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Recensioni | novembre 2015

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Max Richter – Sleep   (Modern Classical, Post Minimalist, 2015) 7,5/10

Capolavoro totale per il compositore britannico (lo trovate qui) che confeziona un’opera titanica la quale, anche per la durata che supera le otto ore, vuole essere realizzazione perfetta da assimilarsi durante il sonno. Disco dell’anno, se siete capaci di andare oltre le barriere del Rock e della forma canzone.

Ought – Sun Coming Down (Art Punk, 2015) 7/10

Secondo album eccelso per la band degna erede dei grandi Television. Tra le migliori e più originali formazioni Post Punk di ultima generazione, qui raggiungono il loro apice creativo.

Kathryn Williams – Hypoxia (Folk Pop, 2015) 7/10

Arrivata all’undicesimo album, la cantautrice britannica compone un concept ispirato al romanzo La Campana di Vetro della tormentata poetessa Sylvia Plath. Atmosfere soavi, minimaliste, ma di una notevole intensità. Da ascoltare in solitaria. Consiglio l’esilio su un’isola deserta.

Dhole – Oltre i Confini della Nostra Essenza (Post Hardcore, 2015) 6,5/10

Pregevole incastro di strutture sonore Post Rock e cantato Scream per questo quartetto lodigiano agli esordi, matasse di distorsioni da cui lasciarsi avvolgere mentre le liriche colpiscono violente. Un debutto meritevole di spazio nel consolidato panorama nostrano del genere.

Open Zoe – Pareti Nude (Pop Rock, Post Punk, 2015) 6,5/10

Carico di echi delle esperienze Alt Rock italiane anni 90 il primo disco di questa band veneta, armata di tradizionali basso-batteria-chitarra, a cui si aggiungono pochi tocchi di elettronica e un timbro vocale femminile che conferiscono un gusto catchy e contemporaneo al risultato finale.

Il Mare Verticale – Uno (Alternative Pop, 2015 ) 6,5/10

Non è semplice fare un bel demo. Bisogna essere esaustivi nel saper dar sfoggio di sé e delle proprie abilità compositive, senza strafare e risultare pesanti. E su questo Il Mare Verticale, con Uno, ha saputo davvero fare bene. Il disco apre con “Tokyo”, un brano Alternative Pop delicato, a cavallo tra Afterhours e sonorità Indie nordeuropee, che chiarificano subito timbri e accorgimenti che la faranno da padrone: arrangiamenti mai scontati per quanto perfettamente in stile, liriche (in italiano) trattate più come pretesto fonico che come significanti, atmosfera galleggiante e onirica, che sfocia naturalmente in “Non Luoghi”, con i suoi echi alla Radiohead. “Spuma” è forse la più italiana di tutto il lavoro della band romana, con richiami alla produzione di Benvegnù e Gazzè su tutti. Il disco chiude con “Elaborando”, che, quasi in maniera volutamente descrittiva, si connota in fretta come il brano più complesso tra i cinque, con i suoi ritmi marcati e il sound più cinematografico.

Prehistoric Pigs – Everything Is Good (Instrumental, Stoner, Psych Rock, 2015) 6,5/10

Distorsioni e spazi immensi, sabbiosi e oscuri. Un viaggio interminabile (otto brani per quasi un’ora di musica) tra i più desolati deserti  descritti da un trio non sempre impeccabile e fantasioso, ma che cerca perennemente il suo suono, incastrando la chitarra di Jimi Hendrix nel caldo torrido dell’Arizona. Peccato manchi la voce, avrebbe potuto dare maggior senso e maggiori vibrazioni a questo serpente sporco, vorace e velenosissimo.

La Casa al Mare – This Astro (Dream Pop,  Shoegaze, 2015) 6,5/10

Viene da Roma il terzetto che compone La Casa al Mare, con sonorità che non posso che richiamare subito una certa produzione Pop anni 80: voci indietro sullo sfondo, chiamate a far le veci di un vero e proprio strumento aggiunto, chitarre quasi prepotenti, seppure senza giri virtuosistici, effetti trasognani e riff ariosi e cantabili. This Astro apre con “I Dont’ Want To” che per i primissimi venti secondi sembra richiamare quasi gli Smashing Pumpkins e poi cede il passo allo Shoegaze in “Sunflower” e “M, particolarmente interessante per le aperture armoniche e il trattamento della dinamica. La mia preferita del disco risulta però essere “At All”, che suona come un brano degli Indiessimi Yuck. La costruzione dell’impianto sonoro cambia leggermente in “Tonight or Never”, in cui ogni elemento emerge con una brillantezza che sembrava mancare nelle tracce precedenti. L’EP chiude con “CD girl”, una traccia à la Raveonettes o My Bloody Valentine. Nulla di nuovo dunque, ma neppure qualcosa da cui rifuggire come la peste.

