Post-Punk Tag Archive

We Are Waves – Promises

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Arrivato sul mercato da quasi due mesi per l’etichetta valdostana MeatBeat Records, Promises (secondo album della band dopo Labile del 2014, uscito per Memorial Records) è un disco che fa sperare parecchio pur mettendo subito in chiaro un legame col passato consistente sia sotto l’aspetto estetico e formale, sia sostanziale e che tocca tanto la parte lirica quanto quella strumentale. Un’affinità con gli anni Ottanta che si nota presto non solo dall’ascolto delle prime note dell’album ma anche con la lettura dei titoli stessi dei brani (l’orwelliana “1982” su tutte) e nella bellissima immagine di copertina che ritrae dei ragazzini con gli sguardi tesi a narrare la storia di due fratelli di cui il maggiore, cresciuto inevitabilmente troppo in fretta, si trova a dover proteggere il più piccolo dalle sue paure. Diventare adulto non è una scelta e forse non lo è neanche il mantenere un legame con le proprie radici. Questa sembra la chiave di lettura principale di Promises, album in grado di evocare gli Ottanta ormai lontanissimi nel tempo, celebrandoli nella loro avvenenza e non nelle trashate da amarcord televisivo ma nello stesso istante capace di andare oltre, avvolgersi alle contaminazioni del presente, provando a smascherare un futuro prossimo che conservi comunque intatta l’anima rock decadente dei protagonisti.

Undici tracce che smascherano e infondono tutte le emozioni incontrate in qualsiasi processo di crescita, siano esse il tormento per l’inconsapevolezza del domani, la depressione di chi sa che andare avanti significa inevitabilmente abbandonare qualcosa di sé e del mondo che ha amato, ma anche la risolutezza di chi è convinto di poter raggiungere i propri obiettivi e con essi una felicità dalla forma sconosciuta. Pur giungendo da un mondo non certo famigerato per la sua ilarità, Promises non è dunque un lavoro prettamente disilluso e non lo è tanto nei testi, quanto nelle melodie, nonostante tutto, dai suoni scelti, alla timbrica di Fabio Viassone, lascino supporre il contrario.

Le promesse di questo bellissimo disco, di questa più che promettente formazione torinese, prendono spunto dagli Ottanta di The Cure, Joy Division, Sister of Mercy, Tears for Fears tendenzialmente seguendo lo stesso solco di un’altra band molto interessante, i Christine Plays Viola, ma rilevando di queste radici, non tanto gli aspetti Dark quanto quelli Post Punk e Synth Wave e quindi finendo per mettersi sulla ruota dei capiscuola del revival, se non tanto The National e Interpol, troppo Indie Rock al confronto, piuttosto Editors, White Lies ma anche The Prids e Les Savy Fav, finendo, in più di una circostanza, per buttarci giù dalla sedia, costretti a muovere il culo sotto ritmiche da disco eighties.

Se per molti i Soviet Soviet non hanno rivali in Italia nel genere, siamo pronti a scommettere che non passerà molto tempo prima che i pesaresi dovranno avere a che fare con questi We Are Waves.

