Post-Punk Tag Archive

Hyaena Reading – Europa

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Sporchi, disturbanti, taglienti e diretti. Gli Hyaena Reading, gruppo italo-francese che s’ispira al Blues primevo (“Uccidine Uno”, “Atto d’Amore”) e al Post-Punk più martellante (“Vendetta”), ci portano, dopo la prova precedente dell’Ep Des-illusions, in questo loro ultimo disco Europa, gonfio di rumori, di ansia, di attese. A tratti rarefatte al limite del Post-Rock (“In Netta Ripresa”), le tracce si snodano tra riffettoni e chitarre bagnate (“Sacrifices”), synth cupi e Noise evanescente, ritmiche fredde e ossessionanti (“Di Pietra”) e vuoti da decompressione (“Steam, Vapore, Vapeur”), accompagnate da testi in italiano e francese che spesso vengono sussurrati all’orecchio dell’ascoltatore, brevi e immaginifici, o che si sforzano rauchi in grida distanti e affilate.

Sorta di CCCP che incontrano il Blues, o di NiCE sotto Valium in salsa francofona, gli Hyaena Reading creano una loro precisa atmosfera, e questo equilibrio tra elementi apparentemente distanti come il Blues, il Post-Rock, il deserto e le batterie elettroniche (“Preghiera Per il Mio Deserto”) rende Europa un curioso oggetto musicale non identificato. Da provare.

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Wire – Change Becomes Us

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Gli anni passano inesorabili per tutti, anche nella musica non si transige, tutto ingiallisce meno i capolavori di patina doc, artisti e idiomi musicali che sopravvivono all’usura e che – tra cadute e calici alzati – sono riusciti sempre a raccogliersi e rialzarsi, tanto è che ancora oggi sono cattedre incontestabili della sconfinata cosmogonica Rock.

Non a caso i Wire, la formazione inglese che dopo la liquefazione del punk, meglio di altre ha saputo traghettare tutta quella dolorante trasgressione nelle lattiginose coordinate della New-Wave appunto Post-Punk , seguita a sfornare crediti ragguardevoli e non, ma che comunque hanno segnato la scena di allora e questa di oggi, e Change Becomes Us, tredici tracce recuperate nel tempo della loro carriera e mai registrate prima d’ora, riporta la band di Colin Newman a certi splendori ovattati, li fa oscillare tra movenze deep e ondivaganti trilli nerofumo.

Via le grattate e le retoriche di larsen che smerigliavano il passato, ora vive una specie di “aggiornamento”, un calarsi nei tempi moderni con maturità e riflessione senza tuttavia fare a meno (ma in maniera meno eclatante) di scariche e lampi distorti, ma usati con dovizia e senza più quell’urgenza straripante, un riqualificare le potenzialità di gruppo dove l’intensità di scrittura e gli affondi dolciastri del mood trovano un equilibrio – all’ascolto –  perfettamente in bolla; tolta la ridicolaggine pop di “Re-Invent Your Second Wheel”, la tracklist è una genialità anomala che se da una parte  becca effluvi spacey di stampo smaccatamente Floydiani, dall’altra si trasforma in mantra ipnotico “Time Lock Fog”, trascina nelle armonie sottocutanee di “Keep Exhaling”, e anela il ritorno al primo amore punk “Stealth Of A Stork” per poi immergersi completamente tra nebbie e foschie wave fino a sparirci dentro “B/W Silence”.

Ovvio che siamo sulle strade della buona musica ma niente di cui urlare  al miracolo, semplicemente una scheggia di classe musicale che mantiene una eccezionale seconda vita, i Wire – con un incedere deciso e inarrendevole – ancora ipnotizzano fino alla malinconia, quella in positivo chiaro.

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Bicchiere Mezzo Pieno – Il Contrario di LOL

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Inizio col dirvi che il voto che ho appioppato a questi stramboidi del Bicchiere Mezzo Pieno per il loro esordio Il contrario di LOL è un voto gonfiato. Nel senso: prendendo le sei canzoni di questo variopinto Ep autoprodotto una per una e valutandole singolarmente, probabilmente non arriverei a tanto; e, similmente, senza aver letto la loro presentazione al disco (disponibile sul loro Soundcloud), difficilmente sarei stato così bendisposto.

Intendiamoci, non sarei sceso di molto: Il contrario di LOL è divertente, scritto e suonato bene, colorato e simpatico, pieno zeppo di cose diverse. C’è il Rock, generico e ampiamente declinato in tutte le salse; c’è il Folk, da chitarra acustica e da lunghe code parlate, quasi teatrali; c’è un’infarinatura Punk nell’anarchia totale delle variazioni sul tema. Il Bicchiere Mezzo Pieno è un frullato di spunti, di idee, di visioni allucinate (o forse anche troppo lucide).

