post-rock Tag Archive

The Sorry Shop – Mnemonic Syncretism

Written by Recensioni

I brasiliani The Sorry Shop (provenienti da Rio Grande, una modesta cittadina situata nell’estremo lembo meridionale dello stato carioca), dopo la pubblicazione del full lenght Bloody, Fuzzy, Cozy (2012), tornano nuovamente in scena con Mnemonic Syncretism (2013), album interamente concepito e realizzato tra le mura domestiche del polistrumentista Régis Garcia, affiancato nelle recording sessions da Rafael Rechia, Kelvin Tomaz (chitarre: rispettivamente traccia 3/8), Marcos Alaniz e Mônica Reguffe (voci). Ponderata autarchia tecnico/produttiva, concettualmente in linea con la manifesta attitudine Lo-Fi del progetto: un sound rigorosamente nineties, influenzato dai più disparati (sotto)generi musicali quali Shoegaze, Noise, Ambient, Space/Post Rock.

Ogni qualvolta mi accinga ad analizzare, produrre o supervisionare un album di tal fattura, indugio puntualmente  nella stupefazione constatando quanto abbia influito su di esso il sempre attuale ed avanguardistico Wall Of Sound (1962/1963) di Harvey Philip “Phil” Spector (probabilmente uno dei più influenti record producer che il panorama discografico ricordi). Una muraglia sonora travolgente e complessa generata dalle imponenti chitarre di Régis, costantemente danzanti nel punto focale della scena, indubbia lezione di raffinata filosofia “spectoriana”, ed evidenziate con estrema accuratezza da un seguipersone in perenne staticità, a tal punto da relegare in periferiche zone d’ombra le differenti componenti contestuali (vedi, ad esempio, l’incisiva opening track “Star Rising” e brani di intensa peculiarità come “Rooftops of Any Town”, “A Place to Bury Strangers” e “Know Me Right”). Vera e propria disintegrazione armonica su cui si innestano (timidamente) partiture vocali eteree e sognanti, quasi sfuggenti ed indistinguibili, mai particolarmente enfatizzate rispetto alla poderosa riverberazione dell’impianto chitarristico, indiscusso e primigenio fulcro vitale di un progetto non esente da oggettive imperfezioni (un paio di Db su basso e batteria non avrebbero di certo guastato), ma pur sempre onesto, sincero e godibile. Da tener d’occhio.

Read More

Mogwai – Rave Tapes

Written by Recensioni

Ascolto: un album dei Mogwai lo devi sempre ascoltare lontano dalla luce; immaginate un posto piacevole al buio, non in solitudine. Ecco, l’ho ascoltato là.

Umore: un po’ confuso e sudato.

Dovunque si trovino i non più giovanissimi e talentuosi scozzesi sono sicuro che stanno già tremando all’idea che una mia recensione possa stroncargli per sempre la carriera. Scherzi a parte, per spiegare meglio quello che sto per scrivere vorrei partire dal mio ricordo live dei Mogwai: li ho visti due anni fa al Perfect Day di Verona e oltre che guardare un ottimo live ho avuto un’esperienza sonora nuova che tutti i mille e mille live che ho visto mi avevano mai garantito. A metà concerto mi giro per commentare con un mio amico quello che stavo vedendo, scelgo accuratamente quel momento perché la dinamica del pezzo che stavano suonando (non ricordo quale) era scesa di molto. Era uno di quei pezzi lenti, che ad un certo punto riduce al minimo le note, che si fa flebile e pensoso. Scelgo quel momento per dire una frase, una sola frase. Mi giro verso il mio amico e dopo non più di due o tre parole dalle casse mi arriva tra capo e collo un cartone sonoro talmente forte che indietreggio fisicamente di due o tre passi, come se davvero avessi preso un ceffone in uno dei peggiori bar di Caracas. Mai sentita prima una pressione sonora così forte, mai sentita prima un passaggio dal piano al forte così esagerato e così improvviso. Sono rimasto sconcertato e mi sono gasato come un bambino che comincia a capire di non esserlo più. Quei cinque secondi di musica hanno condizionato il mio parere su Rave Tapes. Secondo me, e con questo non voglio essere presuntuoso o tantomeno irrispettoso nei confronti di un gruppo che ammiro sinceramente, non è un gran disco. Più che altro sono convinto che sia interlocutorio. La loro esperienza di scrivere la colonna sonora di Revenants forse ha determinato questo strascico un po’ sbilenco che dichiara una via nuova ma al tempo stesso non la spiega bene. Complessivamente, ed è una tendenza che ho notato in svariati dischi non propriamente mainstream usciti nel 2013, in Raves Tapes c’è poco spazio per i chiaroscuri, per il dialogo tra silenzio e musica. Il fluire di questa assomiglia più ad un rubinetto lasciato aperto a metà nel bagno piuttosto che alla sciacquio ritmico e ristoratore delle onde che modellano la costa. Più un ruscello sotto casa che una cascata nella foresta.

