esclusi)?
Quest’anno mi sono laureata in Lingue Straniere e di tanto in tanto faccio lavori inerenti al mio campo di studio. Inoltre negli ultimi mesi ho registrato le voci per i due EP di Dear Baby Deer (ascolta qui) , progetto di Gianluca Spezza (ex Divine), che si divide tra Italia e estero. Secondo me si può scegliere di essere musicisti a tempo pieno, con molti sforzi e tanta umiltà. Bisogna essere concentrati e non lasciare nulla al caso.
Tra i tanti complimenti e apprezzamenti, non manca mai anche chi trova il modo di criticare ed in fondo è giusto così. Tra le cose che più ti si rimproverano ho trovato più interessanti anche se non sempre condivisibili queste di seguito: 1) alcuni brani sono troppo lunghi, ripetitivi e pesanti 2) il live è troppo scarno 3) dovresti lasciare a qualcuno più esperto la parte relativa al lato elettronico e dedicarti più alla voce. Quanto c’è di condivisibile?
Le critiche costruttive non mi danno fastidio, anzi. Con 44 mi sono messa in gioco totalmente, sapendo che avrei potuto ricevere pareri contrastanti. Una cosa che chiedo sempre alle persone che ascoltano il mio lavoro è di darmi un parere sincero, perché ne ho bisogno. Sono una musicista profana – non ho mai studiato- ma ho sempre dedicato tanto tempo a quello che mi fa stare bene. Sono testarda e questo fa si che io rincorra ciò a cui voglio arrivare senza compromessi. Il live è minimale perché è così che sono io, i brani sono forse troppo lunghi ma non ho il dono della sintesi e per me non esiste superfluo: se una canzone nasce lunga sei minuti e cinqanta la lascio così. Mi piacerebbe un giorno provare a condividere il palco con qualcuno che possa arricchire la performance, ma questo non perché io voglia lasciare a qualcuno di più esperto il “lavoro sporco”. Mi diverto tanto a fare tutto da sola per adesso (oltre ad essere una formula comoda quando mi sposto), e mi divertirei suonando con qualcuno.
Qual è la cosa più bella che la musica ti ha regalato e quella assolutamente da dimenticare?
Una cosa sola, che abbraccia entrambe: la consapevolezza di essere “delicata”. Una cosa che gioca a favore di chi si espone, perché significa possedere sensibilità. Nello stesso tempo è qualcosa che viene piacevolmente “dimenticato”, quando, appunto, ci si espone.
Di cosa parla Lilia nelle sue canzoni (in inglese)? E cosa vuole trasmettere?
Di immagini simboliche, metafore, esperienze reali o immaginarie. Per me sono piccole pillole terapeutiche o formule magiche. Vorrei trasmettere sensazioni che siano difficili da esprimere.
Quando la musica è arte e quando semplice intrattenimento?
Ho lasciato questa domanda per ultima, lo sai? È la più bastarda che mi abbiano mai fatto (e con questa risposta, mi riallaccio all’ultima domanda *risata malvagia* )
Quali ascolti hanno portato Lilia a comporre la sua musica? E cosa ti piace ascoltare abitualmente?
Pensandoci su, mi sono resa conto che tendo a prediligere voci femminili, per una questione di studio personale. Fever Ray, Bat for Lashes, Grimes, Norah Jones, Tori Amos, Portishead…Poca musica italiana. Nutro un amore incondizionato nei confronti di Nick Drake.
Ultimamente proprio Tiresia dei Two Fates ha messo in luce uno dei problemi attuali della scena musicale italiana, data dal ruolo delle etichette, anche indipendenti. Da un lato chi le critica di non avere voglia di sbattersi troppo dietro ai gruppi, dall’altro chi accusa invece le band di non voler fare il lavoro “sporco” di crearsi una fanbase, vendere merchandising, ecc.. Che idea ti sei fatta e che rapporto hai con le etichette?