I punti in più il Bicchiere Mezzo Pieno se li piglia per tutto l’impianto architettonico che sottende a Il Contrario di LOL: l’idea dell’arrangiamento misurato al contenuto del pezzo, o le citazioni, infilate per analogia o contrappasso, così come i sotterranei riferimenti “meta” al senso dell’Arte, e quindi della Musica e della Canzone (“Non Chiedermi ti Prego”, “Cabaret”) – un tocco sensibile che, forse, dev’essere ancora sviluppato al massimo, per centrare il punto con più efficienza, più sicurezza, più chiarezza (verso l’ascoltatore – non diciamo, per l’amor di Dio, “medio”… però ecco, se magari non fosse assolutamente necessario leggere un papiro di spiegazioni varie per capire tutto questo, non sarebbe male… no?).

Ecco quindi confessati i miei peccati: un voto leggermente gonfiato, causa intelligenza suggerita, ammiccante, semi-nascosta. Attendiamo nuovi sviluppi per poter elargire voti più sinceri, ma con gli stessi applausi.

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Luminal – Amatoriale Italia

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Eccovi i Luminal, la band col sito più bello di sempre (provatelo). Tre folli da Roma, che dopo due dischi rivoluzionano la line-up e si trasformano, “i testi da visionari ed ermetici diventano crudi ed immediati, mentre i suoni si induriscono di conseguenza”.
Il risultato è Amatoriale Italia, crudo, immediato e duro, per l’appunto. Una miscela di batterie grezze, distorsioni ciccione, voci schizofreniche (cantano, parlano, urlano, sussurrano, si scambiano, tra maschile e femminile – la voce di lei è da brividi). C’è da dire che il lato prettamente musicale non è ciò che fa ricordare i Luminal: una sorta di Post-Punk anarchico e capriccioso, semplice, potente, che accompagna benissimo i loro sfoghi, ma che, da sé, spesso, non basta a reggere i loro pezzi (anche se a volte è più riuscito di quanto appaia, vedi le ritmiche di “Il Lavoro Rende Schiavi”).

Cos’è che tiene in piedi, dunque, i quindici brani di Amatoriale Italia? È lo sguardo, il loro sguardo impietoso, ironico, folle, dispettoso, il loro ridere e sputare su ciò che ci circonda, sia esso un certo tipo di donna, come – per l’appunto – in “Donne (du du du)”, o le piaghe culturali del nostro tempo – i frequentatori assidui dei social network (ossia tutti noi) in “Blues Maiuscolo del Maniaco su Facebook”. Ma ce n’è anche per gli hipster (“Carlo vs il Giovane Hipster”), una certa scena indipendente (“C’è Vita Oltre Rockit”), la gioventù musicale italica (“Giovane Musicista Italiano, Vecchio Italiano”)…
La loro voce è espressiva e fastidiosa, pungente e sarcastica, sporca, esagerata e a tratti sopra le righe: “vorrei vederti ora / il cazzo sulla gola / il sangue sulle lenzuola / ora / succhia / 
sta’ zitta e succhia / […] / si muore di più per un posto fisso / che per una testa fracassata”. Spesso si tocca il nonsense, come in “Lele Mora”, grottesca ripetizione del nome del “manager, criminale e talent scout italiano” (cit. da Wikipedia). Ma si sfiora anche qualcosa di simile alla serietà, ad esempio in “Il Lavoro Rende Schiavi”, o nell’allucinata e misteriosa “L’Aquila Reale”.

I Luminal sono spiazzanti e impietosi, non hanno peli sulla lingua, vogliono esprimere tutto: l’odio, la paura, il desiderio, la violenza. Compiono un’operazione che è sempre più raro vedere architettata con successo: ti muovono. Nel bene e nel male, i Luminal ti tolgono l’equilibrio, ti fanno sconfinare. Cerchi di capirli, ti fai delle domande, ti accorgi d’essere infastidito, con sorpresa; o magari ti sorprendi ad essere d’accordo con loro, a vedere in te qualcosa che non sospettavi.
Sembra quasi che il trio romano non metta nulla tra sé e il mondo, tra sé e le proprie canzoni. Chissà quanto poi c’è di vero in questa sensazione di trasparenza assoluta, di mimetismo tra la maschera “pubblica” e la faccia “privata”. Ma poi, importa davvero? Amatoriale Italia picchietta con dita elettriche sui punti più sensibili della nostra (sporca) coscienza (o, più probabilmente, picchietta con martelli pneumatici industriali). E farsi scuotere, per una volta, è un dolce, divertente dolore.