Analizzando qualche pezzo, “Heard About Your Last Night” inizia con scampanellii molto Post Rock e ti fa immaginare uno sviluppo del disco molto diverso, “Simon Ferocius“ è un ipnotico crescendo che incalza lentamente ma alla fine non esplode mai. “Remurdered” invece mi sembra fare eco alla colonna sonora di Escape from New York di Carpenter e questo mi è piaciuto molto: un bass synth dallo spiccato sapore anni 80 fa da perno a tutto il pezzo e detta il crescendo senza segni distintivi melodici che arriva dalle basse frequenze come un terremoto che poi (mi passino la metafora forte) però non devasta. “Blues Hour” , pezzo cantato come un mantra, dà più il senso di autentico Post Rock d’annata, un pezzo lento come se si stessero scaricando le pile all’ipod ed invece energica come se ti stesse ricaricando dentro. In questo pezzo, le onde le senti tutte e ti lavano a meraviglia. Purtroppo in questo disco un episodio piuttosto isolato.

Ricapitolando, un disco dei Mogwai non può prendersi da Angelo Violante un’insufficienza; per definizione e rispetto. Ma il disco mi ha lasciato con un senso di insoddisfazione fastidiosa. Quello che mi è mancato è il dialogo tra il silenzio e il rumore, tra il pieno e il vuoto. Anzi no, mi è mancato proprio il silenzio. Il silenzio è la nota non suonata più bella, quella che ti rende meravigliose le note suonate, quello che ti permette di essere colpito al cuore.

Read More

65daysofstatic – Wild Light

Written by Recensioni

Ormai è quasi impossibile impressionarsi di fronte a un disco dei 65daysofstatic (essendo questo il sesto lavoro in studio della band), dato anche l’impatto che ebbi col precedente album We Were Exploding Anyway (che fu seguito nel 2011 solo da Silent Running, omonima colonna sonora del film del 1972). Tre anni di lunga attesa sono quindi passati lentamente ed inesorabili, aspettando che il gruppo ci regalasse un’altra perla di moderno Post Rock. Paul Wolinski, JoeShrewsbury, Rob Jones e Simon Wright si sono ritrovati come sempre a comporre suoni ai limiti dell’Ambient, degni delle più belle opere di Brian Eno, ma approcciandosi sempre di più ai ritmi ossessivi dei Nine Inch Nails e dei Mogwai (tanto per citarne alcuni). Dodici anni di carriera sono tanti ed il peso da sostenere può a volte schiacciare anche i migliori, ma per fortuna ciò non è accaduto al quartetto di Sheffield che continua a mantenere chiara la mira dell’obiettivo.

Difficilmente quindi un fan che ascolterà questo disco potrebbe rimanere deluso, perché già dall’apertura in parlato di “Heat Death Infinity Splitter” è tutto chiaro e limpido. Un Math Core mescolato a tanta elettronica, simile a quella dei Prodigy, che si ripete durante tutte le nove tracce (una però,  “DoxxxYrself” è la conclusiva bonus track, degno epilogo mai al di sotto delle altre otto per qualità). Non sarei neanche stupito più di tanto se mi ritrovassi a sentire canzoni come “Prisms” o “Sleepwalk City” in un rave party. Tuttavia qualche canzone tipo “Taipei” sarebbe leggermente fuori luogo in tale situazione, ma credetemi, è solo un problema di punti di vista, in quanto pur rallentando i bpm in maniera esagerata la canzone raggiunge senza dubbio l’apice del disco. Il cambio di etichetta non ha quindi danneggiato il quartetto, gli ha anzi donato nuova linfa e vita sonora. Se non conoscete i 65daysofstatic questa è quindi la vostra migliore occasione per approcciare al Post Rock di ottima qualità, del resto come potreste rimanere delusi da una band che ha scelto il suo nome ispirandosi a un film inedito del grande regista John Carpenter (sì proprio quello di “1997: fuga da New York, “Christine – La macchina infernale”, “Essi vivono”  e tanti altri film di successo mondiale)? Se poi voleste anche approfondire la conoscenza, vi consiglio vivamente di visitare il sito web, ottima fan page contenente anche materiare raro ed inedito e persino radio sessions e demo.

Take a look and dream with music!

Read More

Afformance – The Place

Written by Recensioni

Già dalle note che spalancano questo nuovo Ep targato Afformance è manifesto come la loro musica riesca a suonare rigorosamente senza tempo. Nelle peculiarità nostalgiche di un piano che produce una vibrazione svogliata sullo sfondo di rumoristiche ambientazioni lisergiche oscure, quasi extraterrestri, è facile scorgere le pieghe del tempo che svelano una necessità d’immediatezza, di contemporaneità connaturata alla natura umana. Le arie che aprono “Dough Claws” paiono la commistione di suoni che affollano la stanza che ospita lo stargate aperto su un mondo antico, dal quale la musica scivola via come per scappare.

