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Australasia – Vertebra

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Comporre brani interamente strumentali è un’arma a doppio taglio. Da un lato c’è una grandissima libertà a livello costruttivo, come se tutto il brano fosse fondamentalmente improvvisato, dall’altro manca una certa direzionalità del messaggio che si intende comunicare e si rischia di esser fraintesi o non ascoltati con la debita attenzione, solo perchè manca un esplicativo testo letterario. Gli Australasia, però, riescono bene nel loro intento: i brani sono costruiti con una grande libertà, cosa che in qualche modo disorienta l’ascoltatore, ma che sottolinea motivi, timbri e passaggi, che vengono immediatamente riconosciuti a ogni riproposizione.

“Aorta”, in apertura, ha sonorità Post Rock che ricordano molto le ballate dei Marlene Kuntz, mentre “Vostok” è caratterizzata da un intro molto elettronico, con un che di fantasy: non è un brano che mi ha particolarmente colpito, anche se è sicuramente cinematografico e carico di pathos, sottolineato soprattutto dall’inserimento armonico delle chitarre distorte  in un crescendo dinamico che gradatamente conduce alla fine del brano affidato a sonorità acustiche che proprio non ci si aspettava. “Zero” ha un andamento molto più marziale e una ricerca timbrica che ricorda particolarmente i Mogwai. Il disco prosegue con “Aura”, di nuovo artificiale nelle sonorità e ammorbidita dalla voce femminile che canta un paio di frasi che diventano subito più un pretesto fonico che un messaggio vero e proprio. Molto più Progressive sono le ispirazioni di “Antenne”, un tripudio Noise sperimentalissimo in cui ogni breve inciso melodico viene reiterato ossessivamente, sommandosi ad altri. Una voce registrata apre “Volume”, brano dal sapore epico e sicuramente degno del titolo che porta. La title track, “Vertebra”, è onirica. Il dialogo melodico sembra venire da lontano, sia in senso fisico sia in senso metaforico e il pezzo sembra essere un viaggio in una landa solitaria, impressione che pare essere confermata dal cinguettio degli uccellini registrato e aggiunto sul finale. Troviamo di nuovo la voce femminile in “Apnea”, che, pur con qualche pretesa Trip Hop, non mi ha convinto. Bello è invece “Deficit”, cortissimo per durata ma incendiario e frenetico per andamento e sonorità. Il disco chiude con “Cinema” che, oltre alla sua costruzione decisamente Alternative, ha anche un aggancio timbrico con l’iniziale “Aorta” e con “Vertebra”, in un ideale riassunto e chiusura del cerchio.

Sarebbe troppo facile sostenere che i brani degli Australasia andrebbero bene per la sonorizzazione di qualche film. Non li ho trovati così carichi di descrittività come si confarrebbe allo scopo. Vertebra è un disco da ascoltare e meditare. Non sempre e non per forza ci si guadagnerà in emozione ma sicuramente se ne avrà tratto del piacere.

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December Hung Himself – Ivory

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Il suono della notte, con tutte le contraddizioni che il tramonto può provocare. Questo disco è dunque una camminata in una radura stellata, ma anche un incombente pericolo. Un lungo e intenso sospiro di sollievo ma pure un incubo ben insediato nella mente. December Hung Himself è il nuovissimo progetto parallelo di due musicisti sardi ben noti nel panorama underground nazionale, ovvero Aurora Atzeni (Thank U For Smoking) e Nicola Olla (militante nei punkers Curse this Ocean e chitarrista/tastierista dei Charun, sound più affine a questo progetto). Il loro primo EP Ivory è indubbiamente un buon biglietto da visita dove il Post Rock più classico trova la sua dimensione molto buia ma non per questo solo scura e tetra. I ragazzi riescono bene a donare al loro prodotto tutte le sfaccettature necessarie per farci apprezzare la solitudine, la tranquillità e (perché no?) anche la pericolosità della notte. Il titolo del disco è quasi un ironico contrasto, a sottolinearci come il candore dell’avorio possa integrarsi bene nel cielo stellato. Titolo freddo come il panorama che ci sta intorno.

L’ultimo fascio di luce è gettato proprio in apertura. A descrivere il crepuscolo di questa breve ma intensa oscurità ci pensa l’arpeggio di chitarra che introduce “And the Crows”, dove le voci dei due ragazzi si fondono magicamente creando melodie dilatate, in bilico tra serenità e paura. La luce scompare e i nostri occhi si devono abituare al tenue bagliore delle stelle. Le atmosfere non cambiano molto in “Galleyworm”. Già ci svegliamo nell’intro, punzecchiati dal gelido arpeggio elettrico e dalla distante voce di Aurora e poi arriva un ritmica decisa rocciosa che si schianta sul nostro viso. “Drag me Down” pare invece un cieco viaggio in abissi marini. Da sottolineare le numerose aperture melodiche che, anche se espresse da voci soffuse e nascoste, ci regalano un respiro a pieni polmoni. Infine “Alive” chiude il cerchio con una chitarra che pare un carillon scarico.