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Joan’s Diary – Tsuchigumo

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Nichilismo e cupezza nella quarta prova degli spezzini Joan’s Diary. Diciotto brani come diciotto metamorfosi della creatura della mitologia giapponese che dà il titolo al disco, un ragno mutaforma che rappresenta bene la tentacolarità e le sfaccettature dei quarantotto minuti di Tsuchigumo. Musicalmente parlando siamo in territori minimali, dove batterie tagliate con l’accetta, lineari, senza fronzoli, supportano bassi distorti di una semplicità asciutta, arida, e voci effettate, distanti, che si danno in urla e litanie, spersonalizzate, inumane. Ogni tanto s’aggiunge qualche altro strumento (fiati, tastiere, theremin) ma l’impianto rimane vacuo, spazioso, scuro e notturno. È un disco strano, questo Tsuchigumo: la resa appare approssimativa, talmente minimale e a bassa fedeltà che ci si potrebbe porre legittimamente la questione di quanto convenga abbassare la resa di un prodotto musicale per raggiungere l’effetto shock (nel peggiore dei casi) o comunque una sorta di poetica del “brutto” (nel migliore). Qui mi sembra chiaro che il tentativo sia quello di catapultare l’ascoltatore in un magma d’oscurità e ansie, un lungo, cangiante incubo, in cui i mostri della notte e della mente si confondono e le paure si manifestano, si incarnano, in slanci grezzi di sonorità ruvide, grossolane. La suggestione è interessante, la messa in opera rischia, qua e là, l’imbarazzo involontario (totalmente fuori luogo l’ironica “Mezzo Morto”). Mi hanno incuriosito al meglio i momenti strumentali (“Dios Escapò”, per esempio, o “Sicus et Lupus”), per il resto non mi è rimasto granché.

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Japan Suicide – We Die In Such A Place

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Scuro, cupo e ossessivo il secondo disco dei Japan Suicide, quintetto di Terni che fonde aggressività elettrica e foschia di riverberi in dieci brani di Darkwave abbastanza prevedibile ma cesellata alla perfezione nei suoi mille angoli di voci distanti e batterie gonfie, bassi cordosi e soundscape inquietanti. We Die in Such a Place (titolo dai rimandi letterari: da Javier Marias e Shakespeare) è una cavalcata buia e disillusa, “rifiutando ogni consolazione e ogni inganno, prendendo parte all’infelicità umana con lo spirito della resistenza, della cura”. Questa emotività si percepisce qua e là nella prova vocale di Stefano Bellerba che riesce a disincagliarsi dalla piattezza così angosciosa a cui spesso si appoggiano i cantati del genere. Un disco che funziona di più quando prende la strada del Noise e della distorsione gonfia (alcuni tratti di “Naked Skin”, ad esempio), un po’ meno quando suona come altri cento(mila) dischi simili. A conti fatti, una bella prova di aderenza al genere, ma che difetta in originalità.

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Aa. Vv. – The Reverb Conspiracy Vol. 3

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Nuova coproduzione per la label europea Fuzz Club Records e l’americana The Reverberation Appreciation Society, fondatrice dell’Austin Psych Fest, e nuova bomba sonica che raccoglie alcuni dei nomi più interessanti della scena psichedelica del vecchio continente. Si parte con lo Space Rock di “No Place to Go” dei londinesi The Oscillation per poi volare in Spagna con “Moon” degli Holy Science. Psichedelia mantrica dal sapore Post Punk stile Soft Moon che è anche il modo più efficace, apprezzabile e diretto per introdurci a questa compilation la quale ci regalerà non poche sorprese. Si cambia completamente sound con “You Now” dei norvegesi Deathcrush; voce femminile cazzutissima e pura potenza Psych Noise per uno dei momenti più rabbiosi e violenti dell’intera raccolta, in totale contrapposizione allo Shoegaze di chiara ispirazione My Bloody Valentine della successiva “Suddenlines”, brano eccelso opera dei berlinesi The History of Colour Tv.

Con “You Drive Me Insane”, torna una nostra vecchia conoscenza, l’islandese Henrik Baldvin Bjornsson, leader anche dei mitici Dead Skeletons e qui con la storica formazione Singapore Sling, del cui ultimo lavoro vi abbiamo ampiamente parlato e tessuto le lodi. “Meltdown Corp.” Dei nostri connazionali Newcandys segna il passaggio più Stoner di questo The Reverb Conspiracy Vol. 3 e si lega perfettamente al suono sabbioso di “Death Is on the Way” dei Sound Sweet Sound e alla successiva “Green Like an Alien” degli Undisco Kidd che figura il punto centrale della tracklist. Sezione ritmica martellante, voce marcissima e riff di chitarra taglienti come rasoi sporchi di ruggine.

