Post-Hardcore Tag Archive

10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #23.09.2016

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letlive. – If I’m the Devil…

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Se dovessi trovare un tema portante per il nuovo disco dei letlive. questo sarebbe senz’altro il coraggio. Il coraggio di cambiare pelle, di affrontare chi non capirà le loro decisioni, di fare buon viso a cattivo gioco anche davanti la possibile perdita dei fan più bacchettoni.

Già da “I’ve Learned to Love Myself” ci ritroviamo spiazzati davanti a una dose di malinconia talmente massiccia da massacrarci l’anima. Che fine ha fatto la band artefice di dischi rabbiosi come Fake History o del più recente The Blackest Beautiful? Mistero. C’è qualche avvisaglia del passato in “Good Mourning, America”, political song che affronta un argomento delicato come la discriminazione femminile. Però poi con la struggente “Who Are You Not” si percepisce ancora quel malessere che solo un cuore spezzato può comprendere. Sul loro sito capeggia la scritta a caratteri cubitali The Soul Punx Experience: di Punk ne è rimasto ben poco (“Elephant”), di Soul ne troviamo a bizzeffe in “A Weak Ago”, spaccato di un improbabile incontro tra i Nirvana e Michael Jackson. Paradossalmente l’episodio più claudicante è “Another Offensive Song”, sicuramente il pezzo che ricalca maggiormente le orme delle fatiche precedenti, ma che qui fa la figura becera del pesce fuor d’acqua. Pregevole però la scelta di piazzare la canzone più forte proprio prima delle due conclusive che sono l’apice della sensibilità di una band che si toglie di dosso ogni forma di acredine. “If I’m The Devil…” e “Copped Colored Quiet” mettono il punto a uno dei lavori meglio riusciti dell’anno in corso, dove ogni singola composizione resta impressa e riconoscibile anche a un ascolto poco attento.

Quando il rinnovamento coincide con il miglioramento c’è poco da fare. Ogni ulteriore parola spesa sarebbe superflua. Chapeau!

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Cronauta – The Bullring

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Ci vuole una buona preparazione fisica e psicologica per far fronte all’onda anomala che da Finale Emilia travolgerà le vostre case, spazzerà via tutto, lasciando solo detriti. The Bullring è il primo disco edito dall’etichetta danese 5Feet Under Records per gli Hardcore heroes Cronauta ed è tranquillamente riassumibile come il suono della frantumazione. Nevrotici come i These Arms Are Snakes, inclassificabili come i Melvins, in Italia solo i Die Abete reggono il confronto per il livello eccessivo di pazzia espressa. “We Knew Well a Lip-Service Payment Would Have Followed the Statement” ed il singolo “Harangue” danno il via alle danze e subito la voce di Nicolò si scatena, senza dare respiro nemmeno per un secondo a uno sprazzo di melodia. C’è solo qualche spiraglio Experimental Jazz a intervallare l’incedere furioso, ma è davvero poca cosa. Così le parole incomprensibili ruggite fuori dall’ugola del cantante finiscono per fare da sfondo a un tappeto Mathcore tessuto dai tempi dispari della sezione ritmica. È però un qualcosa che metti in conto se ti avventuri in un ascolto simile. “Gentlemen’s Agreement” è un brano beffardo: in quattro minuti di canzone, uno di questi è dedicato a un intro rilassante che non lascia presagire a come sarà il seguito. Dobbiamo essere furbi noi ad essere impreparati, ma non troppo. “Mancuerda” ci regala la prima sorpresa con un giro di chitarra Noise inaspettato che molto deve a Duane Denison dei Jesus Lizard. Un assalto all’arma bianca che soddisfa un bisogno primordiale di smorzare i ritmi altamente schizzati dell’album. “Arizona Law in Northern Italy” mi ha ricordato tantissimo il sound degli Snapcase, soprattutto dal punto di vista vocale, anche se con i Cronauta nulla è circoscritto ed è lecito uscire dal recinto della prevedibilità. La chitarra di Niccolò cambia continuamente forma, passando dal caos a un riff quadrato e ragionato, trovando un riscontro perfetto nel resto dei compagni d’armi, impeccabili e facenti sfoggio di una padronanza strumentale eccelsa. The Bullring è un disco potente e prepotente, non adatto ai deboli di cuore e a chi vive la musica come una fonte di relax. Tutti gli altri non abbiano paura di dare una chance a questi camionisti, anche perché “87% of the Homicides Are Committed by Truck Drivers”.

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Fall Of Minerva – Portraits

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Portraits segna l’abbandono dell’autoproduzione per i vicentini Fall Of Minerva e il conseguente approdo alla Basick Records. Dopo tre EP registrati tra il 2010 e il 2013, può questo lavoro segnare la loro naturale evoluzione?