L’EP non è certamente qualcosa di memorabile, ma vanta una determinante qualità. E’ suonato per davvero e si sente, non perde mai di concretezza e di credibilità. Il tocco umano sullo strumento dona una marcia in più a brani che non spiccano per originalità. Una bella dimostrazione a tutti gli amanti del sintetico. Questo è un bel maglione di lana, forse un po’ largo e démodé, di quelli che danno un po’ fastidio punzecchiandoci al collo. Ma sicuramente è un sincero riparo in questa gelida notte.

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Fiori di Cadillac – Cartoline

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Pare che per la realizzazione dell’esordio discografico i Fiori di Cadillac hanno impiegato circa due anni, almeno da quello che leggo sulla loro presentazione promozionale, l’esordio in questione si materializza sotto il nome di Cartoline uscito sotto etichetta Forears. Due anni sono veramente tanti, immaginate in due anni quante cose si possono fare, quante cose possono cambiare e soprattutto quante differenti sensazioni possono attraversare l’intimità di una persona. Ma in due anni è possibile anche concepire qualcosa di sensato dai connotati maturi. I Fiori di Cadillac per qualche motivo che fatico ancora a elaborare mi erano già passati per le orecchie, insomma, provo questa strana sensazione di averli già ascoltati prima di ricevere il disco e consumarlo nella giusta misura che meritano. Sono quei misteri ai quali non riesco mai a dare una spiegazione ma che accetto con una smisurata soddisfazione specialmente quando l’oggetto misterioso in questione è rappresentato da un lavoro come Cartoline. La band campana ci mette dentro una notevole quantità di tecnica ma il valore aggiunto è segnato indubbiamente dall’emotività sperimentale del sound. Io dentro quel sound mi sono perso infinite volte e provavo piacere nel lasciarmi ammanettare dalla loro enfasi, quadrati e armonicamente perfetti anche quando il cantato in italiano non si dovrebbe legare perfettamente al tipo di musica proposto per una questione di orecchiabilità. Lode a questo bravo cantante.

Per intenderci (e sono parole loro) trovano influenze in band come Radiohead e Mercury Rev. Cartoline si apre con “Il Ministero dell’Amore” e la ritmica innaturale (alla Radiohead) si sovrappone prepotentemente ad un cantato bello e immediato. La durezza della pasta esce subito allo scoperto. “Io Resto Qui” viaggia sulla stessa sintonia della precedente, ambienti umidi ed emozionalità alle stelle. Tutto resta sugli stessi contesti fino ad arrivare alla più intima e personale “Prima” nella quale i Fiori di Cadillac lasciano molto spazio a riff mielati e coinvolgenti. Soltanto palpitazioni in “Dissolvenza/Stacco”. Acidi e psicologicamente confusi in “Canzone in Scatola”, qualcosa mi ricorda il caos intelligente dei primissimi Bluvertigo, niente di scontato insomma. Ironia della sorte in “Fuori Nevica” (perché fuori nevica davvero) dove le atmosfere sembrano quelle affrontate quasi perennemente da Moby ma molto più rockettare e con un finale ai limiti del Post Rock. Sorrisi e pianti in “Jonny”, il disco è quasi finito e molte cose si sono ficcate sotto pelle. “Le Tue Cartoline” suona come una gradevole chiusura del disco, un brano che sembra prenderci per mano e accompagnarci all’uscita con estremo desiderio di vedersi nuovamente. I Fiori di Cadillac registrano un esordio discografico di indiscusso fascino, dentro Cartoline possiamo trovare tutto quello che cerchiamo, bisogna avere cervello e buon gusto. I Fiori di Cadillac sono una delle migliori uscite di questo duemilatredici stronzo e funesto, un esordio che ti scoppia in faccia. Non potevano iniziare meglio.

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Aa. Vv. – Streetambula

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Streetambula è la compilation, di ben 20 pezzi in due dischi, che è stata prodotta in seguito all’ottima riuscita del concorso omonimo, svoltosi l’estate scorsa a Pratola Peligna (AQ). Prepariamoci quindi ad una carrellata dei brani presenti nei due dischi della compilation: due canzoni per gruppo più alcuni extra affidati ai De Rapage, vincitori del concorso.  Aprono le danze The Old School, che, come da nome, regalano una ballabilissima “Rock’n’Roll All The Night” da vera vecchia scuola, sorprendentemente solida e frizzante. Nulla di nuovo, ma di certo un Rock’n’Roll che sta in piedi e che avrà fatto agitare una buona fetta di pubblico. Ci spostiamo in zone più raccolte con “Gloom” de A L’Aube Fluorescente, che invece, a dispetto del nome altisonante, si buttano su un Rock alternativo lineare e molto inglese, anche piacevole se vogliamo, suonato con coscienza e scritto con criterio, ma senza guizzi particolari.