Sono affascinata da queste discussioni, ma preferisco non pronunciarmi perché sto ancora osservando da un punto di vista “distaccato” poiché momentaneamente non sto lavorando con nessuna etichetta. 44 è un album autoprodotto, registrato in casa e disponibile in formato digitale. È gratuito, perché il mio obiettivo è raggiungere tante orecchie, e, per lo meno per me, non è indispensabile cercare guadagno dove non ci sono costi da recuperare. Sono più concentrata sull’investire energie e tempo per far si che ciò di cui la gente fruisce sia godibile. E a curare la dimensione live, che è la cosa che per me conta maggiormente.
Come ti stai muovendo per promuovere la tua musica e dove credi di poter arrivare?
Finora mi sono occupata personalmente della mia promozione. Grazie allo Streetambula Project è da poco sbocciato un magico sodalizio con la deliziosa Roberta D’Orazio (Mola Mola), che mi sta facendo da Ufficio Stampa. Inoltre sta nascendo una collaborazione con un’agenzia di booking che mi darà la possibilità di portare in giro il mio progetto.
Grazie mille per il tuo tempo e per le tue parole. Un’ultima cosa prima di salutarti. Ho avuto il piacere di conoscerti e sei una persona deliziosa, sempre disponibile e carina con tutti, sempre. Dimmi qualcosa di cattivo, verso chiunque. Ce la fai?
Facilissimo! Qualcosa di cattivo, verso chiunque. (Vedi: “Spirito di patata”)
Una Lux, guarda il video di “Simon”
Il gruppo Newyorkese UNA LUX è esteticamente molto piu ambizioso del tipico gruppo Indie Rock, visto che non ha paura di citare pittori Barocchi, registi avantgarde, Pink Floyd e Portishead. Il chitarrista del gruppo, Matteo Liberatore, che ha diretto il video, dice che “il video e’ pieno di omaggi. Abbiamo cercato di far riferimento all’uso delle luci di Storaro, gli studi sui corpi e le forme di Caravaggio, il mondo enigmatico di Lynch, e poi abbiamo montato il tutto come fosse un film della Nouvelle Vague”. Il risultato finale e’ un surreale studio sulla luce e sui corpi che si sposa perfettamente con un pezzo dove suoni sintetizzati si fondono con la voce sensuale di Kelso Norris.
Ard – NeurodeliRoom26
La Campania, si sa, è un territorio difficile come lo è la Sicilia, la Puglia ma infondo tutta l’Italia (e tutto il mondo) mangiata dalla mafia. La mafia, detta in parole povere, è un potere più forte che schiaccia quello più debole, infiltrandosi dappertutto e anche nella musica che diventa veicolo pulito attraverso il quale far passare i messaggi del clan. Questo ce lo dice Roberto Saviano in alcuni suoi racconti ma anche il rapper Lucariello che, fortunatamente, fa parte di quella schiera di musicisti davvero puliti, cui fa parte anche il salernitano Ard, protagonista di due altre autoproduzioni e varie collaborazioni.