L’inizio è confortante: “Beyond The Pines” ha un incipit claustrofobico che fa da contraltare all’aggressività del resto del pezzo, dove una batteria articolata vibra dei colpi di rullante che paiono pietre volte a tumulare una lapide. Formula identica per “Novocaine” anche se in questo caso specifico è la voce di Sido a mettere le cose in chiaro, urlandoci di indossare i caschi protettivi perché le sue parole sono una pioggia incessante di granate. “Träume” è l’unico brano con il testo in italiano e per l’occasione a Sido si affianca Luca Rocco, cantante degli Storm{O}. Ne viene fuori un marasma urticante che è un ibrido malcelato di fragore ed estemporanea melodia. La medesima potabilità che fa di “Green Ghost” l’unico episodio serafico, se escludiamo la strumentale “Sguardi Nel Buio”. Di tutt’altro aspetto “Demagogy”, una traccia che possiede tutta la violenza di cui sono capaci i The Dillinger Escape Plan, amplificandola in modo crescente all’interno dei nostri padiglioni auricolari. Ci sembrerà di avere il cervello in fiamme.

Questa volta i Fall Of Minerva hanno fatto il botto, sfruttando al meglio i mezzi a disposizione per confezionare un disco che non delude e che agisce come un Navy Seal: mantenendo un basso profilo e senza lasciare scampo.

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Marnero | Intervista ai pirati dell’Hardcore italiano

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Bruuno – Belva

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Tra screamo e post-hc, la band esordisce con l’EP su etichetta V4V.
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Marnero – La Malora

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È tempo di conclusioni di inizio anno. È tempo di cominciare l’anno con un finale che lasci il segno. È tempo di chiudere un cerchio cominciato circa sei anni fa. Sto parlando de La Trilogia del Fallimento, concept sulla lunga distanza ideato dai Marnero e sviluppato in tre capitoli, di cui La Malora rappresenta l’epilogo. Come ogni bel libro che si rispetti, “Porti” è per il disco la degna prefazione, catartica, con il violoncello di Matteo Bennici ad addolcire solo parzialmente lo sfogo vomitato dalle parole di J.D. Raudo. Sono “Labirinti” e “L’Ubriaco” ad immergerci pienamente nelle atmosfere Hardcore tipiche dei Marnero, aggiungendo un personalissimo tocco Sludge. In mezzo a tutta questa rabbia abbiamo momenti di stacco, piccoli lampi di luce come la splendida “Il Baro”, sorretta da una chitarra soave e legata da una membrana invisibile a “Il Bambino”, l’episodio più introspettivo dell’album. Altre istantanee indelebili de La Malora sono senz’altro il violino di Nicola Manzan (alias Bologna Violenta) ne “Il Testimone” e la tromba di Paride Piccinini nella lapidaria “L’Altro Lato”. La band bolognese ci ha donato un lavoro dalle mille facce: veemenza, passione, riflessione. Eppure ci troveremo stranamente a nostro agio all’ascolto, cullati da note d’odio. E il naufragar sarà dolce in questo mare…di sangue.

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Nagasaki mon amour || Dieci artisti giapponesi che dovreste conoscere

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Top 3 Italia 2015 – le classifiche dei redattori

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I tre migliori dischi italiani di quest’anno secondo ognuno dei collaboratori di Rockambula.
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Recensioni | novembre 2015

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Max Richter – Sleep   (Modern Classical, Post Minimalist, 2015) 7,5/10

Capolavoro totale per il compositore britannico (lo trovate qui) che confeziona un’opera titanica la quale, anche per la durata che supera le otto ore, vuole essere realizzazione perfetta da assimilarsi durante il sonno. Disco dell’anno, se siete capaci di andare oltre le barriere del Rock e della forma canzone.

Ought – Sun Coming Down (Art Punk, 2015) 7/10

Secondo album eccelso per la band degna erede dei grandi Television. Tra le migliori e più originali formazioni Post Punk di ultima generazione, qui raggiungono il loro apice creativo.

Kathryn Williams – Hypoxia (Folk Pop, 2015) 7/10

Arrivata all’undicesimo album, la cantautrice britannica compone un concept ispirato al romanzo La Campana di Vetro della tormentata poetessa Sylvia Plath. Atmosfere soavi, minimaliste, ma di una notevole intensità. Da ascoltare in solitaria. Consiglio l’esilio su un’isola deserta.

Dhole – Oltre i Confini della Nostra Essenza (Post Hardcore, 2015) 6,5/10

Pregevole incastro di strutture sonore Post Rock e cantato Scream per questo quartetto lodigiano agli esordi, matasse di distorsioni da cui lasciarsi avvolgere mentre le liriche colpiscono violente. Un debutto meritevole di spazio nel consolidato panorama nostrano del genere.

