post-rock Tag Archive
Recensioni | Giugno 2016
Never Trust – The Line (Alternative Rock) 6,5/10
Energico Punk’n’Roll influenzato dai Paramore degli inizi e dalla melodia acida dei Guano Apes. Il timbro camaleontico di Elisa Galli conferisce ai brani una marcia in più. In “Turmoil” aleggia lo spettro dei Lacuna Coil, aprendo le porte ad influenze Gothic che hanno un senso compiuto nel contesto del brano. Peccato che le cartucce più spinte vengano sparate tutte nell’arco dei primi pezzi, ammorbidendo troppo il sound col passare dei minuti.
[ ascolta “A.I.M.B.” ]
Anadarko – Tropicalipto (Post Rock, Noise) 4/10
Gli Anadarko sono un trio di Trieste e propongono un Post Rock molto spigoloso, fatto da riff netti e decisi ripetuti in loop, vitalizzati ogni tanto da influenze Jazz. Quasi tutti i brani hanno lunghi momenti di ripetizione, ma risultano monotoni non avendo molte stratificazioni sonore e cambi di ritmo. Questo fa si che non si riesca mai a catturare l’ascoltatore e trasportarlo nel mondo raccontato. La ripetizione non genera ossessione, i suoni non ti lanciano nel cosmo o ti rinchiudono in un quadro post apocalittico. La sensazione e che ci si trovi davanti a brani figli di sessioni di improvvisazione piuttosto che a lavori rifiniti e cesellati da sofisticati incastri sonori. Le basi ci sono ma andrebbero esplorate e ampliate.
[ ascolta “Aterfobia” ]
Hoax Hoax – Shot Revolver (Post Rock, Noise) 4/10
L’ambizione di questo progetto è strettamente legata alla dimensione live, perchè è quella di creare un palcoscenico globale dove ciò che viene offerto per l’esperienza è al punto di incontro tra la musica degli Hoax Hoax, le video proiezioni e la luce. Nel loro Post Rock ci sono tanti sconfinamenti, come col Noise di “Huacos”, ma talvolta nettamente fuori contesto. Nel complesso quello che manca non è un senso logico ed organico, ma è un lavoro che senza il contesto multimediale non può essere apprezzato a pieno.
[ ascolta “Ablution” ]
Light Lead – Randomness (Dream Pop) 6/10
I bresciani Davide Panada, Beppe Mondini e, soprattutto, la voce di Michael Israeli confezionano questo Ep d’esordio dal sapore vagamente Beach House, anche nello stile vocale molto simile a quello di Victoria Legrand, ma con una maggiore semplicità e, purtroppo, decisamente meno talento. Eppure le cinque tracce di Randomness rapiscono già ai primi ascolti, grazie a suoni incastonati alla perfezione tra i vuoti delle corde vocali e a melodie eteree e rilassanti. Assolutamente da rivedere sulla lunga distanza, partendo dalla straordinaria opening “We Won’t Get Lost”.
[ ascolta “We Won’t Get Lost” ]
Rufus Party – Connections (Alternative Rock) 3/10
Gli emiliani Rufus Party gonfiano il proprio ego ri-presentandosi con un’opera che vuole essere una sorta di concept sul collegamento che intercorre tra gli uomini e la realtà attuale, sulla saldezza dei rapporti e delle relazioni che si instaurano tra i diversi attori che solcano il palco della vita. Una sorta di concept che però concept non è e che, dal punto di vista musicale, miscela Blues, Soul, Grunge in un miscuglio informe, banale, mal costruito e dal sound che oscilla tra inutilità e mediocrità. Cantato interamente in inglese, Connections è tutto quello di cui non avevamo bisogno, gradevole come una rassegna di band locali a costo zero alla sagra della birra di un paesino di provincia.
[ ascolta “Mothership Connections” ]
Mandela – Paint-sweating Hands (Alt Jazz) 7/10
Ottimo e purtroppo breve concentrato di Alt Jazz sinuoso e avvolgente come le spire di un grosso, lucido serpente. I cinque Mandela ci trasportano sul fondo di un oceano che si agita maestosamente e con placida grazia, tra il torrido di richiami esotici e il rarefatto di atmosfere nebbiose. Tastiere e synth mai fuori luogo, batterie che sanno venire in primo piano per poi arretrare, chitarre frizzanti e inserti di fiati che pennellano sapienti. Più cool di così si gela.