La seconda parte si apre con “Ausland” che aggiunge altra carne al fuoco a un’opera la quale ha già messo sul piatto una miscela di Blues, Folk, Rock’n Roll e Krautrock da farvi uscire di testa. Si sente tanto dei Neu! nel brano dei Camera e la sensazione è che si sia davanti ad una sorta di vero e proprio omaggio al capolavoro “Hallogallo”. Prima dei nuovi nomi pesanti che scopriremo in chiusura, è la volta della Darkwave “Side Effects” dei Future la quale, sempre con attitudine Psych, incorpora quel quid sintetico che sembrava essere l’unica effettiva mancanza dell’album. Fatto il giro d’Europa, si vola ancora nel Regno Unito, precisamente a Liverpool, dai grandi Mugstar che, con “Hollow Ox”, faranno traballare le pareti della vostra stanza con un cocktail lisergico di Space Rock e Stoner interamente strumentale.

Distorsioni violente, voce cupa, sommersa, affogata in un Noise aggressivo in “Tungsten” dei sempre britannici One Unique Signal. Siamo in dirittura d’arrivo e manca qualche nominativo spesso. Nessun problema perché prima è la volta di Goat con la sua “Hide from the Sun”, mixata da Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre, che regala un sapore Apocalyptic Folk a quest’ultima parte e poi ai londinesi Lola Colt con “Away from the Water”, pezzo che fornisce anche il titolo all’album dello scorso anno prodotto da Jim Sclavunos di Nick Cave and the Bad Seeds, il quale ha trovato un discreto favore del pubblico anche in terra italiana. Post Punk psichedelico, vaghi accenni Hard Rock nella sezione ritmica, voce che ricorda i poetici lamenti d’una certa Patty Smith e chitarre evocative, distese ma inquietanti fino alla conclusione devastante con un minaccioso muro di suono, solo a tratti graffiato da una tastiera che ricorda il Blues dei Doors. Ottima la scelta di chiudere la tracklist con “As We’ve Been as One” di François Sky che qui vede il featuring di Jeff Levitz dei Brian Jonestown Massacre.

Il trip su e giù per l’Europa è concluso e le prime sensazioni sono quelle che ti fanno ben sperare e credere che di talento ce ne sia ancora tanto da scoprire. Qualche nome nuovo e vecchie leggende dello Psych Rock si sono alternati in un’opera che a essere sinceri ha poco senso, se si vuole analizzare oltre l’apprezzabilità dei singoli brani, specie per il fatto che siano già editi e quindi poco stimolanti per i più attenti seguaci della scena ma che, presa per quello che è, senza troppi entusiasmi, vi regalerà ore di puro godimento chimico.

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Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere – Tutto

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Fate un esperimento. Andate sulla loro pagina Fecebook e leggete come si descrivono. Poi andate a cercare e sentire la loro musica sul bandcamp dove hanno messo a disposizione gratuitamente il loro disco, Tutto. Troverete che si descrivono come un Power Trio che fa nuovo Punk italiano. Si collocano tra i Nirvana e Rino Gaetano, ma è ovvio andare a pensare ai Verdena quando il lettore inizia a macinare note. Fabrizio (chitarra e voce), Enrico (batteria) e Cristiano (basso) sono Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere,  e vengono da Piacenza. Applicano l’italiano a un Rock dal sapore internazionale. Quattro versi (i testi sono a disposizione sul bandcamp) ripetuti in un loop straniante, ma non ossessivo. Non perché “così che ci vuole a scrivere canzoni?”, ma perché in quattro frasi si può racchiudere l’essenza del racconto, l’immagine o la sensazione che si vuole trasmettere. Punk in questo, (inevitabile, per certi versi, andare a pensare ai Tre Allegri Ragazzi Morti) essenziali fino al midollo, ma non banali. Fabrizio canta con voce graffiata su un giro che è pronto ad esplodere. Come se si dovesse trattenere, perché è la musica a dare l’intensità adeguata al messaggio. Da sentire e risentire, senza lasciarsi fregare dal primo ascolto. Se non vi colpiscono subito, non vi fidate della prima impressione, del resto ceci n’est pas une musique commerciale. Parola di Sacerdotesse.