A Copy for Collapse – Waiting For (Electronic Synth Gaze, 2015) 6/10

Interessante duo barese che si muove agevolmente sulla via dei vari Telefon Tel Aviv, Mouse on Mars e The Postal Service. Qualche richiamo alla Dance Music poteva essere evitato. Sound anni 80 per chi non è fanatico degli anni 80.

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The Underground Youth – Haunted

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Tanta cassa dritta, voce cupa, monotona e suoni sommessi e ovattati. Non è un caso che The Underground Youth provenga dalle stesse terre della più grande band Post Punk mai esistita, i Joy Division. Il solco è quello ma con sfumature sintetiche e psichedeliche maggiori, un’attitudine rivolta più al Gothic che al Punk e un suono tendenzialmente Wave che se non fosse per l’indolenza delle ritmiche sarebbe perfetto per far ballare i vampiri quasi a guisa di violenta Ebm (“Drown in me”). Quelli che sembrano i punti di forza di Haunted finiscono inevitabilmente per diventarne gli stessi limiti. Laddove le chitarre osano con più insistenza, si evidenziano non solo le influenze della band di Manchester ma anche le similitudini con formazioni contemporanee ben più note e talentuose. Stessa cosa possiamo rilevare nella sezione ritmica e se da un lato ci si potrebbe aspettare un qualche conforto dalla voce, non resta che rassegnarsi anche alla sua banale piattezza e timbrica involontariamente sgradevole. Tutte queste considerazioni sembrano far protendere il giudizio verso una solenne bocciatura eppure c’è qualcosa di buono in questo settimo Lp della band formatasi solo nel 2009 (certo quello che non le manca è la prolificità). Quando le derive psichedeliche si fanno più marcate e Craig Dyer e soci prendono le strade più Experimental Noise Rock (la parte iniziale di “Self Inflicted” ad esempio o “The Girl Behind” che può ricordare certi Have a Nice Life o ancora “Slave”) mostrano tutto il loro potenziale talento e il rimpianto è di non aver assistito alla definitiva crescita stilistica di una formazione che probabilmente avrebbe potuto dare molto di più al genere pur avendo fornito prova di evoluzione considerevole rispetto agli esordi.

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Sorry, Heels – The Accuracy of Silence

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Ci sono voluti dei finlandesi per dare una svolta alla carriera degli italianissimi Sorry, Heels. Sarà a causa di un genere piuttosto internazionale come il Gothic Rock, spesso non compreso appieno nella nostra terra. Se la fiducia al giorno d’oggi sia un azzardo o meno lo scopriremo ascoltando The Accuracy of Silence, loro primo album ufficiale dopo due EP autoprodotti, passati in sordina. Le atmosfere decadenti di “Light’s End” e “Carving a Smile”, gemelle di Joy Division e Bauhaus, non sono ben sorrette dalla voce piatta di Simona. Scoprirò più avanti che non sono episodi isolati: c’è un piattume di fondo in quasi tutto il disco. Pochi momenti rompono il confine dell’approssimazione. Sono racchiusi nel bel ritornello di “Last Day on Earth” e nella linea melodica di “Fragments”, un brano che sta alla New Wave come i Germs stanno alla Musica Classica. Anche la cover di “N.I.B.” dei Black Sabbath interpretata in chiave Gothic resta un esperimento evanescente che grida vendetta. In The Accuracy of Silence è un sound crudo e spietato a spadroneggiare, soffocando la vena artistica dei quattro ragazzi laziali, lasciando il senso di un lavoro svolto a metà. Mi aspettavo un Van Gogh e mi sono trovato tra le mani un dipinto di Teomondo Scrofalo. Delusione.

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Recensioni | settembre 2015

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1aListening Sexy Music

Everything Everything – Get to Heaven (Art Pop, 2015) 7/10

Non troppe novità nell’ultimo lavoro targato E.E. ne limitano il giudizio positivo. Messo da parte questo aspetto, Get to Heaven è certamente la consacrazione di una delle più meritevoli band Indie Pop dell’ultimo decennio e probabilmente il disco più completo.

Titus Andronicus – The Most Lamentable Tragedy (Punk Rock Opera, 2015) 7/10

Un’imponente Rock Opera in salsa Punk dal sapore antico ma con la vitalità della giovinezza. Il punto di arrivo o probabilmente di rottura col passato o soltanto una parentesi che ha il sapore più appagante del resto del romanzo mai veramente troppo appagante della band del New Jersey.