[ ascolta “Massive” ]
Weird Black – Hy Brazil (Psych Pop) 7/10
Italianissima formazione dedita a esperimenti lisergici ma senza prendersi troppo sul serio, che alla lezione Neo Psych dei C+C=Maxigross applica l’approccio scanzonato e Lo Fi di Mac DeMarco e una mollezza Folk da menestrelli d’altri tempi, elettrificata nei momenti opportuni, ad aprire parentesi sinistre (“In The Grave Of Lord”) oppure semplicemente a ricondurci nel presente, evitando abilmente di cadere in mere citazioni.
[ ascolta “Despite The Gloom” ]
Leave The Planet – Nowhere (Dream Pop, Synth Pop, Nu Gaze) 6,5/10
Duo londinese dalle origini italiche, i Leave the Planet sono Jack ai riverberi e Nathalie ai sussurri Shoegaze. Il Dream Pop del loro EP di esordio cavalca l’onda sintetica revivalista à la Slowdive, per sei gradevolissime tracce fatte di molti layer, soffici e giustapposti. L’assaggio stuzzica il palato, non resta che augurarsi che alla prova in full-length i due arrivino con qualche elemento in più a personalizzare la propria cifra stilistica.
[ ascolta “Forever” ]
Femme – Debutante (Pop, Dance, EDM) 6,5/10
Un pixie cut rosa candy che campeggia sulla copertina del suo debut, ritmi easy da dancefloor sempre al limite del pacchiano e voce squillante e zuccherosa che ogni volta salva il tutto, specie quando si placa nelle ballad: è questa la formula di Femme, che si va a collocare nel folto esercito delle eroine del Pop danzereccio internazionale, per portarci una manciata di singoli appiccicosissimi, un’estetica accattivante e una buona dose di ironia.
[ ascolta “Light Me Up” ]
23 and Beyond the Infinite – Loath: Insane Mind Festival (Noise, Psych) 5,5/10
Quella della formazione beneventana è una psichedelia che deve molto alle origini del genere, chitarre distorte che si afflosciano narcotizzate, le liriche in inglese del cantato allucinato, esotismo quanto basta per catapultarsi nei mitologici 60’s. “From The Future to You” si sbilancia verso un Garage Rock oppiaceo ma è una promessa ingannevole: ci si gode il trip ma si resta insoddisfatti quando al termine dell’album appare chiaro che il viaggio è verso il passato, ed è di sola andata.
[ ascolta “From The Future to You” ]
Mary in June – Tuffo
“La necessità di seguire i nostri impeti ci ha reso esili e stanchi ma ha anche illuminato con consapevolezza e determinazione le nostre vite”. Sono alcune delle parole che i Mary in June usano per descrivere il loro nuovo album Tuffo, che arriva cinque anni dopo l’EP Ferirsi. Difficile trovare una definizione migliore, Tuffo è un album verace, che ti trasporta come un direttissimo nella provincia, quella desolata e assonnata, dove i confini sono labili, le emozioni si disciolgono e si mischiano, e le vite delle persone scorrono lente e immutabili. I Mary in June, non intendono sopportare oltre e lanciano la loro personale bomba irrompendo in questo moto perpetuo con energia e decisione. Nei dieci brani di Tuffo, infatti, c’è il Rock, quello emozionale e tirato di gruppi come Fine Before You Came e Gazebo Penguins, c’è il racconto frammentato e per immagini dei cantautori degli anni zero come Vasco Brondi, ma soprattutto c’è la regia del maestro Giorgio Canali in veste di produttore. Tutti questi elementi, coadiuvati da un forte impeto espressivo, si riversano sui brani che sono carichi, passionali, incazzati quanto basta. Musicalmente vitali, ricchi di saliscendi melodici, accelerazioni ed esplosioni ritmiche. La voce è sempre tirata, acre, incazzata. Si percepisce la volontà di esprimersi a pieno, senza vincoli e compromessi, ogni volta scegliendo quale natura far emergere. Ci troviamo, così, di fronte ad un album che da un lato definisce chiaramente l’identità del gruppo, ma che al tempo stesso mostra eterogeneità e varietà. Molte sfaccettature della stessa medaglia: quella elettronica in “Dimenticati”, quella emo in “Nuova Fine”, e quella classica e rock in “Combustibile”. Senza dimenticare di rallentare e tirare il fiato con ballad come “Perfetto” e “Qualcuno con cui Correre”. Tuffo è un album genuino, viscerale, dove le emozioni ti esplodono dirette in faccia, ti travolgono e ti conquistano. Ti viene voglia di urlare insieme a loro, di correre sulla scogliera e lanciarti ad occhi chiusi verso il mare.