Solo con l’incedere cadenzato di “Stride” e poi con “Covered in Scales” entra in scena un Rock concreto, strumentale, vagamente cosmico e psichedelico, dalla struttura più precisamente tracciata, che richiama gli stilemi e i cliché del Post Rock più classico, evitando le esemplarità matematiche eccedenti degli Slint, prediligendo strade eteree come quelle battute dai Mogwai nei momenti più Film Score. La sperimentazione è ridotta all’osso tanto che la musica si dondola teneramente tra Ambient, sogno e l’asprezza di qualche accelerata nebulosamente metallica. Nel finale si mostra un ponte che ricorda un brano dei ben meno noti ma non per questo meno talentuosi Suricates, somiglianza che si ferma quasi compiutamente alla parte iniziale del pezzo e che fa sorridere per quanto probabilmente solo frutto della coincidenza ma che avrebbe provocato scalpore se notata in due band più mainstream. Il brano, per quanto ripetitivo e poco articolato, è anche il più interessante, il più trascinante; la musica cresce in maniera impetuosa, le chitarre si accavallano in modo maniacale, ora rallentando ora accelerando evocando un’esplosione sonica che mai finisce per compiersi.

Come dico spesso, il Post-Rock, passatemi la definizione come genere nonostante la vaghezza, è un modo di fare Rock tanto passato quanto affascinante, che, se fatto con cura distoglie l’attenzione dall’eccessiva riproposizione di se stesso. Questo è esattamente il caso di un Ep Post-Rock creato con dedizione, che non suona remoto pur proponendo qualcosa di vecchissimo, ormai superato. I pezzi, specie “Narcoleptic”, avrebbero potuto essere di più se si fosse lavorato con maggior attenzione a fornire loro una densità costitutiva diversa dal solito. La scelta della band greca è stata invece quella di lasciare i lavori secchi, scheletrici e il risultato è un buon Ep Post-Rock, di quelli che magari non riascolteremo mai più, anche se ora, proprio ora, ci ha fatto più che piacere origliare.

Read More

Australasia – Vertebra

Written by Recensioni

Comporre brani interamente strumentali è un’arma a doppio taglio. Da un lato c’è una grandissima libertà a livello costruttivo, come se tutto il brano fosse fondamentalmente improvvisato, dall’altro manca una certa direzionalità del messaggio che si intende comunicare e si rischia di esser fraintesi o non ascoltati con la debita attenzione, solo perchè manca un esplicativo testo letterario. Gli Australasia, però, riescono bene nel loro intento: i brani sono costruiti con una grande libertà, cosa che in qualche modo disorienta l’ascoltatore, ma che sottolinea motivi, timbri e passaggi, che vengono immediatamente riconosciuti a ogni riproposizione.

“Aorta”, in apertura, ha sonorità Post Rock che ricordano molto le ballate dei Marlene Kuntz, mentre “Vostok” è caratterizzata da un intro molto elettronico, con un che di fantasy: non è un brano che mi ha particolarmente colpito, anche se è sicuramente cinematografico e carico di pathos, sottolineato soprattutto dall’inserimento armonico delle chitarre distorte  in un crescendo dinamico che gradatamente conduce alla fine del brano affidato a sonorità acustiche che proprio non ci si aspettava. “Zero” ha un andamento molto più marziale e una ricerca timbrica che ricorda particolarmente i Mogwai. Il disco prosegue con “Aura”, di nuovo artificiale nelle sonorità e ammorbidita dalla voce femminile che canta un paio di frasi che diventano subito più un pretesto fonico che un messaggio vero e proprio. Molto più Progressive sono le ispirazioni di “Antenne”, un tripudio Noise sperimentalissimo in cui ogni breve inciso melodico viene reiterato ossessivamente, sommandosi ad altri. Una voce registrata apre “Volume”, brano dal sapore epico e sicuramente degno del titolo che porta. La title track, “Vertebra”, è onirica. Il dialogo melodico sembra venire da lontano, sia in senso fisico sia in senso metaforico e il pezzo sembra essere un viaggio in una landa solitaria, impressione che pare essere confermata dal cinguettio degli uccellini registrato e aggiunto sul finale. Troviamo di nuovo la voce femminile in “Apnea”, che, pur con qualche pretesa Trip Hop, non mi ha convinto. Bello è invece “Deficit”, cortissimo per durata ma incendiario e frenetico per andamento e sonorità. Il disco chiude con “Cinema” che, oltre alla sua costruzione decisamente Alternative, ha anche un aggancio timbrico con l’iniziale “Aorta” e con “Vertebra”, in un ideale riassunto e chiusura del cerchio.

Sarebbe troppo facile sostenere che i brani degli Australasia andrebbero bene per la sonorizzazione di qualche film. Non li ho trovati così carichi di descrittività come si confarrebbe allo scopo. Vertebra è un disco da ascoltare e meditare. Non sempre e non per forza ci si guadagnerà in emozione ma sicuramente se ne avrà tratto del piacere.