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L’Officina della Camomilla – Senontipiacefalostesso Due

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La band-giocattolo brainchild di Francesco De Leo torna ad un anno di distanza dall’esordio con il seguito, Senontipiacefalostesso Due, titolo esplicitamente strafottente e che già dà l’idea di quell’arroganza bambinesca e sognante che sorregge tutto l’immaginario de L’Officina della Camomilla. Più che il seguito del primo disco, comunque, Senontipiacefalostesso Due è considerabile come una sua seconda parte, e ne prosegue il discorso in modo omogeneo (è cosa nota che il repertorio de L’Officina sia pressoché infinito, e che lo sia stato già da prima dell’uscita su Garrincha). Abbiamo anche qui due direttrici che fanno da scheletro ai quindici brani del disco: un cantautorato giocattolo, naif, fatto di chitarre acustiche, arpeggi, pianoforti che gocciolano, archi malinconici, tastiere e synth; e un Post-punk indie dalle chitarrine acide e la batteria pestata, distorsioni spuntate da forbici arrotondate. Personalmente riesco a farmi convincere più dal primo dei due mood (“Piccola Sole Triste”, “E Londra e Londra”, “Gentilissimo Oh”, “Bucascuola”) che dal secondo, che mi sembra un po’ più paraculo, come se fosse un vezzo più superficiale (anche se, ogni tanto… per esempio, “Rivoltella”). In ogni caso, l’asso nella manica del quintetto è la voce di De Leo, e quando scrivo “voce” non intendo solo il timbro vocale e lo stile canoro, ma tutto il punto di vista, ingenuo e tagliente, meravigliato e cinico, spensierato e lunare, malinconico e ironico assieme. È su questo fulcro che gira tutta la band, e se non sapete farvi trascinare dai flussi di in-coscienza di questo “bambino stronzo” allora per voi ascoltare L’Officina della Camomilla sarà piuttosto una tortura che uno strano, vergognoso piacere. Che possa convincere o meno, De Leo si è creato un mondo, fatto di nazipunk e kebabbari, campi a grancassa, gente col labbro spaccato e meringhe e lexotan, biciclette e squatter, licei che sembrano fabbriche, muri che sbavano… uno stile inconfondibile, che per forza di cose divide in estimatori e bestemmiatori. Io, mio malgrado, mi trovo nel primo gruppo, ma sarò capace di lasciarmi andare senza sensi di colpa solo quando riusciranno a perdere la strafottenza indie sopra le righe, ché sembra sempre che debbano strafare per convincerci a schiaffi (“Biciclettapirata”, “Ho Visto un Nazipunk sul Tram”), quando potrebbero tranquillamente sussurrare storie nella penombra e farci innamorare perdutamente (“quella giovane donna appartiene a nessuno, e a nessun altro”). Spero, ardentemente, nel loro invecchiare.

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Gelfish – Hungry

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Sarà che sono le tre di notte. Sarà che non sto per andare a dormire. Sarà che mi sono appena svegliata dopo tre ore di sonno. Sarà che sono le tre di notte, sono affamata (hungry) e sono anche folle, ma non quella sana follia che tanto acclamava il buon vecchio Steve Jobs. Sono follemente incazzata. Ed è per questo motivo che sono attratta da questo titolo: Hungry, e decido di scegliere i Gelfish come colonna sonora di quest’alba anticipata, di questo risveglio forzato. Hungry (letteralmente affamato  e Angry, la sua pronuncia, letteralmente arrabbiato, per l’appunto) – Ep d’esordio della band di Pescara – arriva infatti a stuzzicare, amplificare ed infine esorcizzare le sensazioni di incazzatura cosmica del momento. Sulla copertina del disco, disegni essenziali su uno sfondo total black, un bambino riccioluto rimane a guardare la rabbia che viene fuori da un televisore vecchio stile. Ci rimane davvero allora così poco? Ci resta solo restare a guardare questa rabbia uscire dagli schermi delle nostre esistenze ed invadere le nostre case, le nostre vite, i nostri pensieri?