Explosions in the Sky – The Wilderness
Oltre quindici anni di carriera alle spalle, sette album all’attivo, quattro colonne sonore tra cinema e TV e la consacrazione nell’olimpo delle migliori band post rock di sempre. Cos’altro chiedere agli Explosions in the Sky dopo un lavoro eccellente come Take care, take care, take care, la cui apertura e rottura col passato aveva cominciato a scalfire l’unicità dei Mogwai? Ebbene, le vie del Post Rock sono infinite così come sembrano essere le frecce nella faretra di Hrasky e soci che, senza troppi fuochi d’artificio, dopo cinque anni dall’ultimo lavoro in studio sfornano The Wilderness.
Un titolo secco e preciso e una scelta non usuale per i quattro texani che apre le porte della nostra percezione su una landa selvaggia che però, a detta dello stesso Hrasky, non proviene da nessuna esperienza di vita à la Into the wild e si configura come mezzo per creare la sensazione di un viaggio dove le cose non vanno nel modo in cui ti saresti aspettato.
The Wilderness, seppur ben ancorato all’aspetto strumentale chitarristico e marchio di fabbrica della band, spesso riluttante ad un uso massiccio dell’elettronica, appare come un album innovativo. L’accoppiata “The Wilderness” – “The Ecstatics” racchiude il core sound dell’intero lavoro ed è qualcosa di sorprendente nel suo essere così lontano e allo stesso tempo così vicino alla loro tipica eleganza. Lungo le nove tracce di The Wilderness si possono apprezzare dei richiami vaporosi agli anni Settanta (“Logic Dream”) che ne dimostrano la profondità e l’accuratezza sonora. “Disintegration Anxiety”, che divide il tutto a metà, è una corsa contro il tempo in pieno stile EITS, “Colors in space” conclude la sua cavalcata trionfale in un’estasi mistica che apre alla splendida, finale e riflessiva “Landing Cliffs”.
Un sound positivo che conduce per mano tra luoghi, persone, ricordi, parole, voci e rende The Wilderness un disco satellite rispetto ad un ascoltatore ormai in continuo movimento.
Le parole di Michael James su John Congleton, storico produttore della band , ben fotografano la situazione della band e la gestazione di questo disco: “Ok John, sei stato un tipo strano per tutto questo tempo. Facciamolo ancora più strano.” E l’abbiamo fatto!.
Se il Post Rock è ancora un pasto digeribile è anche merito loro.
Flowers and Paraffin – Ricordati di santificare le feste
Pubblicato il 27 Marzo, domenica di Pasqua, Ricordati di Santificare le Feste è il secondo lavoro dei Flowers and Paraffin, giovane band campana che due anni fa realizzò un breve Ep (5 pezzi in 12 minuti) che faceva ben sperare per questo seguito. I sei ragazzi provenienti dalle province di Salerno ed Avellino in questo nuovo lavoro, che si sviluppa in 7 pezzi che scorrono via in 19 minuti, non solo non hanno disatteso queste speranze ma sono riusciti a fare un buon passo avanti evolvendo il loro sound. Questo secondo capitolo porta infatti a maturazione la ricetta del buon esordio accompagnandola a soluzioni strumentali ora divenute più ricche soprattutto nei momenti in cui la band cerca soluzioni diverse (Post Rock, Math Rock, Shoegaze) che diventano ben più dei brevi inserti che si potevano trovare in Caduta e che suonate con la loro inclinazione Emo Post-Punk (senza dunque perdere in immediatezza) portano ad un buon guadagno in intensità. Non manca inoltre una crescita anche nelle liriche sempre basate sulla sublimazione di confusione, incertezze e paure della terra di mezzo dei ventenni nonché sull’immancabile ed altrettanto confuso argomento amore, che in questa seconda prova, nonostante qualche piccolo passaggio a vuoto, guadagnano comunque indiscutibilmente in spessore.