Doriana Legge ci fa prendere una piccola pausa con “Palinsesti”, arpeggi in delay, pad iridescenti di synth in sottofondo, voce alternativamente sospesa e teatralmente piena (anche troppo, a volte) accompagnata da cori leggerissimi, e poi si sale a cercare l’esplosione, il climax, che però non arriva: viene solo suggerito da una chitarra distorta e dall’andamento vocale (pesa forse il non avere in organico qualcosa di percussivo – una batteria – che sostenga il crescendo). I De Rapage, vincitori della kermesse, infiammano tutto con l’energica “Il Grande Rock In Edicola”. Sembra di essere tornati a cavallo tra gli anni 80 e 90, sommersi da riff in distorto sostenuto e batterie ossessive, dove rullo e charlie fanno da padroni, a combattere una guerra assai rumorosa con le voci, sguaiate e sporche, come ben si confà all’impianto ironico-divertito dell’ensemble. La potenza live della band è fuori discussione: granitici, anche se non danno molto di più dell’energia grezza che producono.

“Crazy Duck” dei Dem è una sorta di Blues che triangola tra percussioni povere e continue, riff elettrici pieni di ritmo e groove, e una voce femminile che non sbaglia una virgola. Esibizione stralunata e a mio parere molto, molto divertente, che si perde un po’ quando rallenta sugli accordi di chitarra ritmica – ma poi si riprende, folle come in partenza, in un inseguimento allucinato di chitarra e percussioni. Stravaganti il giusto per spiccare nella massa, orecchiabili quello che basta per farmeli riascoltare con piacere. Approvati. Di nuovo Rock energico, questa volta dai Too Late To Wake: “Smooth Body” parte infuocata, cassa in quattro, promettendo assai bene (zona Foo Fighters); poi rallenta, si appoggia su un Rock in inglese più smorto e banale, con una voce che, sebbene calda in basso, non brilla sulle alte. Niente di eccezionale, nel complesso, ma con qualche idea interessante sparsa qua e là.

Un intro sospeso tra gli anni 70 e gli Arctic Monkeys per i Ghiaccio1, che in “Roby” si lanciano in un brano veloce, con sezione ritmica indiavolata e una voce trasformista, che qua e là tocca la timbrica di un Giuliano Sangiorgi qualsiasi. Poi rallentano, si rilassano, e ripartono, con un basso che sembra rubato a prodotti vari di Lucio Battisti. Notevole il tentativo di miscelare mood e generi diversi in un brano di poco più di 4 minuti (la coda scivola verso sonorità Reggae, e aggiunge varietà all’esibizione). La canzone non rimane troppo impressa, ma nel complesso si fanno ascoltare con gusto. The Suricates aprono con un intro Noise a cui seguono arpeggi sognanti, in un racconto Post-Punk straniante e circolare (c’è un po’ di confusione in ambito vocale, ma verso la metà del brano la cosa inizia ad avere un senso e a suonarmi così com’è: una voce che grida, sporca, gonfia di delay, esagerata). Un delirio generale ammaestrato, che riesce a tratti ad ipnotizzarmi. Non male. 

Il Disco 1 si chiude con due extra firmati De Rapage che appaiono senza titolo: il primo, che dovrebbe intitolarsi “To Be Hawaii”, è una ballad in cui la band abbandona l’energia grezza del Rock italiano primi anni 90 per darsi alla leggerezza – sempre ironico-demenziale ovviamente. Devo dire che il pezzo sta in piedi anche musicalmente, con quel giro di chitarra facilissimo e per questo bello, paraculo ma bello. E mi sento di dire che avrebbe funzionato alla grande anche ad avere un testo più serio (ma non staremmo parlando più, probabilmente, dei De Rapage). Il secondo extra torna un po’ sul sentiero del già visto, si canta e si sbraita e si picchia e si ride, ritornelli da quattro accordi e strofe goliardiche, sempre suonando sporchi & granitici insieme.

