Post-Punk Tag Archive

Lush Rimbaud / zZz – The V’ll Series # 1 BOPS

Written by Novità

Per chi pensa che ormai i dischi non si stampano più, il primo split facente parte della collana V’ll Series è l’eccezione che si spera non confermi la regola. Si, perché purché in edizione limitata (300 copie), la Scratch Records ha deciso di pubblicare il disco sul caro e vecchio vinile con tanto di copertina serigrafata. Quattro brani e due band completamente diverse: il post punk-kraut degli italiani Lush Rimbaud e l’elettrowave degli olandesi zZz. Iniziando dal lato A e quindi dai nostrani Lush Rimbaud, le tracce “A Finger Composition e “The Freak Dream” sono un trip all’indietro verso un tempo dove le lancette non debbano per forza scorrere veloci e non ci sia bisogno di sapere il vero nome dei luoghi. A farla da padrone sono le intense sensazioni cupe e profonde che ormai oggi non trovano più uno spazio, in quanto sovrastate da una realtà apatica che condanna la gente ad una folle frenesia isterica. Il lato B, risuona invece atmosfere completamente diverse, ed il duo zZz ci propone la spensierata “Alone, dal testo romantico ed un arrangiamento di organi, synth e fisarmoniche troppo simpatico. Un po’ Elvis, un po’ vacanza sulla spiaggia. Con “Pretty si sprigiona invece tutto l’animo elettronico dei due olandesi, e la classica combo cassa dritta e sintetizzatori prepotenti ritorna a farsi sentire, in un brano che prende ispirazione dalle notti brave di piccoli mostri intenti a ballare per tutta la notte.
In conclusione, V’ll Series # 1 è uno split spaccato in due, tra psichedelia e modernità, ma con una cosa in comune: una voce proveniente dal passato.

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Nick Cave & The Bad Seeds – Push the Sky Away EP

Written by Recensioni

Capita una volta l’anno dover recensire un album così, un gigante così. Uscirà il 19 Febbraio “Push the Sky Away” il nuovo EP di una delle personalità più contorte del panorama rock mondiale.
The Big One nel suo genere, oscuro e malinconico, per me un mostro. Dall’Australia il grande ritorno di Nick Cave & The Bad Seeds. Solo uno come lui poteva dare un nome così ad un album. Come se volesse chiudere un ciclo che ha avuto inizio nel suo primo album “From Here to Eternity”.  In ombra. Tutto quello che dirò sarà scontato. Quindi lasciate perdere e ascoltate l’album. Questa è una questione personale, non una recensione. Una lunga storia, struggente. All’epilogo di una carriera fatta di personaggi in ombra, sulla vita, sull’amore, sulla “tradizione”. Perchè We go down with the dew in the morningcome ci racconta in We No Who U R la traccia che apre questo EP.
Ma facciamo una pausa. Quest’album viene fuori dopo 5 anni di silenzio dopo l’esperienza di “Dig!!! Lazarus, Dig!!!” in cui si stacca un altro pezzo dei Bed Seeds, Mick Harvey ex chitarra elettrica, chitarra acustica, basso, organo. Uscito dalla band nel 2008 e preceduto già da Blixa Bargeld (ex chitarra, voce. Uscito dalla band nel 2003). Quindi toccherà prendere quest’album col giusto orecchio, preparato a ad ascoltare un Cave che va verso le origini con i Bad Seeds rimasti.
La formazione ufficialmente sarebbe di 12 componenti. Ma sottolineerei Warren Ellis viola, chitarre, in primis. I due  hanno collaborato, tra il 2005 e il 2009, a varie colonne sonore. Una sintesi a noi utile per capire quest’album potrebbe essere Nick Cave & Warren Ellis. Quindi un tentativo di ritorno alle origini musicali dove si sente la mancanza di alcuni componenti del gruppo e la centralità dei pezzi è lasciata alla sua voce, alle sue storie, alla sua malinconia e alla bravura di Ellis.  Una catarsi al rovescio dove si contano i cocci esistenziali.