Open Zoe – Pareti Nude (Pop Rock, Post Punk, 2015) 6,5/10

Carico di echi delle esperienze Alt Rock italiane anni 90 il primo disco di questa band veneta, armata di tradizionali basso-batteria-chitarra, a cui si aggiungono pochi tocchi di elettronica e un timbro vocale femminile che conferiscono un gusto catchy e contemporaneo al risultato finale.

Il Mare Verticale – Uno (Alternative Pop, 2015 ) 6,5/10

Non è semplice fare un bel demo. Bisogna essere esaustivi nel saper dar sfoggio di sé e delle proprie abilità compositive, senza strafare e risultare pesanti. E su questo Il Mare Verticale, con Uno, ha saputo davvero fare bene. Il disco apre con “Tokyo”, un brano Alternative Pop delicato, a cavallo tra Afterhours e sonorità Indie nordeuropee, che chiarificano subito timbri e accorgimenti che la faranno da padrone: arrangiamenti mai scontati per quanto perfettamente in stile, liriche (in italiano) trattate più come pretesto fonico che come significanti, atmosfera galleggiante e onirica, che sfocia naturalmente in “Non Luoghi”, con i suoi echi alla Radiohead. “Spuma” è forse la più italiana di tutto il lavoro della band romana, con richiami alla produzione di Benvegnù e Gazzè su tutti. Il disco chiude con “Elaborando”, che, quasi in maniera volutamente descrittiva, si connota in fretta come il brano più complesso tra i cinque, con i suoi ritmi marcati e il sound più cinematografico.

Prehistoric Pigs – Everything Is Good (Instrumental, Stoner, Psych Rock, 2015) 6,5/10

Distorsioni e spazi immensi, sabbiosi e oscuri. Un viaggio interminabile (otto brani per quasi un’ora di musica) tra i più desolati deserti  descritti da un trio non sempre impeccabile e fantasioso, ma che cerca perennemente il suo suono, incastrando la chitarra di Jimi Hendrix nel caldo torrido dell’Arizona. Peccato manchi la voce, avrebbe potuto dare maggior senso e maggiori vibrazioni a questo serpente sporco, vorace e velenosissimo.

La Casa al Mare – This Astro (Dream Pop,  Shoegaze, 2015) 6,5/10

Viene da Roma il terzetto che compone La Casa al Mare, con sonorità che non posso che richiamare subito una certa produzione Pop anni 80: voci indietro sullo sfondo, chiamate a far le veci di un vero e proprio strumento aggiunto, chitarre quasi prepotenti, seppure senza giri virtuosistici, effetti trasognani e riff ariosi e cantabili. This Astro apre con “I Dont’ Want To” che per i primissimi venti secondi sembra richiamare quasi gli Smashing Pumpkins e poi cede il passo allo Shoegaze in “Sunflower” e “M, particolarmente interessante per le aperture armoniche e il trattamento della dinamica. La mia preferita del disco risulta però essere “At All”, che suona come un brano degli Indiessimi Yuck. La costruzione dell’impianto sonoro cambia leggermente in “Tonight or Never”, in cui ogni elemento emerge con una brillantezza che sembrava mancare nelle tracce precedenti. L’EP chiude con “CD girl”, una traccia à la Raveonettes o My Bloody Valentine. Nulla di nuovo dunque, ma neppure qualcosa da cui rifuggire come la peste.

A Copy for Collapse – Waiting For (Electronic Synth Gaze, 2015) 6/10

Interessante duo barese che si muove agevolmente sulla via dei vari Telefon Tel Aviv, Mouse on Mars e The Postal Service. Qualche richiamo alla Dance Music poteva essere evitato. Sound anni 80 per chi non è fanatico degli anni 80.