 Passiamo dunque al Disco 2: ecco di nuovo The Suricates, stavolta alle prese con “New Islands”. Intro psichico e allucinato, qualche intoppo qua e là sul nascere nel reparto chitarre, per un brano che stenta a decollare, ma poi si riprende: lento, lungo, ipnotico. Soundscapes di pianoforti, chitarre che si rincorrono, ritmiche incalzanti. L’onda scende, poi risale. Strumentale ed allucinatorio. Torna Doriana Legge, stavolta con un bel palm mute ritmico di chitarre ad introdurre “Scambisti Alla Deriva”. L’impianto è abbastanza confuso, con qualche imprecisione sparsa. Si è sempre dalle parti di una canzone d’autore post: c’è molto Lo-Fi, c’è molta teatralità, manca forse un focus maggiore. Il pathos, invece, c’è tutto. “Lisergia” per i Ghiaccio1: abbandonate le velocità Indie-Rock, ci si butta su un simil-Western con copiosi bending e momenti di frizzante distorsione strumentale. Un po’ peggio, un po’ noia.

I Too Late To Wake iniziano epici e brillanti la loro “Grey For A Day”, un Rock lento e malinconico, che, sempre senza sorprendere troppo, si dimostra composta con mestiere, mentre la voce ancora pecca nel registro alto (purtroppo). “Ngul Frekt Auà”, dedicata agli “alternativi del cazzo con la barba”, è il secondo pezzo “ufficiale” dei sempre più ghignanti De Rapage. La musica s’è ammorbidita e l’intento ironico è più preciso e affilato. Rischiano più volte di scadere nel cattivo gusto tanto per, ma qualche colpo di reni all’ultimo secondo sembra salvarli (il ritornello in dialetto, ad esempio – e chissà poi perché). Mi avevano lasciato con una simpatia inspiegabile nelle orecchie, ritornano un po’ meno luminosi e un po’ più piatti i Dem, che in “Ready If You Want Me” abbandonano la (bella) voce femminile per un cantato maschile più piatto, e un registro, in generale, più seventies. Sempre minimale, sempre percussioni leggere, chitarre frizzante e voci, il brano, sebbene sia sempre fuori di testa e pieno di arzigogoli ritmici e strutturali che proteggono lo spettatore dal disinteresse eventuale, non riesce a rimanermi incollato come quello del Disco 1. Sempre più inglesi e sempre più compatti gli A L’Aube Fluorescente (e più me lo ripeto, più il nome mi sembra figo – fuori di testa, ma figo). “Lizard” è un fascio di luce coerente e orecchiabile, che mi fa muovere la testa a ritmo, scritto bene e con una voce davvero poco italiana. Anche qui, niente di particolarmente nuovo, ma il lavoro è fatto bene, e potrebbe bastare.

Li abbiamo inquadrati nel Disco 1, non fanno che confermarsi qui: The Old School si presentano nella loro “We Are The Old School”, un Rock’n’Roll come dio comanda, e non c’è davvero bisogno che vi dica altro – nel bene e nel male.  Chiudono il party, come sopra, i De Rapage, con due ulteriori extra: sempre Rock energico, sempre la demenza più spinta, con argomento, nello specifico, l’omosessualità e la terribile esperienza di terminare il rotolo di carta igienica (con una variazione-litania: “mestruo, assorbenti, ciclo, vomito”… ci siamo capiti). 

Concludendo questa lunga carrellata di presentazioni varie: la compilation di Streetambula sorprende, e molto, perché una qualità mediamente così alta non era preventivata. Certo, l’audio non è dei migliori, le imprecisioni ogni tanto si fanno sentire, e tante band magari devono ancora mettere a punto qualcosa nei reparti tecnici: ma l’inventiva, la varietà e la passione che si possono trovare dentro questa compilation dimostrano che in giro c’è veramente tanta gente che ha qualcosa da dire. Il futuro sarà fatto di miriadi di band, che vivranno in una galassia musicale sempre più ampia e variegata, e ognuno di noi avrà mille sfaccettature da scoprire, senza doversi per forza aspettare la grande band dei nostri tempi. Iniziamo a guardarci intorno: date un’ascoltata a questa compilation e potreste incrociare qualcuno che vi convincerà a seguirlo con curiosità. Non si sa mai.

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Massimo Volume – Aspettando i Barbari