Sleaford Mods – Key Markets (Post Punk, 2015) 7/10

Per la band di Nottingham è giunto il momento del disco della consacrazione, pur se inevitabilmente ad un pubblico di nicchia. Il loro Post Punk è esaltante e carico di tensione emotiva oltre che interessante sotto l’aspetto estetico grazie alla miscela accattivante di suoni e ritmiche care al Post Punk con lo Spoken Word e il Rap.

Kanseil – DoinEarde (Folk Metal, 2015 ) Voto 7/10

Undici tracce tirate e potenti, aperte da una voce narrante ammaliante che catapulta tra leggende, canti e versi di altre epoche. La chiave è un Folk Metal fresco e genuino (a volte troppo) in cui la band si muove agevolmente, restituendo un sound netto e pulito. A parte qualche piccolo errore naturale per un debutto risultano buona la produzione, buono il sound e buone le idee: buona la prima.

Haiku Salut – Etch & Etch Deep (Glitch Ambient, Art Pop 2015) 6,5/10

Un mix minimale di Glitch Pop, Ambient qualche sonorità Folk ad arricchire tutto e ritmiche da Drum’n Bass. Un mix minimale ma che riesce a rapire già dai primi ascolti proprio per la sua apparente semplicità che nasconde una personalità fuori dal comune.

Howling – Sacred Ground (Ambient, Techno 2015) 6,5/10

Il cantautore australiano Ry Cuming e Frank Wiedemann confezionano un album d’esordio che unisce la Techno di quest’ultimo alle atmosfere più eteree dell’Ambient. Un album che coinvolge gli animi ben predisposti ad un certo tipo di sound minimale ma che rischia di annoiare il resto del pubblico.

Years & Years – Communion (Dance, Electropop 2015) 5,5/10

Da Londra siamo abituati a ricevere sorprese eccezionali per quanto riguarda la musica Synth Pop ma questa volta non ci ritroviamo nient’altro che l’album d’esordio di un trio abbastanza furbo da miscelare le cose più invitanti di House, Pop e Dance tutto in chiave R&B, tanto per tenersi sul pezzo. Un disco pregno di canzoni gradevoli ma questo è tutto.

Midas Fall – The Menagerie Inside (Post Progressive, 2015) 5,5/10

Per la band di Edimburgo capitanata da Elizabeth Heathon un minuscolo passo avanti rispetto alle due opere precedenti ma la conferma di un progetto che ha veramente poco da dire. Una miscela snervante di generi che ruota intorno alla voce femminile, mediocre e dalla timbrica tutt’altro che fuori dal comune.

Tess – Soul Whisperer   (Songwriter, 2015) 5/10

La statunitense trapiantata a Roma propone un disco di cantautorato classico e minimale con arrangiamenti banali, una voce senza lode e senza infamia e brani che nel complesso annoiano al primo colpo. Si salva dal disastro per qualche bella melodia ma questo è tutto.

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Recensioni | agosto 2015

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Ben Miller Band – AWSOF (Country, 2014) 8/10

Un secondo album spettacolare per il trio Ben Miller, Doug Dicharry, Scott Leeper che unisce in dodici tracce dal sapore Country tutta la propria esperienza e classe, miscelando Bluegrass, Americana e Southern Rock in un sound estremamente tradizionale ma che riesce a non emanare mai lo sgradevole odore di anacronismo.

Gab de la Vega – Never Look Back (Cantautorato, Punk, 2015) 7,5/10

Il cantautore Punk Folk bresciano Gab de la Vega torna e stupisce tutti con dieci nuovi pezzi e un’interpretazione di “Never Talking to YouAgain”, un grande classico degli Hüsker Dü. Un po’ ricorda quanto fatto recentemente da Tv Smith, ma c’è anche tanto di Bob Dylan e Neil Young. Da non lasciarselo sfuggire!

Stearica – Fertile (Post Rock, Math Rock, 2015) 7,5/10

Essere scaraventati al muro dalla potenza del suono non è cosa che succede troppo spesso. Gli Stearica ci riescono, in versione digitale quanto in versione live, a botta di drumming energici, bassi e chitarre distorti.

Lydia Lunch/Retrovirus – Urge to Kill (No Wave, Post Punk, 2015) 7/10

Lydia Lunch scrive il capitolo del progetto Retrovirus, riunendo sul palco Weasel Walter alla chitarra, Tim Dahl al basso e Bob Bert (Sonic Youth) alla batteria. Nove tracce per ripercorrere la carriera della “big sexy noise queen” e una ciliegina sulla torta: la cover di “Frankie Teardrop” dei Suicide.