Read More

December Hung Himself – Ivory

Written by Recensioni

Il suono della notte, con tutte le contraddizioni che il tramonto può provocare. Questo disco è dunque una camminata in una radura stellata, ma anche un incombente pericolo. Un lungo e intenso sospiro di sollievo ma pure un incubo ben insediato nella mente. December Hung Himself è il nuovissimo progetto parallelo di due musicisti sardi ben noti nel panorama underground nazionale, ovvero Aurora Atzeni (Thank U For Smoking) e Nicola Olla (militante nei punkers Curse this Ocean e chitarrista/tastierista dei Charun, sound più affine a questo progetto). Il loro primo EP Ivory è indubbiamente un buon biglietto da visita dove il Post Rock più classico trova la sua dimensione molto buia ma non per questo solo scura e tetra. I ragazzi riescono bene a donare al loro prodotto tutte le sfaccettature necessarie per farci apprezzare la solitudine, la tranquillità e (perché no?) anche la pericolosità della notte. Il titolo del disco è quasi un ironico contrasto, a sottolinearci come il candore dell’avorio possa integrarsi bene nel cielo stellato. Titolo freddo come il panorama che ci sta intorno.

L’ultimo fascio di luce è gettato proprio in apertura. A descrivere il crepuscolo di questa breve ma intensa oscurità ci pensa l’arpeggio di chitarra che introduce “And the Crows”, dove le voci dei due ragazzi si fondono magicamente creando melodie dilatate, in bilico tra serenità e paura. La luce scompare e i nostri occhi si devono abituare al tenue bagliore delle stelle. Le atmosfere non cambiano molto in “Galleyworm”. Già ci svegliamo nell’intro, punzecchiati dal gelido arpeggio elettrico e dalla distante voce di Aurora e poi arriva un ritmica decisa rocciosa che si schianta sul nostro viso. “Drag me Down” pare invece un cieco viaggio in abissi marini. Da sottolineare le numerose aperture melodiche che, anche se espresse da voci soffuse e nascoste, ci regalano un respiro a pieni polmoni. Infine “Alive” chiude il cerchio con una chitarra che pare un carillon scarico.

L’EP non è certamente qualcosa di memorabile, ma vanta una determinante qualità. E’ suonato per davvero e si sente, non perde mai di concretezza e di credibilità. Il tocco umano sullo strumento dona una marcia in più a brani che non spiccano per originalità. Una bella dimostrazione a tutti gli amanti del sintetico. Questo è un bel maglione di lana, forse un po’ largo e démodé, di quelli che danno un po’ fastidio punzecchiandoci al collo. Ma sicuramente è un sincero riparo in questa gelida notte.

Read More

Fiori di Cadillac – Cartoline

Written by Recensioni

Pare che per la realizzazione dell’esordio discografico i Fiori di Cadillac hanno impiegato circa due anni, almeno da quello che leggo sulla loro presentazione promozionale, l’esordio in questione si materializza sotto il nome di Cartoline uscito sotto etichetta Forears. Due anni sono veramente tanti, immaginate in due anni quante cose si possono fare, quante cose possono cambiare e soprattutto quante differenti sensazioni possono attraversare l’intimità di una persona. Ma in due anni è possibile anche concepire qualcosa di sensato dai connotati maturi. I Fiori di Cadillac per qualche motivo che fatico ancora a elaborare mi erano già passati per le orecchie, insomma, provo questa strana sensazione di averli già ascoltati prima di ricevere il disco e consumarlo nella giusta misura che meritano. Sono quei misteri ai quali non riesco mai a dare una spiegazione ma che accetto con una smisurata soddisfazione specialmente quando l’oggetto misterioso in questione è rappresentato da un lavoro come Cartoline. La band campana ci mette dentro una notevole quantità di tecnica ma il valore aggiunto è segnato indubbiamente dall’emotività sperimentale del sound. Io dentro quel sound mi sono perso infinite volte e provavo piacere nel lasciarmi ammanettare dalla loro enfasi, quadrati e armonicamente perfetti anche quando il cantato in italiano non si dovrebbe legare perfettamente al tipo di musica proposto per una questione di orecchiabilità. Lode a questo bravo cantante.