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La cruda realtà e la terrena poesia. Questo sono i Massimo Volume e lo si sapeva già. Non serve di certo il nuovo e ispirato episodio a raccontarci che cos’è questo tripudio di Post Rock viscerale, sempre più preso da raptus isterici, suoni spigolosi e ora contornato pure da una fredda lama elettronica. Emidio Clementi e colleghi non lasciano di certo spazio a voli pindarici e le loro parole “parlate” non distolgono lo sguardo da terra, un terreno ancora più arido, pronto a essere raso al suolo dai questi barbari. Gli occhi scattano verso il cielo solo per imprecarlo. Ma non è una raffica di bestemmie e urla forsennate, tutto è ben dosato e ragionato. Cuore, pancia e cervello lottano e si mescolano insieme come entità contendenti e complementari. Ad accogliere il ritorno della band bolognese ci pensa uno dei brani più interessanti e intriganti. “Dio delle Zecche” ruba le parole a Danilo Dolci e le modella in mezzo al vento   gelido di synth. La speranza è molto lontana, ma vediamo forse la timida luce di un Dio minore? Noi che accendiamo lumi per nasconderci le luci, più confortevole inselvarsi appiattandosi zecca.  Ma niente sospiri di sollievo, i Massimo Volume distolgono subito le rade illusioni con “La Cena”, rasoiata che taglia in due lo stomaco. “Aspettando i Barbari” è invece un brano lento e pesante, calibrato in ogni sua sillaba e arpeggio, le ritmiche di Vittoria Burattini giocano di dinamica senza abbassare mai la guardia e la sensazione di attesa (o di agguato?) aleggia nei quattro pesantissimi minuti. Cosa stiamo aspettando? Attendiamo un nuovo inverno per rimpiangere l’estate? O per progettare una rivincita? Per ora subiamo la certezza della lancetta che scorre e ci vede inermi. Pronti a essere invasi e stuprati da un treno ignoto.

I pezzi, nella classica tradizione della band, sono provocatori, pazzoidi, ricchi di citazioni più o meno dirette. Evocazione di un suono libero. Il grido selvaggio di chi può e vuole gridare con tutta la sua voce, ma questa voce si limita a parlare. Tanto questa metodica narrazione basta e avanza. Sprigiona la rabbia più profonda. “Vic Chesnutt” paga il suo tributo al tormentato cantautore statunitense, l’angoscia vibra nelle vene a ritmo di Noise e sonorità quasi Industrial. Una corona di spine, appoggiata sul palco, tra la chitarra e la spia, dona un immenso senso di vuoto, paragonabile proprio alla scomparsa di un artista a cui sei devoto. Anche la Dymaxion Philosophy del geniale architetto Richard Buckminster Fuller vive in questo disco (“Dymaxion Song”). DY (dynamic) MAX (maximum) ION (tension), nulla di più azzeccato potrebbe descrivere questo lamento costante. “Il Nemico che Avanza” cita Mao TseTung, invece “Compound” descrive la morte di Osama Bin Laden, agonia e un sorriso diabolico. Il male non verrà estirpato. Tanto vale conviverci, aspettandocelo alla spalle. “Silvia Camagni” è il richiamo più evidente dei vecchi Massimo Volume. Semplicemente una storia, semplicemente una poesia dentro la storia. Si lasciarono come tutte le cose destinate a dividersi, come il mare e la terra e conserva l’amore per quando fa freddo sono solo due gemme che nascondono dietro il fitto strato di polvere la loro lucentezza. La carne è raccontata da tutte le sue bruciature. Cicatrici che faticano a formarsi, lembi ancora sanguinanti al solo ricordo del taglio. Il suono è greve, cupo, martoriato e il basso di Emidio galoppa insieme alle sue narrazioni, mano nella mano giù negli inferi in un finale da incubo. Incubo da cui non ci svegliamo fino all’ultima nota del disco. “Da Dove Sono Stato” è la perfetta canzone per un lacerato e meditato addio.

Addio che sarà un arrivederci, con lesioni sulla pelle ancora vive. Con le orecchie stravolte e la bocca impastata anche se le parole sono solo ascoltate e non apriamo mai bocca. Perché anche se fa male, anche se spesso risulta sgradevole, il suono dei Massimo Volume non lascia mai indifferenti. E a casa mia ciò che ripudia l’indifferenza si chiama passione.

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La Band Della Settimana: La Nevicata dell’85

Written by Novità

La Nevicata dell’85 nasce come progetto musicale da Ivan Cortesi (parole, voce, chitarra) e da Andrea Ardigò (batteria, pad). Inizialmente i due sviluppano l’idea di un combo strumentale dove i pezzi si muovono su vigorosi e repentini cambi di dinamica/atmosfera. La calma è rallentata e dilatata, cadenzata e apparente, portatrice di un’ invisibile tensione che sfocia in addominali escursioni rumoriste. Sono brani che sfidano il tempo e il suo scorrere. Colonne sonore di un osservare muto.

In pochi mesi si costituisce parte dello scheletro del progetto e matura la volontà e la necessità di protendersi e superare i limiti della formazione combo. La Nevicata si completa con l’arrivo di Davide Catoggio (basso e chitarra). Attecchisce simbioticamente il bisogno di ampliare i registri comunicativi trovando in un cantato, che è più voce parlata e urlata, il corpo e il fiato dei luoghi propri. Evocando Bergamo, le sue periferie e la sua provincia, i ricordi.