OoopopoiooO – OoopopoiooO (Sperimentale, Ambient, 2015) 7/10

Due maestri del theremin creano un nome impronunciabile, sintomo di un universo distorto, onirico, pazzoide. Quella pazzia sana, che fa andare oltre le spesse barriere del Pop e mischia strumenti, giocattoli, elettronica, parole e voci che sembrano arrivare dalle zone più nascoste del nostro cervello. Tredici brani che sembrano difficili al primo ascolto ma che alla fine ci sembreranno vicini alle orecchie come ronzii di insetti.

All About Kane – Seasons (Pop Rock, 2015) 7/10

Gli All About Kane alla loro seconda prova discografica intitolata Seasons, confermano l’ottimo esordio con Citizens e aggiungono alla loro dna british un pizzico di sperimentazione che si spinge verso il Pop e l’Alternative. Seasons è un interessante insieme di melodie leggere e mood movimentati; canzoni come “Old Photograph” e “Hurricane” si fanno amare fin da subito per piacevolezza e orecchiabilità. Nonostante spesso la voce del cantante ci ricordi molto Brian Molko dei Placebo, gli All About Kane riescono a mantenere viva la propria identità per tutto l’album, offrendo all’ascoltatore qualcosa di interessante e ben realizzato. Anche se uscito da qualche mese lo consigliamo per tutti i viaggiatori estivi che hanno voglia di una sferzata di aria fresca.

My Own Prison – Sleepers (Hard Core, 2015) 7/10

Cagliaritani, i My Own Prison, dimostrano con questo loro lavoro di conoscere decisamente bene l’hard core e di possedere tutta la tecnica per poterlo personalizzare. Tutto il disco è fondato sull’infuenza grind e su un cantato growl che muove su ritmi serratissimi di basso e batteria (al limite dell’agilità), che non si concedono tregua neppure in “Sleepers Eve”, caratterizzata da un timbro chitarristico dal sapore Indie-Pop, o nella più intima “Temper Tantrum”. Dieci tracce per un full lenght davvero pieno di energia, decisamente per gli appassionati del genere.

Solkiry – Sad Boys Club (Post Rock, 2015) 6,5/10

A due anni di distanza dall’album d’esordio, torna il quartetto australiano con il suo dinamico Rock strumentale di chiarissima ispirazione mogwaiana. Un disco potente e variegato, che riesce a cullare tutto lo spettro di emozioni che si accavallano nei sogni ad occhi aperti e che ha l’unico difetto di mostrarsi troppo incapace di osare davvero, risultando troppo banale e ripetitivo nella scelta pura dei suoni.

A Minute to Insanity – Velvet (Grunge, Stoner, 2014) 6,5/10

Il Grunge non è morto. Gli A Minute to Insanity da Cosenza lo dimostrano con orgoglio in questo ep. La chitarra e la voce “consumata” di Francesco Clarizio, insieme al basso di Antonio Trotta e alla batteria di Francesco Lavorato, ti riportano lì, in quegli anni Novanta che non sono ancora messi in archivio del tutto.

Attribution – Whynot (Rock’n’Roll, 2015) 6,5/10

Potente e autorevole questo Whynot dei bergamaschi Attribution, album che mescola un’attitudine classicamente Rock and Roll ad una commistione di generi che invece di risultare indigesta esalta le qualità di ogni singolo componente (prezioso l’uso dei fiati). Da ascoltare soprattutto il divertente Funk di “Scofunk” e la bella rivisitazione di “Cold Turkey” di John Lennon.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Ep (Stoner, Noise, Hard Rock, 2013) 6,5/10

Un vero e proprio calderone: fondete Stoner, Noise e Hard Rock e otterrete la giusta ricetta sonora; un sound che appartiene più all’America che all’Italia e forse in questo la lingua non aiuta molto (sarebbe stato più giusto cantare in inglese!). Nonostante ciò un lavoro maturo negli arrangiamenti e perfetto nella registrazione

Snow in Damascus – Dylar (Elettronica, Shoegaze) 6/10

Atmosfere cupe e sonorità che spaziano tra Elettronica e Shoegaze, per un disco d’esordio che nel complesso suona come un buon lavoro di tecnica, ma che non colpisce per la sua originalità.

Moira Diesel Orchestra – Moira Diesel Orchestra (Alternative, Post Grunge, 2014) 6/10

Orfani degli anni Novanta, i MDO ricercano costantemente sonorità a metà tra il Seattle sound e dei seminali Litfiba. Tra qualche errore di gioventù e troppi eccessi di imitazione emergono alcuni momenti interessanti come “Nostema di Posizionamento Globale” o “Ardore” che per qualche minuto cancellano i molti reminder. Rimandati.