Notizia dell’ultim’ora invece è quella che vede Barry Adamson primo bassista dei Bad Seeds (uscito dalla band nel 1986) unirsi alla band per il tour 2013 (in Italia l’11 luglio al Summer Lucca Festival).
Ascoltando i testi, accompagnati come ho detto dalla viola/violoncello di Ellis, Cave come suo solito ci porta in posti oscuri. Apre il suo armadio degli scheletri e inizia a vomitare su tutto quello in cui non è riuscito a credere nella sua vita. La traccia che da il titolo all’album è emblematica “Push th Sky Away” che canta sul ritornello. La disillusione dell’amore. Visto come rapporto destinato a finire. Oppure in “Higgs Boson Blues” dove ci narra i suoi dubbi sul razionalismo e come, conosciamo tutti il bosone di Higgs, esso si voglia sostituire a Dio. Un Dio che sta scomodo a Cave in “Jubilee Street” dove ci racconta tutta la brava gente che predica bene e razzola male. Il solito Cave malinconico, viscerale, tetro. Ma pure sempre Cave. Un gigante che in quest’album non ci presenta niente di nuovo ma ci porge il conto. E tocca ascoltarlo……………..

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Jesus Was Homeless – The Message

Written by Recensioni

Leggo: “nati in California, distribuiti in Giappone”, manca l’aggiunta che in Italia spaccano di brutto, ma a dirlo sono anche i numerosi commenti che si leggono ovunque circa la mole di suono e di scrittura che i romani Jesus Was Homeless documentano ogni qualvolta che escono con la forza di un power d’assalto, e “The Message” è l’ennesima prova di un talento oscuro che motiva e svezza l’ascolto alle poche cose che vale la pena di circoscrivere nel sostantivo underground.
Elettronica e rock uniti nel destino, estetica sonora che trasporta ogni secondo della sua corsa – tra stereo e fondi d’anima – la coerenza di essere sé stessa, in quella fluidità e personalità dalle colorazioni a volte striate di wave, a volte marcatamente libertarie, un vocabolario tecnico e di passione che porta i JWH tra le migliori pulsazioni underground che la nostra scena possa innalzare a vessillo di purezza e scrittura; un disco che suona e si riferisce “alle grandi platee” d’oltre frontiera, libero dai legacci del “deve convincere” per già grassettare pagine memorabili di suono  ed impatto come pochi. Disco di hook radio, arie elettriche post-punk e la vivacità emo imbronciata degli anni zero, queste le credenziali di una band in rotta di collisione con le “sfigherie” di moltitudini e chiassose falangi indie-nerd che coprono il sistema emergente delle nuova musica, un terzetto che trascina l’ascolto in un pregevole limbo di scansioni e fotogrammi che tratteggiano il fervore canadese dei Simple Plan o le implosioni dei Ten Foot Pole.
Otto takes che hanno il potere di piacere, la cognizione di “girare bene” e la melodia scintillante di un cuore in costante mutazione color nero seppia, tracce che risintonizzano uno dei segreti meglio custoditi del rock, ovvero quello di praticare la libertà senza se, senza ma e senza paura di farsi chiamare “cloni” di qualcosa che comunque è sempre postato più in alto nella gradazione della creatività; ora vinta questa visione pragmatica, l’ascolto si libera per legarsi agli shuffle Ottantiani di “Violet line”, “The ride”, alle atmosfere striate dei Placebo che sciamano nelle volte della bella “So dirty”come nella concessione pop alla U2 di “In L.A.” e “Our eyes”, poi la,lucidità di avere tra le mani e negli orecchi un qualcosa di ottimo – senza gridare alla miracolistica – ma ottimo, fa il resto.
JWH, un gruppo su cui puntare,  una band da non lasciar sfuggire come fanno le migliori menti che scappano all’estero

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