Il risultato è La Nevicata dell’85, sesta uscita per l’etichetta FUMAIO e primo capitolo per il gruppo. Album registrato nel maggio 2010, uscito nel gennaio/febbraio 2011 è animato da 10 pezzi che solcano atmosfere post-rock, noise, ambient per approdare in lidi minimali. Canzoni che forzano la rotta insistendo in strutture e traiettorie ora scandite da parole e ora abbandonate a sé e al proprio lento disvelarsi.

Quest’anno arriva invece Secolo e il secondo disco della band non solo conferma le promesse dell’esordio ma sembra lasciar intravedere una luce ancor più splendente del previsto per la band italianissima su cui siamo pronti a scommettere fin da subito!

Ecco a voi il Post Rock Crepuscolare più freddo che avete mai ascoltato.

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La Nevicata dell’85 – Secolo

Written by Recensioni

L’inverno sta per arrivare gelido a spezzare tutte le nostre modaiole sensazioni estive, il freddo suona Post Rock come La Nevicata dell’85, Secolo è il secondo disco della band che anticipa quello che sarà l’inverno “musicale” più freddo e impegnativo di sempre. Nascondersi dietro lo scroscio velenoso delle chitarre nervose di Secolo equivale a buttarsi senza ragione nel mezzo di un uragano, il cuore smette di pulsare, l’uragano ti divora. Il confine tra immaginazione e realtà si spezza, il sound adultero de La Nevicata dell’85 inizia a divorarti dall’interno, poi soltanto movimenti lenti e viziati. In questo autunno monopolizzato dai grandi e (a volte) finti ritorni Secolo trova spazio spingendo forte sulla leva della bellezza. Otto pezzi tirati come pochi nel nostro bel paese, otto pezzi dalle intenzioni bastarde.

Apertura che penetra nelle gelide ossa con “Attuale”, una lieve sensazione di solitudine, poi il nulla. Continuo a vagare nel buio seguendo uno spiraglio di luce che non raggiungerò mai, molto Massimo Volume dentro, le batterie piangono di rabbia, le chitarre scrivono dolore nell’aria, la voce urla, “Nostalghia”. Fuoco, il desiderio di un caldo fuoco. Poi “Secolo”, costrizione alla neve, la montagna, ancora tanto freddo. “Frammenti”, pezzi di vita! Basso meticoloso e puntuale, manca l’aria. Tutto intorno diventa un maledetto e incontrollabile caos in “Diorama”, corro ma non saprei proprio dove andare, vorrei dare forma al mio dolore se solo sapessi come fare. Ancora quello spiraglio di luce che cerca di insegnarmi la strada, che vuole scaldare il sangue ormai gelido in “Terra Che Attendo”. Le chitarre mi stordisco e non poco. “Sabato” e fuori piove ininterrottamente, soltanto martellante pioggia che sbatte contro un viso senza speranza, poi la sfido, non ho paura di niente ormai. Adorabili le chitarre flagellate da una impetuosa batteria. La fine della storia, “Terra Che Trovo”, ho perso ogni piccola possibilità di salvezza, scoppio di emozioni contrastanti, la paura si trasforma in felicità, ho goduto come uno sporco maiale. Provo quasi vergogna.

Ci sarebbe troppo da imparare dal disco de La Nevicata dell’85, ci sarebbe anche troppo da paragonare, certamente non abbiamo davanti un opera prima per quanto riguarda l’originalità ma non avevo bisogno di roba nuova quando mi sono cimentato nell’ascolto di Secolo, cercavo quello che poi faticosamente e con tanta passione ho trovato. Un disco intenso con il potere di renderti partecipe dei brani, una storia fredda in grado di coinvolgere completamente l’ascoltatore proiettandolo nelle atmosfere tristi del disco. Secolo è il disco dalle forti sensazioni, bisogna gustarlo nei minimi particolari e con un volume sopra la media per coglierne le molteplici sfaccettature. La Nevicata dell’85 registra un disco sopra le righe, tutto il resto scivola leggero come una foglia cadente che ci prepara ad un lunghissimo inverno Post Rock. Per fortuna un disco italiano, teniamocelo stretto stretto.

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These New Puritans – Field Of Reeds

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King Suffy Generator – The Fifth State

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Dopo il Quarto Stato arriva il Quinto. I King Suffy Generator, ispirati dalle opere del pittore e scultore Giorgio Da Valeggia, ne fanno un concept-album, strumentale, sul processo che ha portato l’uomo ad essere vittima della stessa società che aveva in passato cercato di cambiare. Da forza motrice a ingranaggio muto.