The Moon Train Stop – EP (Rock, Alt Pop) 6/10

Echi sixties per il trio piemontese all’esordio. Un Pop alternativo luccicante, divertito, ritmato, senza eccessiva originalità ma competente. Quattro brani suonati bene, cantati così così. L’inglese non rende benissimo. Non lasciano (ancora) il segno.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Di Blatta in Blatta (Stoner, Noise, Hard Rock, 2015) 5,5/10

Quando si incide un disco che ha il grave compito di succedere a quello d’esordio si pretende qualcosa di più; purtroppo in questo lavoro si mette in evidenza solo la bravura. Mancano i contenuti e le idee nuove. Un piccolo passo indietro quindi è stato fatto nonostante il gruppo si sia aperto ad un lato più “oscuro”.

Night Gaunt – Night Gaunt (Doom Metal, 2015) 5,5/10

I romani Night Gaunt fanno loro l’essenza dei Candlemass unendola alle cupe atmosfere dei Katatonia e alle accelerazioni di puro stampo Celtic Frost. Si resta sempre nell’ambito del Doom Metal, fedeli a un registro prestampato. Senza infamia né lode.

Marco Spiezia – Life in Flip-Flops (Cantautorato, Swing 2015) 5/10

Semplicità ed immediatezza sono le caratteristiche principali di questo disco che non fa ascoltare nulla di nuovo ma che diverte. Canzoni (quasi) sempre veloci ma dai ritmi abbastanza simili. Forse il cantautore sorrentino Marco Spiezia dovrebbe (e potrebbe) osare di più.

The Junction – Hardcore Summer Hits (Indie, Pop Punk) 5/10

Per i tre padovani, il secondo album è una nuova prova con pretese ridotte al minimo sindacale. Pezzi tirati quando basta per provare a non annoiare, qualche buona melodia, un inglese che si tradisce spesso e tantissime banalità, in una miscela di cliché Indie Rock e qualche incursione nei territori del Punk Rock (Pop meglio) da bermuda, occhiali da sole e infradito.

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We Are Waves – Promises

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Arrivato sul mercato da quasi due mesi per l’etichetta valdostana MeatBeat Records, Promises (secondo album della band dopo Labile del 2014, uscito per Memorial Records) è un disco che fa sperare parecchio pur mettendo subito in chiaro un legame col passato consistente sia sotto l’aspetto estetico e formale, sia sostanziale e che tocca tanto la parte lirica quanto quella strumentale. Un’affinità con gli anni Ottanta che si nota presto non solo dall’ascolto delle prime note dell’album ma anche con la lettura dei titoli stessi dei brani (l’orwelliana “1982” su tutte) e nella bellissima immagine di copertina che ritrae dei ragazzini con gli sguardi tesi a narrare la storia di due fratelli di cui il maggiore, cresciuto inevitabilmente troppo in fretta, si trova a dover proteggere il più piccolo dalle sue paure. Diventare adulto non è una scelta e forse non lo è neanche il mantenere un legame con le proprie radici. Questa sembra la chiave di lettura principale di Promises, album in grado di evocare gli Ottanta ormai lontanissimi nel tempo, celebrandoli nella loro avvenenza e non nelle trashate da amarcord televisivo ma nello stesso istante capace di andare oltre, avvolgersi alle contaminazioni del presente, provando a smascherare un futuro prossimo che conservi comunque intatta l’anima rock decadente dei protagonisti.

Undici tracce che smascherano e infondono tutte le emozioni incontrate in qualsiasi processo di crescita, siano esse il tormento per l’inconsapevolezza del domani, la depressione di chi sa che andare avanti significa inevitabilmente abbandonare qualcosa di sé e del mondo che ha amato, ma anche la risolutezza di chi è convinto di poter raggiungere i propri obiettivi e con essi una felicità dalla forma sconosciuta. Pur giungendo da un mondo non certo famigerato per la sua ilarità, Promises non è dunque un lavoro prettamente disilluso e non lo è tanto nei testi, quanto nelle melodie, nonostante tutto, dai suoni scelti, alla timbrica di Fabio Viassone, lascino supporre il contrario.

Le promesse di questo bellissimo disco, di questa più che promettente formazione torinese, prendono spunto dagli Ottanta di The Cure, Joy Division, Sister of Mercy, Tears for Fears tendenzialmente seguendo lo stesso solco di un’altra band molto interessante, i Christine Plays Viola, ma rilevando di queste radici, non tanto gli aspetti Dark quanto quelli Post Punk e Synth Wave e quindi finendo per mettersi sulla ruota dei capiscuola del revival, se non tanto The National e Interpol, troppo Indie Rock al confronto, piuttosto Editors, White Lies ma anche The Prids e Les Savy Fav, finendo, in più di una circostanza, per buttarci giù dalla sedia, costretti a muovere il culo sotto ritmiche da disco eighties.

Se per molti i Soviet Soviet non hanno rivali in Italia nel genere, siamo pronti a scommettere che non passerà molto tempo prima che i pesaresi dovranno avere a che fare con questi We Are Waves.