Per intenderci (e sono parole loro) trovano influenze in band come Radiohead e Mercury Rev. Cartoline si apre con “Il Ministero dell’Amore” e la ritmica innaturale (alla Radiohead) si sovrappone prepotentemente ad un cantato bello e immediato. La durezza della pasta esce subito allo scoperto. “Io Resto Qui” viaggia sulla stessa sintonia della precedente, ambienti umidi ed emozionalità alle stelle. Tutto resta sugli stessi contesti fino ad arrivare alla più intima e personale “Prima” nella quale i Fiori di Cadillac lasciano molto spazio a riff mielati e coinvolgenti. Soltanto palpitazioni in “Dissolvenza/Stacco”. Acidi e psicologicamente confusi in “Canzone in Scatola”, qualcosa mi ricorda il caos intelligente dei primissimi Bluvertigo, niente di scontato insomma. Ironia della sorte in “Fuori Nevica” (perché fuori nevica davvero) dove le atmosfere sembrano quelle affrontate quasi perennemente da Moby ma molto più rockettare e con un finale ai limiti del Post Rock. Sorrisi e pianti in “Jonny”, il disco è quasi finito e molte cose si sono ficcate sotto pelle. “Le Tue Cartoline” suona come una gradevole chiusura del disco, un brano che sembra prenderci per mano e accompagnarci all’uscita con estremo desiderio di vedersi nuovamente. I Fiori di Cadillac registrano un esordio discografico di indiscusso fascino, dentro Cartoline possiamo trovare tutto quello che cerchiamo, bisogna avere cervello e buon gusto. I Fiori di Cadillac sono una delle migliori uscite di questo duemilatredici stronzo e funesto, un esordio che ti scoppia in faccia. Non potevano iniziare meglio.

Read More

Aa. Vv. – Streetambula

Written by Recensioni

Streetambula è la compilation, di ben 20 pezzi in due dischi, che è stata prodotta in seguito all’ottima riuscita del concorso omonimo, svoltosi l’estate scorsa a Pratola Peligna (AQ). Prepariamoci quindi ad una carrellata dei brani presenti nei due dischi della compilation: due canzoni per gruppo più alcuni extra affidati ai De Rapage, vincitori del concorso.  Aprono le danze The Old School, che, come da nome, regalano una ballabilissima “Rock’n’Roll All The Night” da vera vecchia scuola, sorprendentemente solida e frizzante. Nulla di nuovo, ma di certo un Rock’n’Roll che sta in piedi e che avrà fatto agitare una buona fetta di pubblico. Ci spostiamo in zone più raccolte con “Gloom” de A L’Aube Fluorescente, che invece, a dispetto del nome altisonante, si buttano su un Rock alternativo lineare e molto inglese, anche piacevole se vogliamo, suonato con coscienza e scritto con criterio, ma senza guizzi particolari.

Doriana Legge ci fa prendere una piccola pausa con “Palinsesti”, arpeggi in delay, pad iridescenti di synth in sottofondo, voce alternativamente sospesa e teatralmente piena (anche troppo, a volte) accompagnata da cori leggerissimi, e poi si sale a cercare l’esplosione, il climax, che però non arriva: viene solo suggerito da una chitarra distorta e dall’andamento vocale (pesa forse il non avere in organico qualcosa di percussivo – una batteria – che sostenga il crescendo). I De Rapage, vincitori della kermesse, infiammano tutto con l’energica “Il Grande Rock In Edicola”. Sembra di essere tornati a cavallo tra gli anni 80 e 90, sommersi da riff in distorto sostenuto e batterie ossessive, dove rullo e charlie fanno da padroni, a combattere una guerra assai rumorosa con le voci, sguaiate e sporche, come ben si confà all’impianto ironico-divertito dell’ensemble. La potenza live della band è fuori discussione: granitici, anche se non danno molto di più dell’energia grezza che producono.

“Crazy Duck” dei Dem è una sorta di Blues che triangola tra percussioni povere e continue, riff elettrici pieni di ritmo e groove, e una voce femminile che non sbaglia una virgola. Esibizione stralunata e a mio parere molto, molto divertente, che si perde un po’ quando rallenta sugli accordi di chitarra ritmica – ma poi si riprende, folle come in partenza, in un inseguimento allucinato di chitarra e percussioni. Stravaganti il giusto per spiccare nella massa, orecchiabili quello che basta per farmeli riascoltare con piacere. Approvati. Di nuovo Rock energico, questa volta dai Too Late To Wake: “Smooth Body” parte infuocata, cassa in quattro, promettendo assai bene (zona Foo Fighters); poi rallenta, si appoggia su un Rock in inglese più smorto e banale, con una voce che, sebbene calda in basso, non brilla sulle alte. Niente di eccezionale, nel complesso, ma con qualche idea interessante sparsa qua e là.

Un intro sospeso tra gli anni 70 e gli Arctic Monkeys per i Ghiaccio1, che in “Roby” si lanciano in un brano veloce, con sezione ritmica indiavolata e una voce trasformista, che qua e là tocca la timbrica di un Giuliano Sangiorgi qualsiasi. Poi rallentano, si rilassano, e ripartono, con un basso che sembra rubato a prodotti vari di Lucio Battisti. Notevole il tentativo di miscelare mood e generi diversi in un brano di poco più di 4 minuti (la coda scivola verso sonorità Reggae, e aggiunge varietà all’esibizione). La canzone non rimane troppo impressa, ma nel complesso si fanno ascoltare con gusto. The Suricates aprono con un intro Noise a cui seguono arpeggi sognanti, in un racconto Post-Punk straniante e circolare (c’è un po’ di confusione in ambito vocale, ma verso la metà del brano la cosa inizia ad avere un senso e a suonarmi così com’è: una voce che grida, sporca, gonfia di delay, esagerata). Un delirio generale ammaestrato, che riesce a tratti ad ipnotizzarmi. Non male. 