Il disco si apre con “Derailed Dreams”, tra chitarre e basso pulsanti, melodie imprevedibili, ritmiche ossessive, fino all’apertura del finale. Si prosegue con “Short Term Vision”, dalle parti dei God Is An Astronaut più intensi, o come una versione meno graffiante dei Kubark: arpeggi circolari, pulsazioni zoppicanti e atmosfere ariose, con in coda un finale perfetto, che s’inchioda nella mente con sorprendente facilità. “Rough Souls”, basata su appoggi di synth su sfondo noise, è nient’altro che una decompressione intermedia che ci porta a “Relieve The Burden”, acida e pungente, dove le chitarre predominano, alte e frizzanti, a scalare su e giù per la tastiera in riff inquieti, infestanti, e inserti ruvidi – la lezione della Psichedelia sixties viene assimilata e rielaborata attraverso il prisma del Post-Rock anni 90. Col piede si tiene il ritmo, con la testa si viaggia lontano. Il finale viene lasciato ad una coda di pianoforte e voci distanti: una nota malinconica prima dell’uno-due finale.

“We Used to Talk About Emancipation” parte con un solido impianto ritmico, furioso e asimmetrico, e finisce riprendendo l’atmosfera, incattivendola, della chiusura di “Short Term Vision”, in un corto-circuito che provoca un interessante deja vù;mentre “Tomorrow We Shall See” mantiene alta la carica energetica degli ultimi due brani e la porta in situazioni ritmiche prima ondeggianti poi martellanti, con le distorsioni delle chitarre che premono contro basso e batteria, aprendosi qua e là in scoppi o distensioni improvvise che spezzano la continuità del brano, facendolo diventare una piacevole corsa ad ostacoli che non perde però in naturalezza. Verso la fine si rallenta e si prende un bel respiro: la sensazione è quella della camminata gonfia d’ossigeno dopo lo scatto feroce per arrivare al traguardo. The Fifth State è un ottimo album di musica strumentale: Post-Rock energico, abbastanza orecchiabile, psichedelico, atmosferico. Ai King Suffy Generator manca solo qualcosa che possa rendere più personale la loro opera. Detto questo, il disco ha senza dubbio tutte le carte in regola per poterlo consigliare, senza scrupolo alcuno, a tutti gli amanti del genere.

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Good Morning Finch – Cosmonaut

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Aria timida fuori dalla finestra, il cielo che sembra gettare a forza su di noi i suoi rantoli, spuntando fuori i polmoni per soffiare l’ultimo vento caldo. E in un panorama così apparentemente banale abbino casualmente il romanzo che in un’estate troppo movimentata non sono riuscito a finire e un disco da recensire, pescato dagli arretrati di questo frenetico anno.

Murakami “Kafka Sulla Spiaggia” incontra i Good Morning Finch, band siciliana attiva dal 2010 che abbatte dalle prime note tutte le barriere spazio-temporali. Le visioni oniriche e magiche dei personaggi del romanzo si mischiano alla perfezione ai delay, alle poche chitarre ben incastrate tra beat carnali (questo è un album suonato e si sente) e ritmiche soffici. Sensazioni di calma, ma anche di angoscia e di tremenda lentezza e imprevedibilità invadono l’atmosfera. La dinamica non esplode mai, anche quando potrebbe permettersi più violenza come in “Last Rocket From Moskow to Neptune” è tenuta volutamente soffusa, calibrata quasi alla perfezione. Non ci abbandona l’alone di mistero e la sensazione di stare a mezz’aria pur avendo ben cosciente ed impresso il ricordo del nostro mondo terreno. Pink Floyd e Sigur Ròs trovano un facile accordo e mischiano le loro deviazioni. I Good Morning Finch però tralasciano spesso le efficaci venature pop. Qui nulla è cantato, anche la poca voce presente è un incredibile veicolo tra spazio e terra.Ci sentiamo astronauti più vicini alle stelle ma mai troppo distanti dal suolo. Non lo perdiamo mai di vista, lo osserviamo attentamente per vivere più intensamente il sogno. Proprio come in Murakami, dove mai perdiamo la sensazione del tatto. Anche quando si parla di fantasmi perduti nello spazio in “Alexis Graciov is Gone” (Alexis Graciov è un cosmonauta che pare essere scomparso nel 1960 in una missione spaziale russa, leggenda o complotto?) la chitarra acustica ci riporta in una spiaggia con un falò, resa surreale da una voce femminile lontana, che echeggia tra le onde.

Qualcosa combina romanzo e disco in uno strepitoso vortice in cui le sensazioni visive, le parole e le note si combinano chimicamente. Conoscendo i miei gusti questo EP (sebbene prodotto al meglio) non si sarebbe mai insediato nelle mie orecchie in assenza di “Kafka Sulla Spiaggia” e dei suoi bizzarri soggetti. Fatemi pensare che sia nulla più che una piacevole coincidenza.