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Joan’s Diary – Tsuchigumo

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Nichilismo e cupezza nella quarta prova degli spezzini Joan’s Diary. Diciotto brani come diciotto metamorfosi della creatura della mitologia giapponese che dà il titolo al disco, un ragno mutaforma che rappresenta bene la tentacolarità e le sfaccettature dei quarantotto minuti di Tsuchigumo. Musicalmente parlando siamo in territori minimali, dove batterie tagliate con l’accetta, lineari, senza fronzoli, supportano bassi distorti di una semplicità asciutta, arida, e voci effettate, distanti, che si danno in urla e litanie, spersonalizzate, inumane. Ogni tanto s’aggiunge qualche altro strumento (fiati, tastiere, theremin) ma l’impianto rimane vacuo, spazioso, scuro e notturno. È un disco strano, questo Tsuchigumo: la resa appare approssimativa, talmente minimale e a bassa fedeltà che ci si potrebbe porre legittimamente la questione di quanto convenga abbassare la resa di un prodotto musicale per raggiungere l’effetto shock (nel peggiore dei casi) o comunque una sorta di poetica del “brutto” (nel migliore). Qui mi sembra chiaro che il tentativo sia quello di catapultare l’ascoltatore in un magma d’oscurità e ansie, un lungo, cangiante incubo, in cui i mostri della notte e della mente si confondono e le paure si manifestano, si incarnano, in slanci grezzi di sonorità ruvide, grossolane. La suggestione è interessante, la messa in opera rischia, qua e là, l’imbarazzo involontario (totalmente fuori luogo l’ironica “Mezzo Morto”). Mi hanno incuriosito al meglio i momenti strumentali (“Dios Escapò”, per esempio, o “Sicus et Lupus”), per il resto non mi è rimasto granché.

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Japan Suicide – We Die In Such A Place

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Scuro, cupo e ossessivo il secondo disco dei Japan Suicide, quintetto di Terni che fonde aggressività elettrica e foschia di riverberi in dieci brani di Darkwave abbastanza prevedibile ma cesellata alla perfezione nei suoi mille angoli di voci distanti e batterie gonfie, bassi cordosi e soundscape inquietanti. We Die in Such a Place (titolo dai rimandi letterari: da Javier Marias e Shakespeare) è una cavalcata buia e disillusa, “rifiutando ogni consolazione e ogni inganno, prendendo parte all’infelicità umana con lo spirito della resistenza, della cura”. Questa emotività si percepisce qua e là nella prova vocale di Stefano Bellerba che riesce a disincagliarsi dalla piattezza così angosciosa a cui spesso si appoggiano i cantati del genere. Un disco che funziona di più quando prende la strada del Noise e della distorsione gonfia (alcuni tratti di “Naked Skin”, ad esempio), un po’ meno quando suona come altri cento(mila) dischi simili. A conti fatti, una bella prova di aderenza al genere, ma che difetta in originalità.

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Aa. Vv. – The Reverb Conspiracy Vol. 3

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Nuova coproduzione per la label europea Fuzz Club Records e l’americana The Reverberation Appreciation Society, fondatrice dell’Austin Psych Fest, e nuova bomba sonica che raccoglie alcuni dei nomi più interessanti della scena psichedelica del vecchio continente. Si parte con lo Space Rock di “No Place to Go” dei londinesi The Oscillation per poi volare in Spagna con “Moon” degli Holy Science. Psichedelia mantrica dal sapore Post Punk stile Soft Moon che è anche il modo più efficace, apprezzabile e diretto per introdurci a questa compilation la quale ci regalerà non poche sorprese. Si cambia completamente sound con “You Now” dei norvegesi Deathcrush; voce femminile cazzutissima e pura potenza Psych Noise per uno dei momenti più rabbiosi e violenti dell’intera raccolta, in totale contrapposizione allo Shoegaze di chiara ispirazione My Bloody Valentine della successiva “Suddenlines”, brano eccelso opera dei berlinesi The History of Colour Tv.

Con “You Drive Me Insane”, torna una nostra vecchia conoscenza, l’islandese Henrik Baldvin Bjornsson, leader anche dei mitici Dead Skeletons e qui con la storica formazione Singapore Sling, del cui ultimo lavoro vi abbiamo ampiamente parlato e tessuto le lodi. “Meltdown Corp.” Dei nostri connazionali Newcandys segna il passaggio più Stoner di questo The Reverb Conspiracy Vol. 3 e si lega perfettamente al suono sabbioso di “Death Is on the Way” dei Sound Sweet Sound e alla successiva “Green Like an Alien” degli Undisco Kidd che figura il punto centrale della tracklist. Sezione ritmica martellante, voce marcissima e riff di chitarra taglienti come rasoi sporchi di ruggine.