Il Disco 1 si chiude con due extra firmati De Rapage che appaiono senza titolo: il primo, che dovrebbe intitolarsi “To Be Hawaii”, è una ballad in cui la band abbandona l’energia grezza del Rock italiano primi anni 90 per darsi alla leggerezza – sempre ironico-demenziale ovviamente. Devo dire che il pezzo sta in piedi anche musicalmente, con quel giro di chitarra facilissimo e per questo bello, paraculo ma bello. E mi sento di dire che avrebbe funzionato alla grande anche ad avere un testo più serio (ma non staremmo parlando più, probabilmente, dei De Rapage). Il secondo extra torna un po’ sul sentiero del già visto, si canta e si sbraita e si picchia e si ride, ritornelli da quattro accordi e strofe goliardiche, sempre suonando sporchi & granitici insieme.

 Passiamo dunque al Disco 2: ecco di nuovo The Suricates, stavolta alle prese con “New Islands”. Intro psichico e allucinato, qualche intoppo qua e là sul nascere nel reparto chitarre, per un brano che stenta a decollare, ma poi si riprende: lento, lungo, ipnotico. Soundscapes di pianoforti, chitarre che si rincorrono, ritmiche incalzanti. L’onda scende, poi risale. Strumentale ed allucinatorio. Torna Doriana Legge, stavolta con un bel palm mute ritmico di chitarre ad introdurre “Scambisti Alla Deriva”. L’impianto è abbastanza confuso, con qualche imprecisione sparsa. Si è sempre dalle parti di una canzone d’autore post: c’è molto Lo-Fi, c’è molta teatralità, manca forse un focus maggiore. Il pathos, invece, c’è tutto. “Lisergia” per i Ghiaccio1: abbandonate le velocità Indie-Rock, ci si butta su un simil-Western con copiosi bending e momenti di frizzante distorsione strumentale. Un po’ peggio, un po’ noia.

I Too Late To Wake iniziano epici e brillanti la loro “Grey For A Day”, un Rock lento e malinconico, che, sempre senza sorprendere troppo, si dimostra composta con mestiere, mentre la voce ancora pecca nel registro alto (purtroppo). “Ngul Frekt Auà”, dedicata agli “alternativi del cazzo con la barba”, è il secondo pezzo “ufficiale” dei sempre più ghignanti De Rapage. La musica s’è ammorbidita e l’intento ironico è più preciso e affilato. Rischiano più volte di scadere nel cattivo gusto tanto per, ma qualche colpo di reni all’ultimo secondo sembra salvarli (il ritornello in dialetto, ad esempio – e chissà poi perché). Mi avevano lasciato con una simpatia inspiegabile nelle orecchie, ritornano un po’ meno luminosi e un po’ più piatti i Dem, che in “Ready If You Want Me” abbandonano la (bella) voce femminile per un cantato maschile più piatto, e un registro, in generale, più seventies. Sempre minimale, sempre percussioni leggere, chitarre frizzante e voci, il brano, sebbene sia sempre fuori di testa e pieno di arzigogoli ritmici e strutturali che proteggono lo spettatore dal disinteresse eventuale, non riesce a rimanermi incollato come quello del Disco 1. Sempre più inglesi e sempre più compatti gli A L’Aube Fluorescente (e più me lo ripeto, più il nome mi sembra figo – fuori di testa, ma figo). “Lizard” è un fascio di luce coerente e orecchiabile, che mi fa muovere la testa a ritmo, scritto bene e con una voce davvero poco italiana. Anche qui, niente di particolarmente nuovo, ma il lavoro è fatto bene, e potrebbe bastare.

Li abbiamo inquadrati nel Disco 1, non fanno che confermarsi qui: The Old School si presentano nella loro “We Are The Old School”, un Rock’n’Roll come dio comanda, e non c’è davvero bisogno che vi dica altro – nel bene e nel male.  Chiudono il party, come sopra, i De Rapage, con due ulteriori extra: sempre Rock energico, sempre la demenza più spinta, con argomento, nello specifico, l’omosessualità e la terribile esperienza di terminare il rotolo di carta igienica (con una variazione-litania: “mestruo, assorbenti, ciclo, vomito”… ci siamo capiti). 

Concludendo questa lunga carrellata di presentazioni varie: la compilation di Streetambula sorprende, e molto, perché una qualità mediamente così alta non era preventivata. Certo, l’audio non è dei migliori, le imprecisioni ogni tanto si fanno sentire, e tante band magari devono ancora mettere a punto qualcosa nei reparti tecnici: ma l’inventiva, la varietà e la passione che si possono trovare dentro questa compilation dimostrano che in giro c’è veramente tanta gente che ha qualcosa da dire. Il futuro sarà fatto di miriadi di band, che vivranno in una galassia musicale sempre più ampia e variegata, e ognuno di noi avrà mille sfaccettature da scoprire, senza doversi per forza aspettare la grande band dei nostri tempi. Iniziamo a guardarci intorno: date un’ascoltata a questa compilation e potreste incrociare qualcuno che vi convincerà a seguirlo con curiosità. Non si sa mai.