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Auden – Some Reckonings

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Dopo un anno denso di musica elettronica di produzione nostrana – che peraltro personalmente ho molto apprezzato – metter su un album come Some Reckonings è un po’ come tornare alla realtà. Il fascino delle possibilità che i mezzi contemporanei offrono a chi fa musica genera una corsa all’originalità che riesce spesso, di proposito o per caso, a far passare in secondo piano altri aspetti non meno rilevanti nel processo compositivo, quali immediatezza e genuinità.
Gli Auden seguono un percorso anomalo, e dalla scena romana Hardcore di fine anni ‘90, senza passare mai per un reale esordio, dopo un decennio in stand-by inaugurano la collaborazione con V4V Records. A distanza di due anni dall’EP Love is Conspiracy arriva ora il long playing, che ha la faccia di un nuovo inizio piuttosto che di un ritorno, con background sonori e personali più ingombranti e fecondi. Lo è a tutti gli effetti, perchè la genesi dei brani che compongono l’EP dato alle stampe nel 2013 risale in realtà ai primi anni ‘00, ed è facile immaginare che per il quartetto all’epoca la vita, musicale e non, fosse assai diversa.
Mi incazzo sempre un po’ con gli italiani che scelgono l’inglese, ma non ho il tempo necessario per decidere se sono disposta a perdonare o meno l’esterofilia palese degli Auden, perchè “The Day of Reckoning” viene fuori urgente con chitarre in abbondanza che aprono i giochi senza preamboli. L’eco dei Fugazi è limpido, così come quello delle declinazioni nostrane (Fine Before You Came), fino a coprire tutto lo spettro delle derivazioni del Punk con episodi più orecchiabili e scanzonati alla Maximo Park (“False Restart”, “Better Than Not Believe It”).
Che sia il momento della resa dei conti è chiaro da subito nelle liriche. I’d like to be like Ian C. | fourty years old | outlived to himself | with grace in feeling | and sweer despair in spirit: In “Next Regrets” gli spettri del passato adolescenziale si aggirano tra le note ma la consapevolezza è un’altra, adulta e disillusa.
Qualche sbavatura nella pronuncia sgualcisce un po’ l’apprezzabile naturalezza con cui creano ambientazioni oscure ed energiche. L’apparato strumentale ridotto al minimo sindacale è più che sufficiente a convincere in meno di trenta minuti complessivi di ascolto che i ragazzi hanno imparato bene la lezione. Qualche guizzo negli arrangiamenti arriva con “Back and Forth” e in chiusura, con i virtuosismi di “Curtain”. Ne avremmo gradito qualcuno in più ma non importa, per il resto si può attendere perchè gli Auden ci hanno già dimostrato che non è mai troppo tardi, che si tratti di inizi, ritorni o evoluzioni.

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Shellac – Dude Incredible

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Vi ricordate di quel derelitto, occhialuto e schivo, che ha forgiato a suon di sferragliate il Rock alternativo degli ultimi trent’anni? Inutile ribadire l’importanza di Steve Albini, sia come musicista che come produttore (tra i più famosi Nirvana e Pixies); ciò che ha veramente rilevanza è che a distanza di sette anni dallo splendido Excellent Italian Greyhound, interrompe il suo mutismo e torna a violentare la nostra psiche con Dude Incredibile ultima fatica dei suoi Shellac. Accompagnato come sempre da Bob Weston (basso) e Todd Trainer (batteria), Albini ci ripropone la sua formula; battito marziale, geometrie pitagoriche e spigolosità chitarristiche, appuntite come cocci aguzzi di bottiglie. Tutto magnificamente abbinato ai classici stop and go da sindrome di Tourette, vero marchio di fabbrica del loro sound.

Certo, la misantropia furiosa del passato (Big Black, Rapeman) si è affievolita, lasciando spazio persino a tratti definibili melodici, senza mai abbandonare quello humor nero e perversamente violento che pervade i suoi testi. La grandezza di Albini è sempre stata quella di vomitare addosso all’umanità le putride meschinità concepite dal cosiddetto homo sapiens sapiens: non a caso la copertina dell’album ritrae due primati che lottano, immortalati nella loro istintività fatta di brutale purezza che risulta meno aberrante di qualsiasi periferia del nostro Paese, dominata da degrado ed emarginazione sociale. La title track apre le danze con oltre sei minuti di cupo e cigolante Post Hardcore a tinte Prog, dove questo power trio dialoga splendidamente generando un frastuono ferroso e controllato. “Complicant” è uno di quei pezzi dove la nevrastenia schizoide dei nostri raggiunge livelli drammatici nei conati finali di Albini, risultando il brano migliore del disco; il Post Rock slintiano di “Riding Bikes” accompagna magistralmente il cantato di Albini che si tuffa in un nostalgico, quanto doloroso, tuffo nel passato fatto di quell’ irriverenza bellicosa che si possiede solo a venti anni. “All the Surveyors” spiazza per la somiglianza con il Crossover rabbioso dei primi Rage Against the Machine; “Mayor/Surveyors“ è una breve jam funkeggiante che ricorda molto i Minutemen in salsa Noise.

“Surveyors” (pionieri) chiude l’album con il suo incedere diretto e viscerale, il ritmo è  scandito come un metronomo dalle sei corde di Albini grattugiate dai suoi plettri di rame, mentre Weston si dimostra uno tra i migliori bassisti in circolazione. A proposito di pionieri, innegabile che Albini lo sia, è altrettanto innegabile che sia un gradasso tirannico e sadico che concede la propria mostruosa genialità con meticolosa intermittenza, vista la cadenza temporale delle sue produzioni da musicista. Ovviamente il disco non è stato promosso con alcuna pubblicità e non ci sarà un tour conseguente, soltanto rare apparizioni live; Albini è  padrone totale della propria libertà compositiva. Può esserci vittoria più grande per un artista? Credo di no…ma ora alzate il volume e  fatevi flaggelare da sua maestà che reclama il proprio tributo, sperando di non dover aspettare di nuovo sette anni.

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