La seconda parte si apre con “Ausland” che aggiunge altra carne al fuoco a un’opera la quale ha già messo sul piatto una miscela di Blues, Folk, Rock’n Roll e Krautrock da farvi uscire di testa. Si sente tanto dei Neu! nel brano dei Camera e la sensazione è che si sia davanti ad una sorta di vero e proprio omaggio al capolavoro “Hallogallo”. Prima dei nuovi nomi pesanti che scopriremo in chiusura, è la volta della Darkwave “Side Effects” dei Future la quale, sempre con attitudine Psych, incorpora quel quid sintetico che sembrava essere l’unica effettiva mancanza dell’album. Fatto il giro d’Europa, si vola ancora nel Regno Unito, precisamente a Liverpool, dai grandi Mugstar che, con “Hollow Ox”, faranno traballare le pareti della vostra stanza con un cocktail lisergico di Space Rock e Stoner interamente strumentale.

Distorsioni violente, voce cupa, sommersa, affogata in un Noise aggressivo in “Tungsten” dei sempre britannici One Unique Signal. Siamo in dirittura d’arrivo e manca qualche nominativo spesso. Nessun problema perché prima è la volta di Goat con la sua “Hide from the Sun”, mixata da Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre, che regala un sapore Apocalyptic Folk a quest’ultima parte e poi ai londinesi Lola Colt con “Away from the Water”, pezzo che fornisce anche il titolo all’album dello scorso anno prodotto da Jim Sclavunos di Nick Cave and the Bad Seeds, il quale ha trovato un discreto favore del pubblico anche in terra italiana. Post Punk psichedelico, vaghi accenni Hard Rock nella sezione ritmica, voce che ricorda i poetici lamenti d’una certa Patty Smith e chitarre evocative, distese ma inquietanti fino alla conclusione devastante con un minaccioso muro di suono, solo a tratti graffiato da una tastiera che ricorda il Blues dei Doors. Ottima la scelta di chiudere la tracklist con “As We’ve Been as One” di François Sky che qui vede il featuring di Jeff Levitz dei Brian Jonestown Massacre.

Il trip su e giù per l’Europa è concluso e le prime sensazioni sono quelle che ti fanno ben sperare e credere che di talento ce ne sia ancora tanto da scoprire. Qualche nome nuovo e vecchie leggende dello Psych Rock si sono alternati in un’opera che a essere sinceri ha poco senso, se si vuole analizzare oltre l’apprezzabilità dei singoli brani, specie per il fatto che siano già editi e quindi poco stimolanti per i più attenti seguaci della scena ma che, presa per quello che è, senza troppi entusiasmi, vi regalerà ore di puro godimento chimico.

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Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere – Tutto

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Fate un esperimento. Andate sulla loro pagina Fecebook e leggete come si descrivono. Poi andate a cercare e sentire la loro musica sul bandcamp dove hanno messo a disposizione gratuitamente il loro disco, Tutto. Troverete che si descrivono come un Power Trio che fa nuovo Punk italiano. Si collocano tra i Nirvana e Rino Gaetano, ma è ovvio andare a pensare ai Verdena quando il lettore inizia a macinare note. Fabrizio (chitarra e voce), Enrico (batteria) e Cristiano (basso) sono Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere,  e vengono da Piacenza. Applicano l’italiano a un Rock dal sapore internazionale. Quattro versi (i testi sono a disposizione sul bandcamp) ripetuti in un loop straniante, ma non ossessivo. Non perché “così che ci vuole a scrivere canzoni?”, ma perché in quattro frasi si può racchiudere l’essenza del racconto, l’immagine o la sensazione che si vuole trasmettere. Punk in questo, (inevitabile, per certi versi, andare a pensare ai Tre Allegri Ragazzi Morti) essenziali fino al midollo, ma non banali. Fabrizio canta con voce graffiata su un giro che è pronto ad esplodere. Come se si dovesse trattenere, perché è la musica a dare l’intensità adeguata al messaggio. Da sentire e risentire, senza lasciarsi fregare dal primo ascolto. Se non vi colpiscono subito, non vi fidate della prima impressione, del resto ceci n’est pas une musique commerciale. Parola di Sacerdotesse.