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Nuovo album per Alessio Premoli

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Uscirà in autunno il nuovo disco di Alessio Premoli, Even silence has gone. Il disco, a cavallo tra sonorità acustiche folk e musica ambient d’ispirazione post-rock, si avvale della collaborazione di Riccardo Feroce all’oboe, Ludovica Pirillo alle percussioni, Luca Cirio e Federico Cavaliere alle voci. Presto verranno comunicati tutti i dettagli su data di uscita e reperibilità dell’album.

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Live Footage – Doyers

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Un album imponente. Questo è più di ogni altra cosa il secondo lavoro del duo di Brooklyn Topu Lyo (cello, sampler) e Mike Thies (drums, keyboards). A distanza di tre anni dal buonissimo esordio di Willow Be, tirano fuori un’opera costruita su ben diciassette tracce, rigorosamente strumentali, per la durata limite di quasi settanta minuti. Un disco che vi permetterà di godere pienamente del loro estro e vi giustificherà le parole di una certa critica che li pone tra i migliori compositori di colonne sonore surreali in circolazione. Corde ed elettronica, batteria e tastiere, realtà e sogno si mescolano alla perfezione per creare una suggestione sonica indimenticabile, resa ancor più umana dall’aspetto dell’improvvisazione esecutiva.

“L’assenza di limitazioni è nemica dell’arte”. Parte da quest’aforisma di Orson Welles il duo statunitense per mettersi a realizzare Doyers. Sono queste parole del genio della regia (ma non esclusivamente) che fanno da mantra al lavoro dei Live Footage, durante le registrazioni e la creazione delle diciassette (numero che in terra di Obama non genera gli stessi gesti scaramantici) gemme in questione.
Le limitazioni amiche dell’arte, in questo caso, possono essere tante e riferite a una miriade di diverse questioni tecniche, creative e non solo, ma quelle che saltano più all’orecchio, sono quelle dirette delle note, che sembrano spaziare e volteggiare nell’infinità del cosmo ma in realtà, alla fine dell’ascolto, vi renderete conto essere parte di una precisa galassia, uniforme e delimitata, pur se enorme. Tutto ha limite, anche se nella sua apparente illimitatezza e sta solo nel punto di vista dell’osservatore che tali limiti si rendono in parte visibili.

La musica dei Live Footage passa con disinvoltura da eteree e riverberate atmosfere lisergiche e Psych Rock (“Broklyn Bridge”, “Asian Crane”, “Lucien”) a un sognante Dream Pop più stile Beach House che Sigur Ròs utilizzando spesso le stesse forme del Post Rock mogwaiano, fatto di crescendo continui e muri di chitarre, o dello Slowcore Glitch (“Purgatory (The Storm Has Passed)”, “Broklyn Bridge”). L’ossessione ritmica dell’inizio di “Foresight” anticipa altri punti di vista, tendenti al Jazz e non mancano divagazioni addirittura nei territori della Dub Music (“Mortality”), della Drum’n Bass (“Going Somewhere”, “New Breed”), della musica sudamericana (“Caipirinha”), dell’elettronica di chiara matrice Kraftwerk (“Korean Tea Shoppe”, “Computer is Free”) o anche il Rock alternativo contaminato da ritmiche Funky, ovviamente sempre in combutta con un liquefatto e caldo Ambient (“Secret Cricket Meeting”) o il più fumoso e oscuro Trip Hop (“Ant Colony”). Eccezionali i passaggi più spiccatamente Film Score/Soundtrack (“Just Moving Parts”, “Airport Farewell”) nei quali si rende ancor più palese e chiaro il concetto di surreale applicato all’opera dei Live Footage.
Ovviamente, se ancora non avete ascoltato Doyers, vi starete chiedendo come possa io parlare di limiti ma poi tirare in ballo una quantità di generi musicali sconfinata. Come già vi ho detto, dovete ascoltare per capire. Ogni influenza sembra schizzare qua e là, apparentemente senza controllo ma in realtà, se provate ad allontanare per un secondo l’anima dalle note, noterete che la musica dei Live Footage, si ammorbidisce, quando deve suonare più forte e s’indurisce quando invece mira alla leggiadria. In questo modo, si crea una linea imprecisa che, come il volo d’un uccello, apparirà più armonica, con l’allontanarsi dello sguardo.

Per chiudere, non posso che rinnovarvi le mie promesse. Ascoltate e poi ditemi, basta leggere le mie parole, o impazzire dietro ad esse. Citando Welles, le promesse sono molto più divertenti delle spiegazioni. Quindi, buon divertimento.

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