Premo play ed il suono rauco di un basso, subito raggiunto dalla batteria, introduce  “Inside the Everything”, pezzo potente che fa tanto affidamento su voce ed effetti vocali nel tentativo di far valere il concetto di rabbia che è filo conduttore dell’intero disco. Ed proprio l’utilizzo che si fa della voce uno degli aspetti più ricorrenti in tutto l’Ep. Infatti “No Power No Resposability” segue la stessa scia della precedente “Inside the Everything”, anche se chitarre e distorsioni hanno un ruolo maggiore.  “Night of the Living Dead” alterna parti più cariche di ritmo a parti più lente, un’antitesi che rievoca il concetto di vita e morte del titolo. “Arkham Asylum” chiude il disco, e lo fa in una maniera perfettamente in linea con i pezzi precedenti, senza apportare particolari variazioni o colpi di scena.

Hungry è il disco d’esordio dei Gelfish, un esordio che a mio parere non stupisce particolarmente, ma che ha comunque i presupposti per diventare qualcosa di più accattivante, basta forse solo arrabbiarsi per il motivo giusto e nel modo giusto.

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“Horus” è il nuovo singolo dei God Damn

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“Horus” è il nuovo singolo del duo Metal/Grunge/Post-Punk God Damn (UK) e verrà pubblicato in Italia da One Little Indian / Audioglobe il 27 Ottobre. Il brano è stato registrato al Metropolis Studios di Londra e prodotto da Xavier Stephenson. Buon ascolto, devastatevi le orecchie!!

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Ismael – Tre

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Un’interessante prova questo Tre degli Ismael, band reggiana con la peculiarità di avere come frontman Sandro Campani, che fa lo scrittore (lo scrittore “vero”, che dovrebbe voler dire “pubblicato” – l’ultimo libro è uscito per Rizzoli). Una peculiarità che non è solo di contorno, non è solo materiale promozionale: ma ci torniamo dopo. Tre è, musicalmente, un disco secco, per la maggior parte, elettrico e nervoso, essenziale, scarno, spigoloso, che sa però bagnarsi , qua e là (“Tema di Irene”), in lente evoluzioni Slow Core, Post Rock, fatte di chitarre ipnotiche e organi umidi. Sono interessanti anche le digressioni “Americana” (“Canzone del Bisonte”, con una chitarra acustica dal ritmo country e dal giro armonico molto seventies, o il finale di “Canzone di Quello”, epico-campagnolo). I riferimenti sono molto anni 90, e se dovessi giocare alle libere associazioni direi che mi ricordano molto Il Teatro degli Orrori in versione meno heavy (date un ascolto al finale di “Palinka”): vocazione letteraria (in senso lato) simile, voce asciutta e un cantato lineare, declamatorio, e più grunge, meno virtuosismo.