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Pere Ubu – Lady From Shanghai

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La storia decennale dei Pere Ubu continua, David Thomas e i suoi se ne escono con Lady From Shanghai, album, l’ennesimo, che canalizza in se la visione Dance che hanno della musica o almeno così dichiarano. I Pere Ubu sono una delle più importanti e significative band della scena New Wave, hanno sempre cercato e lavorato per oltrepassare i dogmi della musica Rocksin dagli albori, nel 1978 con The Modern Dance. La personalità di Thomas, front man del gruppo, tormentata e quasi schizofrenica, fa da identità alla band e ne delinea timbrica e sonorità concettualizzandole in ritmiche turbate da se stessa, come se fosse rimasto incastrato in uno stato confusionale tra sogno e realtà.

Lady From Shanghai è un album che cerca di uscire dai soliti paradigmi della musica Dance ma il risultato, come comprensibile, è la strana visione che ha Thomas di essa. Undici tracce contorte che hanno lasciato la mia razionalità confusa e stordita al primo ascolto. Si passa, dall’infernale prima traccia “Thanks” al mondo meraviglioso di “Free White”, andando per filastrocche martellanti “Feuksley Ma’am, The Hearing” fino ai sobborghi di “Mandy”. Infelice David Thomas in “And Then Nothing Happened” fino ad arrivare a dire “Musicians Are Scum” i musicisti sono feccia. Storie disastrate “Another One (Oh Maybellene)”, incomprensioni in “The Road Trip of Bipasha Ahmed”. Il risveglio dal sogno con l’imperdibile “414 Seconds” e la chiusura onirica con “The Carpenter Sun”.

Un album sicuramente Avant-Garage che ci mostra dei Pere Ubu cresciuti ma non diventati grandi, un album in linea con i precedenti che non aggiunge nulla di più alla band ma la lascia alla sua naturale stranezza.

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Lush Rimbaud / zZz – The V’ll Series # 1 BOPS

Written by Novità

Per chi pensa che ormai i dischi non si stampano più, il primo split facente parte della collana V’ll Series è l’eccezione che si spera non confermi la regola. Si, perché purché in edizione limitata (300 copie), la Scratch Records ha deciso di pubblicare il disco sul caro e vecchio vinile con tanto di copertina serigrafata. Quattro brani e due band completamente diverse: il post punk-kraut degli italiani Lush Rimbaud e l’elettrowave degli olandesi zZz. Iniziando dal lato A e quindi dai nostrani Lush Rimbaud, le tracce “A Finger Composition e “The Freak Dream” sono un trip all’indietro verso un tempo dove le lancette non debbano per forza scorrere veloci e non ci sia bisogno di sapere il vero nome dei luoghi. A farla da padrone sono le intense sensazioni cupe e profonde che ormai oggi non trovano più uno spazio, in quanto sovrastate da una realtà apatica che condanna la gente ad una folle frenesia isterica. Il lato B, risuona invece atmosfere completamente diverse, ed il duo zZz ci propone la spensierata “Alone, dal testo romantico ed un arrangiamento di organi, synth e fisarmoniche troppo simpatico. Un po’ Elvis, un po’ vacanza sulla spiaggia. Con “Pretty si sprigiona invece tutto l’animo elettronico dei due olandesi, e la classica combo cassa dritta e sintetizzatori prepotenti ritorna a farsi sentire, in un brano che prende ispirazione dalle notti brave di piccoli mostri intenti a ballare per tutta la notte.
In conclusione, V’ll Series # 1 è uno split spaccato in due, tra psichedelia e modernità, ma con una cosa in comune: una voce proveniente dal passato.

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Nick Cave & The Bad Seeds – Push the Sky Away EP

Written by Recensioni

Capita una volta l’anno dover recensire un album così, un gigante così. Uscirà il 19 Febbraio “Push the Sky Away” il nuovo EP di una delle personalità più contorte del panorama rock mondiale.
The Big One nel suo genere, oscuro e malinconico, per me un mostro. Dall’Australia il grande ritorno di Nick Cave & The Bad Seeds. Solo uno come lui poteva dare un nome così ad un album. Come se volesse chiudere un ciclo che ha avuto inizio nel suo primo album “From Here to Eternity”.  In ombra. Tutto quello che dirò sarà scontato. Quindi lasciate perdere e ascoltate l’album. Questa è una questione personale, non una recensione. Una lunga storia, struggente. All’epilogo di una carriera fatta di personaggi in ombra, sulla vita, sull’amore, sulla “tradizione”. Perchè We go down with the dew in the morningcome ci racconta in We No Who U R la traccia che apre questo EP.
Ma facciamo una pausa. Quest’album viene fuori dopo 5 anni di silenzio dopo l’esperienza di “Dig!!! Lazarus, Dig!!!” in cui si stacca un altro pezzo dei Bed Seeds, Mick Harvey ex chitarra elettrica, chitarra acustica, basso, organo. Uscito dalla band nel 2008 e preceduto già da Blixa Bargeld (ex chitarra, voce. Uscito dalla band nel 2003). Quindi toccherà prendere quest’album col giusto orecchio, preparato a ad ascoltare un Cave che va verso le origini con i Bad Seeds rimasti.
La formazione ufficialmente sarebbe di 12 componenti. Ma sottolineerei Warren Ellis viola, chitarre, in primis. I due  hanno collaborato, tra il 2005 e il 2009, a varie colonne sonore. Una sintesi a noi utile per capire quest’album potrebbe essere Nick Cave & Warren Ellis. Quindi un tentativo di ritorno alle origini musicali dove si sente la mancanza di alcuni componenti del gruppo e la centralità dei pezzi è lasciata alla sua voce, alle sue storie, alla sua malinconia e alla bravura di Ellis.  Una catarsi al rovescio dove si contano i cocci esistenziali.