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L’Officina della Camomilla – Senontipiacefalostesso Due

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La band-giocattolo brainchild di Francesco De Leo torna ad un anno di distanza dall’esordio con il seguito, Senontipiacefalostesso Due, titolo esplicitamente strafottente e che già dà l’idea di quell’arroganza bambinesca e sognante che sorregge tutto l’immaginario de L’Officina della Camomilla. Più che il seguito del primo disco, comunque, Senontipiacefalostesso Due è considerabile come una sua seconda parte, e ne prosegue il discorso in modo omogeneo (è cosa nota che il repertorio de L’Officina sia pressoché infinito, e che lo sia stato già da prima dell’uscita su Garrincha). Abbiamo anche qui due direttrici che fanno da scheletro ai quindici brani del disco: un cantautorato giocattolo, naif, fatto di chitarre acustiche, arpeggi, pianoforti che gocciolano, archi malinconici, tastiere e synth; e un Post-punk indie dalle chitarrine acide e la batteria pestata, distorsioni spuntate da forbici arrotondate. Personalmente riesco a farmi convincere più dal primo dei due mood (“Piccola Sole Triste”, “E Londra e Londra”, “Gentilissimo Oh”, “Bucascuola”) che dal secondo, che mi sembra un po’ più paraculo, come se fosse un vezzo più superficiale (anche se, ogni tanto… per esempio, “Rivoltella”). In ogni caso, l’asso nella manica del quintetto è la voce di De Leo, e quando scrivo “voce” non intendo solo il timbro vocale e lo stile canoro, ma tutto il punto di vista, ingenuo e tagliente, meravigliato e cinico, spensierato e lunare, malinconico e ironico assieme. È su questo fulcro che gira tutta la band, e se non sapete farvi trascinare dai flussi di in-coscienza di questo “bambino stronzo” allora per voi ascoltare L’Officina della Camomilla sarà piuttosto una tortura che uno strano, vergognoso piacere. Che possa convincere o meno, De Leo si è creato un mondo, fatto di nazipunk e kebabbari, campi a grancassa, gente col labbro spaccato e meringhe e lexotan, biciclette e squatter, licei che sembrano fabbriche, muri che sbavano… uno stile inconfondibile, che per forza di cose divide in estimatori e bestemmiatori. Io, mio malgrado, mi trovo nel primo gruppo, ma sarò capace di lasciarmi andare senza sensi di colpa solo quando riusciranno a perdere la strafottenza indie sopra le righe, ché sembra sempre che debbano strafare per convincerci a schiaffi (“Biciclettapirata”, “Ho Visto un Nazipunk sul Tram”), quando potrebbero tranquillamente sussurrare storie nella penombra e farci innamorare perdutamente (“quella giovane donna appartiene a nessuno, e a nessun altro”). Spero, ardentemente, nel loro invecchiare.

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Gelfish – Hungry

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Sarà che sono le tre di notte. Sarà che non sto per andare a dormire. Sarà che mi sono appena svegliata dopo tre ore di sonno. Sarà che sono le tre di notte, sono affamata (hungry) e sono anche folle, ma non quella sana follia che tanto acclamava il buon vecchio Steve Jobs. Sono follemente incazzata. Ed è per questo motivo che sono attratta da questo titolo: Hungry, e decido di scegliere i Gelfish come colonna sonora di quest’alba anticipata, di questo risveglio forzato. Hungry (letteralmente affamato  e Angry, la sua pronuncia, letteralmente arrabbiato, per l’appunto) – Ep d’esordio della band di Pescara – arriva infatti a stuzzicare, amplificare ed infine esorcizzare le sensazioni di incazzatura cosmica del momento. Sulla copertina del disco, disegni essenziali su uno sfondo total black, un bambino riccioluto rimane a guardare la rabbia che viene fuori da un televisore vecchio stile. Ci rimane davvero allora così poco? Ci resta solo restare a guardare questa rabbia uscire dagli schermi delle nostre esistenze ed invadere le nostre case, le nostre vite, i nostri pensieri?

Premo play ed il suono rauco di un basso, subito raggiunto dalla batteria, introduce  “Inside the Everything”, pezzo potente che fa tanto affidamento su voce ed effetti vocali nel tentativo di far valere il concetto di rabbia che è filo conduttore dell’intero disco. Ed proprio l’utilizzo che si fa della voce uno degli aspetti più ricorrenti in tutto l’Ep. Infatti “No Power No Resposability” segue la stessa scia della precedente “Inside the Everything”, anche se chitarre e distorsioni hanno un ruolo maggiore.  “Night of the Living Dead” alterna parti più cariche di ritmo a parti più lente, un’antitesi che rievoca il concetto di vita e morte del titolo. “Arkham Asylum” chiude il disco, e lo fa in una maniera perfettamente in linea con i pezzi precedenti, senza apportare particolari variazioni o colpi di scena.

Hungry è il disco d’esordio dei Gelfish, un esordio che a mio parere non stupisce particolarmente, ma che ha comunque i presupposti per diventare qualcosa di più accattivante, basta forse solo arrabbiarsi per il motivo giusto e nel modo giusto.

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