La parte veramente interessante del disco è comunque, e fuor di dubbio, quella relativa alle liriche e alle ambientazioni dei brani, che “sanno soprattutto di terra, di legno e di cielo”. I testi sono eccezionali, in senso letterale: eccezioni rispetto alla regola del Rock nostrano che spesso, liricamente, è banale e goffo. Qui invece le parole di Sandro Campani disegnano acquerelli complessi e affascinanti, in cui s’intravede la sua abilità di narratore (desunta, ovviamente: non mi è – ancora – capitato di leggere nulla della sua produzione letteraria). Dalle canzoni più brevi – penso alla title track – che colpiscono come colpi di fucile, lasciando schizzi di sangue da interpretare come auspici, nascosti tra le pause e i tempi dilatati (Di pomeriggio, dopo le tre / Esci da casa sua, e piove. / C’è quell’odore di polvere. / C’era una frase, non sai dov’è. // Gli hai detto: «Grazie.» – «Non c’è di che.» / La pioggia batte la cenere. / C’era una gioia che ora non c’è / quel pomeriggio, dopo le tre. // La pioggia lava le lettere / non è leggero da leggere), fino a brani liricamente più densi, visionari, che passano da forme animali e gesti quotidiani ad aperture liberatorie, di una poesia minimale (“Canzone del Cigno”: E dopo, dopo lei si è alzata con le mani impolverate, piene di polvere nera, sollevando le braccia vuote verso il cielo vuoto, mentre usciva a camminare attraverso strade distrutte; “S’Arrampicavano”: uno sciupìo, una fotta di fiorire, che sembra urlare di quelle accoglienze da segnare in calendario, le manie di far per forza effetto, e io pensando a questo, io, lo so, ci provo a esser contento, fosse in me ci riuscirei.).

Tre è insomma un disco che vi consiglio, non fosse altro per le storie che sa raccontare, fatte di sentimenti, angosce, crudeltà, limpidezze. La musica le accompagna, ancella e amante, con oculatezza e parsimonia. Un disco con cui farsi male, piacevolmente. In cuffia, una sera di pioggia, da soli.

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Winter Severity Index – Slanting Ray

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Quel che una volta era un quartetto tutto al femminile, ora, nel 2014, troviamo a trainare la carretta la sola Simona Ferrucci, anima e corpo del progetto Winter Severity Index. Slanting Ray è la conseguenza dell’estro dell’artista, stavolta accompagnata da Alessandra Romeo (già con Bohemien, No Fun e Cat Fud) al synth e alle tastiere. Presenza meno fissa è quella di Giovanni Stax che suona il basso in ambito live. Il duo romano ci propone un cupo Dark Wave i cui background sono ovviamente The Cure, Siouxie and the Banshees e Joy Division, il tutto in una salsa più minimale, ma non per questo meno avvolgente ed intrigante. Le canzoni di Slanting Ray ci faranno precipitare in un baratro oscuro, in una galleria priva di via d’uscita, dove disperazione e paranoia troveranno terreno fertile per dar vita ai nostri incubi più reconditi. Non importa che le atmosfere siano sognanti (“At Least The Snow”), opprimenti (“A Sudden Cold”) o persino più ritmate, sfruttando la regalità di un sassofono, fatto usuale anche per i The Cure (“Ordinary Love”),non si perde mai la cognizione dell’amore/odio viscerale da cui sono venite fuori queste dieci perle nere sanguinolente.

La voce di Simona è perfetta per il genere: la timbrica presenta parecchi picchi crepuscolari, rarissime aperture celestiali, come in “Lighting Ratio” ad esempio, e taglia via ogni linea melodica nella penultima “Compulsion”, optando per uno sbalorditivo cantato/parlato. La ricercatezza e la morbosità del sound delle Winter Severity Index è un qualcosa a cui molti di noi non sono ancora preparati, il disco si fa ascoltare a momenti con eccessiva fatica ed una volta concluso difficilmente si ha ancora la voglia di ricominciarlo daccapo. E’ principalmente rivolto agli amanti della corrente nata negli anni 80. Chi non è incluso nella cerchia degli adepti della Dark Wave si senta libero di passare oltre.