Read More

Massimo Volume – Aspettando i Barbari

Written by Recensioni

La cruda realtà e la terrena poesia. Questo sono i Massimo Volume e lo si sapeva già. Non serve di certo il nuovo e ispirato episodio a raccontarci che cos’è questo tripudio di Post Rock viscerale, sempre più preso da raptus isterici, suoni spigolosi e ora contornato pure da una fredda lama elettronica. Emidio Clementi e colleghi non lasciano di certo spazio a voli pindarici e le loro parole “parlate” non distolgono lo sguardo da terra, un terreno ancora più arido, pronto a essere raso al suolo dai questi barbari. Gli occhi scattano verso il cielo solo per imprecarlo. Ma non è una raffica di bestemmie e urla forsennate, tutto è ben dosato e ragionato. Cuore, pancia e cervello lottano e si mescolano insieme come entità contendenti e complementari. Ad accogliere il ritorno della band bolognese ci pensa uno dei brani più interessanti e intriganti. “Dio delle Zecche” ruba le parole a Danilo Dolci e le modella in mezzo al vento   gelido di synth. La speranza è molto lontana, ma vediamo forse la timida luce di un Dio minore? Noi che accendiamo lumi per nasconderci le luci, più confortevole inselvarsi appiattandosi zecca.  Ma niente sospiri di sollievo, i Massimo Volume distolgono subito le rade illusioni con “La Cena”, rasoiata che taglia in due lo stomaco. “Aspettando i Barbari” è invece un brano lento e pesante, calibrato in ogni sua sillaba e arpeggio, le ritmiche di Vittoria Burattini giocano di dinamica senza abbassare mai la guardia e la sensazione di attesa (o di agguato?) aleggia nei quattro pesantissimi minuti. Cosa stiamo aspettando? Attendiamo un nuovo inverno per rimpiangere l’estate? O per progettare una rivincita? Per ora subiamo la certezza della lancetta che scorre e ci vede inermi. Pronti a essere invasi e stuprati da un treno ignoto.

I pezzi, nella classica tradizione della band, sono provocatori, pazzoidi, ricchi di citazioni più o meno dirette. Evocazione di un suono libero. Il grido selvaggio di chi può e vuole gridare con tutta la sua voce, ma questa voce si limita a parlare. Tanto questa metodica narrazione basta e avanza. Sprigiona la rabbia più profonda. “Vic Chesnutt” paga il suo tributo al tormentato cantautore statunitense, l’angoscia vibra nelle vene a ritmo di Noise e sonorità quasi Industrial. Una corona di spine, appoggiata sul palco, tra la chitarra e la spia, dona un immenso senso di vuoto, paragonabile proprio alla scomparsa di un artista a cui sei devoto. Anche la Dymaxion Philosophy del geniale architetto Richard Buckminster Fuller vive in questo disco (“Dymaxion Song”). DY (dynamic) MAX (maximum) ION (tension), nulla di più azzeccato potrebbe descrivere questo lamento costante. “Il Nemico che Avanza” cita Mao TseTung, invece “Compound” descrive la morte di Osama Bin Laden, agonia e un sorriso diabolico. Il male non verrà estirpato. Tanto vale conviverci, aspettandocelo alla spalle. “Silvia Camagni” è il richiamo più evidente dei vecchi Massimo Volume. Semplicemente una storia, semplicemente una poesia dentro la storia. Si lasciarono come tutte le cose destinate a dividersi, come il mare e la terra e conserva l’amore per quando fa freddo sono solo due gemme che nascondono dietro il fitto strato di polvere la loro lucentezza. La carne è raccontata da tutte le sue bruciature. Cicatrici che faticano a formarsi, lembi ancora sanguinanti al solo ricordo del taglio. Il suono è greve, cupo, martoriato e il basso di Emidio galoppa insieme alle sue narrazioni, mano nella mano giù negli inferi in un finale da incubo. Incubo da cui non ci svegliamo fino all’ultima nota del disco. “Da Dove Sono Stato” è la perfetta canzone per un lacerato e meditato addio.

Addio che sarà un arrivederci, con lesioni sulla pelle ancora vive. Con le orecchie stravolte e la bocca impastata anche se le parole sono solo ascoltate e non apriamo mai bocca. Perché anche se fa male, anche se spesso risulta sgradevole, il suono dei Massimo Volume non lascia mai indifferenti. E a casa mia ciò che ripudia l’indifferenza si chiama passione.

Read More

La Band Della Settimana: La Nevicata dell’85

Written by Novità

La Nevicata dell’85 nasce come progetto musicale da Ivan Cortesi (parole, voce, chitarra) e da Andrea Ardigò (batteria, pad). Inizialmente i due sviluppano l’idea di un combo strumentale dove i pezzi si muovono su vigorosi e repentini cambi di dinamica/atmosfera. La calma è rallentata e dilatata, cadenzata e apparente, portatrice di un’ invisibile tensione che sfocia in addominali escursioni rumoriste. Sono brani che sfidano il tempo e il suo scorrere. Colonne sonore di un osservare muto.