Notizia dell’ultim’ora invece è quella che vede Barry Adamson primo bassista dei Bad Seeds (uscito dalla band nel 1986) unirsi alla band per il tour 2013 (in Italia l’11 luglio al Summer Lucca Festival).
Ascoltando i testi, accompagnati come ho detto dalla viola/violoncello di Ellis, Cave come suo solito ci porta in posti oscuri. Apre il suo armadio degli scheletri e inizia a vomitare su tutto quello in cui non è riuscito a credere nella sua vita. La traccia che da il titolo all’album è emblematica “Push th Sky Away” che canta sul ritornello. La disillusione dell’amore. Visto come rapporto destinato a finire. Oppure in “Higgs Boson Blues” dove ci narra i suoi dubbi sul razionalismo e come, conosciamo tutti il bosone di Higgs, esso si voglia sostituire a Dio. Un Dio che sta scomodo a Cave in “Jubilee Street” dove ci racconta tutta la brava gente che predica bene e razzola male. Il solito Cave malinconico, viscerale, tetro. Ma pure sempre Cave. Un gigante che in quest’album non ci presenta niente di nuovo ma ci porge il conto. E tocca ascoltarlo……………..

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Jesus Was Homeless – The Message

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Leggo: “nati in California, distribuiti in Giappone”, manca l’aggiunta che in Italia spaccano di brutto, ma a dirlo sono anche i numerosi commenti che si leggono ovunque circa la mole di suono e di scrittura che i romani Jesus Was Homeless documentano ogni qualvolta che escono con la forza di un power d’assalto, e “The Message” è l’ennesima prova di un talento oscuro che motiva e svezza l’ascolto alle poche cose che vale la pena di circoscrivere nel sostantivo underground.
Elettronica e rock uniti nel destino, estetica sonora che trasporta ogni secondo della sua corsa – tra stereo e fondi d’anima – la coerenza di essere sé stessa, in quella fluidità e personalità dalle colorazioni a volte striate di wave, a volte marcatamente libertarie, un vocabolario tecnico e di passione che porta i JWH tra le migliori pulsazioni underground che la nostra scena possa innalzare a vessillo di purezza e scrittura; un disco che suona e si riferisce “alle grandi platee” d’oltre frontiera, libero dai legacci del “deve convincere” per già grassettare pagine memorabili di suono  ed impatto come pochi. Disco di hook radio, arie elettriche post-punk e la vivacità emo imbronciata degli anni zero, queste le credenziali di una band in rotta di collisione con le “sfigherie” di moltitudini e chiassose falangi indie-nerd che coprono il sistema emergente delle nuova musica, un terzetto che trascina l’ascolto in un pregevole limbo di scansioni e fotogrammi che tratteggiano il fervore canadese dei Simple Plan o le implosioni dei Ten Foot Pole.
Otto takes che hanno il potere di piacere, la cognizione di “girare bene” e la melodia scintillante di un cuore in costante mutazione color nero seppia, tracce che risintonizzano uno dei segreti meglio custoditi del rock, ovvero quello di praticare la libertà senza se, senza ma e senza paura di farsi chiamare “cloni” di qualcosa che comunque è sempre postato più in alto nella gradazione della creatività; ora vinta questa visione pragmatica, l’ascolto si libera per legarsi agli shuffle Ottantiani di “Violet line”, “The ride”, alle atmosfere striate dei Placebo che sciamano nelle volte della bella “So dirty”come nella concessione pop alla U2 di “In L.A.” e “Our eyes”, poi la,lucidità di avere tra le mani e negli orecchi un qualcosa di ottimo – senza gridare alla miracolistica – ma ottimo, fa il resto.
JWH, un gruppo su cui puntare,  una band da non lasciar sfuggire come fanno le migliori menti che scappano all’estero

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