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Fedora Saura – La Via della Salute

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Vengono dalla Svizzera i Fedora Saura, “cavallina storna da corsa e quintetto di musica contemporanea”. Picchiano e spiazzano, gridano e ballano, e il tutto è così dannatamente fuori di testa da risultare quasi affascinante. Ritmi sghembi, suoni grezzi, violenti e giocosi, e la voce: una voce che è vera protagonista, quella voce così gaberiana che foss’anche solo per il timbro ci piazzerebbe nel cervello il termine teatro-canzone, ma che in realtà si avvicina più a certe declamazioni salmodianti à la CCCP, come bene fanno notare nella loro cartella stampa. Le nove tracce de La Via della Salute s’affastellano dense e ariose allo stesso tempo: coagulate nel risultare grevi all’ascolto, pesanti come macigni nel loro incedere in vortici dal minutaggio oltraggioso, ma aperte nell’afflato ironico, nel suono ruvido e spezzato, nella parsimonia di strumenti e arrangiamenti che le rende pungenti come aghi e affilate come denti di cane.

Sta tutta qui, credo, la dicotomia del disco, che ce lo fa amare/odiare (“amare” forse è più che altro iperbole, “odiare” s’avvicina di più alla realtà, al fastidio urticante che questo disco emana). Ma non è certo un disco da buttare, anzi: questo fastidio, questa grana grossa che ci disturba è, forse, lo schiaffo che i Fedora Saura vogliono infliggerci. “Un’opera anti-cristiana e anti-capitalistica”, ci dicono, mentre la loro cavalcata sghemba ci disturba e, insieme, sottilmente, ci aggancia e ci incanta, e al terzo, quarto, quinto coraggiosissimo ascolto riesce persino a intrigarci, a farsi attendere, come un desiderio sotterraneo che mai ammetteremmo di provare. Stanno fuori dal tempo e dal mondo, i Fedora Saura, e fuori dal tempo e dal mondo suonano una musica ai limiti, non certo adatta a tutti i palati, ma che a quelli più avvezzi a masticare spigolosità  può anche ricordare gusti sublimi e dimenticati, di un’integrità d’altri tempi.

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Versailles – Vrslls

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Non so se si possa definire realmente un incontro/scontro, come amano descriversi i Versailles nella loro biografia, quello fra Damiano Simoncini (Maria Antonietta, Young Wrists, Damien*) e Manu Magnini (Container 47, Key-Lectric, Scanners), perché il duo pare essere sempre in perfetta sintonia. Più veloci ed incazzati dei francesi Chevreuil e degli Stooges di Iggy Pop, in sole sette canzoni i Versailles riescono a condensare tutto il senso del Rock ‘n ‘Roll! Quando con solo voce, chitarra e batteria si riesce ad arrivare a questi livelli creativi si potrebbe persino gridare al miracolo, tant’è che basta sentire l’iniziale “Summer Pain” affinché il pogo possa iniziare (se messa in play in un qualsiasi Club Rock). “(T)rap to the E. Y. A. H.” è invece una preghiera onirica e visionaria in cui la chitarra sposa alla perfezione i ritmi della batteria ed i versi cantati/recitati ossessivi della voce. Di diversa impostazione sono invece “Honey, We’re Ready to Funck!” (in cui i due ragazzi sembrano aver studiato alla perfezione i dischi degli Mc5 e degli X) e “Everybodytalks For Free” che forse si ispira un po’ troppo alla mitica “I Wanna be Your Dog” degli Stooges, che sicuramente avrete avuto modo di ascoltare anche in film quali Trainspotting, Lock & Stock – Pazzi Scatenati, Transporter 3, Il Corvo 2 ed in tanti altri che ora non mi soggiungono. “Find the Enemy” sembra invece un potenziale brano dei Marlene Kuntz in salsa Punk (concedetemi questo ossimoro), mentre “BLahBlahBlah” riporta alla memoria i Dead Kennedys di Jello Biafra. Il duo pesarese ci dà dentro fino alla conclusione del “Vrslls Ep” che purtroppo arriva con “Bring the Noise” (che non c’entra nulla con l’omonimo brano dei Public Enemy) forse a volere dimostrare che il futuro della musica italiana può e deve guardare a quanto fatto anche quarant’anni fa in America. E non è detto che ad ispirarsi al passato o a gruppi come i Sonic Youth si perda sempre il confronto. Ascoltare per credere!

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