In pochi mesi si costituisce parte dello scheletro del progetto e matura la volontà e la necessità di protendersi e superare i limiti della formazione combo. La Nevicata si completa con l’arrivo di Davide Catoggio (basso e chitarra). Attecchisce simbioticamente il bisogno di ampliare i registri comunicativi trovando in un cantato, che è più voce parlata e urlata, il corpo e il fiato dei luoghi propri. Evocando Bergamo, le sue periferie e la sua provincia, i ricordi.

Il risultato è La Nevicata dell’85, sesta uscita per l’etichetta FUMAIO e primo capitolo per il gruppo. Album registrato nel maggio 2010, uscito nel gennaio/febbraio 2011 è animato da 10 pezzi che solcano atmosfere post-rock, noise, ambient per approdare in lidi minimali. Canzoni che forzano la rotta insistendo in strutture e traiettorie ora scandite da parole e ora abbandonate a sé e al proprio lento disvelarsi.

Quest’anno arriva invece Secolo e il secondo disco della band non solo conferma le promesse dell’esordio ma sembra lasciar intravedere una luce ancor più splendente del previsto per la band italianissima su cui siamo pronti a scommettere fin da subito!

Ecco a voi il Post Rock Crepuscolare più freddo che avete mai ascoltato.

Facebook
My Space
Youtube

Read More

La Nevicata dell’85 – Secolo

Written by Recensioni

L’inverno sta per arrivare gelido a spezzare tutte le nostre modaiole sensazioni estive, il freddo suona Post Rock come La Nevicata dell’85, Secolo è il secondo disco della band che anticipa quello che sarà l’inverno “musicale” più freddo e impegnativo di sempre. Nascondersi dietro lo scroscio velenoso delle chitarre nervose di Secolo equivale a buttarsi senza ragione nel mezzo di un uragano, il cuore smette di pulsare, l’uragano ti divora. Il confine tra immaginazione e realtà si spezza, il sound adultero de La Nevicata dell’85 inizia a divorarti dall’interno, poi soltanto movimenti lenti e viziati. In questo autunno monopolizzato dai grandi e (a volte) finti ritorni Secolo trova spazio spingendo forte sulla leva della bellezza. Otto pezzi tirati come pochi nel nostro bel paese, otto pezzi dalle intenzioni bastarde.

Apertura che penetra nelle gelide ossa con “Attuale”, una lieve sensazione di solitudine, poi il nulla. Continuo a vagare nel buio seguendo uno spiraglio di luce che non raggiungerò mai, molto Massimo Volume dentro, le batterie piangono di rabbia, le chitarre scrivono dolore nell’aria, la voce urla, “Nostalghia”. Fuoco, il desiderio di un caldo fuoco. Poi “Secolo”, costrizione alla neve, la montagna, ancora tanto freddo. “Frammenti”, pezzi di vita! Basso meticoloso e puntuale, manca l’aria. Tutto intorno diventa un maledetto e incontrollabile caos in “Diorama”, corro ma non saprei proprio dove andare, vorrei dare forma al mio dolore se solo sapessi come fare. Ancora quello spiraglio di luce che cerca di insegnarmi la strada, che vuole scaldare il sangue ormai gelido in “Terra Che Attendo”. Le chitarre mi stordisco e non poco. “Sabato” e fuori piove ininterrottamente, soltanto martellante pioggia che sbatte contro un viso senza speranza, poi la sfido, non ho paura di niente ormai. Adorabili le chitarre flagellate da una impetuosa batteria. La fine della storia, “Terra Che Trovo”, ho perso ogni piccola possibilità di salvezza, scoppio di emozioni contrastanti, la paura si trasforma in felicità, ho goduto come uno sporco maiale. Provo quasi vergogna.

Ci sarebbe troppo da imparare dal disco de La Nevicata dell’85, ci sarebbe anche troppo da paragonare, certamente non abbiamo davanti un opera prima per quanto riguarda l’originalità ma non avevo bisogno di roba nuova quando mi sono cimentato nell’ascolto di Secolo, cercavo quello che poi faticosamente e con tanta passione ho trovato. Un disco intenso con il potere di renderti partecipe dei brani, una storia fredda in grado di coinvolgere completamente l’ascoltatore proiettandolo nelle atmosfere tristi del disco. Secolo è il disco dalle forti sensazioni, bisogna gustarlo nei minimi particolari e con un volume sopra la media per coglierne le molteplici sfaccettature. La Nevicata dell’85 registra un disco sopra le righe, tutto il resto scivola leggero come una foglia cadente che ci prepara ad un lunghissimo inverno Post Rock. Per fortuna un disco italiano, teniamocelo stretto stretto.

Read More