NeurodeliRoom26 di Ard è l’album d’esordio ma anche, come descritto dall’artista stesso, “un viaggio onirico, tra le paure e i deliri della stanza 26 (stanza ispirata al film “Eraserhead” di D.Lynch)” a cui si accede attraverso una breve intro di poco più di due minuti denominata “Deja Vu pt.1” che ha il compito di aprire la strada a “Deja Vu pt.2” che parte con un rap sparato ben strutturato nelle liriche e nelle basi sonore. “P’ cena” rinforza quanto detto prima, evidenziando le qualità di rapper di Ard, anche se ha un outro che si discosta molto dal resto del brano e soprattutto dalla successiva “StendhArd” che comincia simulando i Portishead per poi allontanarsi e in pochi secondi dirigendosi verso spazi musicali totalmente opposti. Il gioco di parole sul titolo fa capire che forse il brano in questione vuol essere quasi il manifesto sonoro di Ard ma forse la successiva “Passpartout” (complice l’uso della lingua italiana) secondo me lo identifica maggiormente grazie anche a un uso massiccio di scratch ed elettronica. “Ndr26” presenta rime interessanti e mai troppo banali invece “Hotline dei Suicidi” è un insieme di campionamenti ben incastonati tra loro ma in maniera forse un po’ troppo ardita che difficilmente potrà essere recepita da un ascoltatore in Italia ma probabilmente troverebbe apprezzamenti di critica e di pubblico soprattutto in Inghilterra e negli Usa. “Krmstr” inizia con l’intro di “Lullaby” dei Low, brano contenuto nel capolavoro Slowcore I Could Live in Hope ma poi “Ruorm’ ca è Meglio” attenua le atmosfere conducendo alla fine del disco.
Un lavoro che in linea di massima presenta molti buoni spunti e idee soprattutto nell’impasto musicale e nei testi che sembrano ben studiati ma la struttura dei brani rimane sempre statica con effetti e campionature sia all’inizio che alla fine di ognuno e per quanto riguarda le cifre stilistiche non sembrano esserci riferimenti alla scena rap italiana, quanto più che altro a quella americana, che tuttavia presenta testi più incisivi e violenti. Infine, forse con un mastering migliore e con un produttore, questo lavoro avrebbe guadagnato anche qualcosa in più in suono, stile e volume che se alzato al massimo distorce i suoni.
“Diamanti Vintage” Portishead – Dummy
Il Trip-Hop con Dummy dei Portoshead ha il suo regno assoluto, lo scettro e la corona di un ragguaglio indistruttibile, la sua pietra miliare che, insieme ai Massive Attack e Tricky, non sarà – a tutt’ora – mai rimossa da nessun altro, e la Bristol caliginosa di nebbia e basse frequenze si innalzerà nei Novanta a capitale mondiale del genere.
Un disco cinematico, di talento e visioni atmosferiche letterarie, le pellicole degli anni Sessanta che tornano a srotolarsi per una nuova vita lungo gli strascichi di un Pop vellutato, invisibile e colorato al neon, digressioni sonore dal Soul al Bossanova, raffinatezze e sincronizzazioni che suggestionano l’ascolto come si fosse dentro una bolla d’aria, e poi quel divino decadentismo che si evolve e striscia esistenzialista come una foglia alla fine del suo ciclo vitale; Beth Gibbons voce, Adrian Utley chitarra/basso/theremin e Geoff Barrow alla produzione svelano il lato oscuro dell’anima inglese, apportano quella dolcezza amara e ovattata che ibridata dagli effetti sintetici a loop, lo scretch mutuato dall’Hip-Hope quella melodia trasversale al French touch, diventa una formula sognante e trippy che ha lasciato segni indelebili in una generazione notturna, al limite del buio.
Undici brani preziosi, teneri e minimalisti, idonei per percorrere costellazioni oniriche e stati di grazia virtuali, la sensualità impalpabile della Gibbons è alle stelle, le impronte Jazz “Strangers”, “Pedestal”, il soul rarefatto “Roads”, il Dream Pop di “Sour Times”, o la liquidosità eterea di “I Could Be Sweet” producono una serie di vibrazioni quasi estatiche, registri che si allungano e accorciano a seconda della struttura ipnotica o meno che il brano certifica, stop & go “Wandering Star” che vanno ad interpretare il pulse di tempie dilatate e vene a scorrimento aperto; definita la Billie Holyday dello spazio, la Gibbon insieme al sodale Utley firmano un disco che è una vera opera d’arte cosmique, quelle istantanee molecolari che una volta messe in moto sconvolgono con la dolcezza amara qualsiasi secondo della durata del disco e dove la parola “perfezione” trova finalmente e definitivamente collocazioni nella musica degli umani “umanoidi”