In quasi ogni brano della scaletta vedremo alternarsi momenti musicalmente soffusi ad altri ben più tirati ad accompagnare liriche ora espresse con uno spoken abbandonato a sé stesso ora urlate come per liberarsi da pesi troppo pesanti da portare per una sola schiena (come dichiarato nella conclusiva “Maledetta Gioventù”). Troveremo i momenti migliori nelle ben coese “Conta”, “Cosmo (Andrea)” e “Autoritratto”, brani dove l’incastro tra musica e parole risulterà pressoché perfetto, dove le chitarre ora carezzevoli ora graffianti pur facendo la parte del leone non ruberanno la scena a tutto il resto: una sezione ritmica sempre puntuale e pronta a pestare nei momenti più tirati, un synth che decora con precisione e senza risultare invasivo. In questi brani, che sono anche quelli dalle liriche più intense, troveremo gli incontri meglio riusciti tra l’innato animo Emo Punk della band e le deviazioni in altri territori di cui si parlava sopra e sarà sicuramente possibile sentirci una riuscita fusione, tra i tanti, di Marlene Kuntz, Fine Before You Came e Massimo Volume.
L’idea di terapia di gruppo tra amici segnalata dalla cartella stampa descrive bene l’intenzione dei sei ragazzi e si fa viva anche durante l’ascolto, i testi sono spesso delle confessioni, delle (ri)scoperte di sé che la band accompagna con complicità e riuscendo a creare una discreta tensione, considerando tra l’altro che stiamo parlando di ragazzi ancora giovanissimi che ad oggi in due lavori ci hanno regalato mezz’ora di quel che sono, mezz’ora di questa sofferta crescita che li porterà ad essere quel che saranno.
In estrema sintesi: promossi.
Atom Made Earth – Morning Glory
A distanza di due anni da Border of Human Sunset tornano i marchigiani Atom Made Earth con il loro Progressive 2.0.
Ambient, Post Rock e Psichedelia si rincorrono in Morning Glory, uscito il 7 Gennaio 2016 per Red Sound Records e album che si allaccia all’episodio precedente per stile e scansione ma che segna una decisa falcata in avanti per la band.
Quando si va a ficcare il naso nell’enorme calderone del Post Rock si rischia spesso di bruciarsi, andando ad incensare lavori che, seppur qualitativamente validi, peccano enormemente di originalità e personalità. Tutto questo è l’esatto contrario di ciò che gli Atom Made Earth trasmettono ad un primo, superficiale, ascolto. Il sound è vario e balza sapientemente tra un’epoca e un’altra senza sbavature. Dalle tiratissime ed esplosive atmosfere in stile Explosions in the Sky e Mogwai di “Thin” e October Pale si passa a “Reed” al cui interno respirano chiaramente i Public Service Broadcasting. Ma è con estrema scioltezza che i ragazzi sanno tornare agli anni ’70, quelli che hanno visto nascere il genere: dagli Arti e Mestieri o Area di “Baby Blue Honey” si passa a certe suite stile Colosseum/Caravan di “Stac”. La lista di reminders potrebbe allungarsi ma ciò non toglierebbe freschezza all’album, solido del suo personalissimo trait d’union progressivo.
Andando più a fondo, però, ci si accorge che la volontà della band anconetana non è quella del mero esercizio di stile o quella di compiacere i maestri quanto piuttosto quella di creare un proprio linguaggio adatto ai complicatissimi anni ’10. Parlare ancora oggi di Progressive classico sarebbe anacronistico e gli Atom Made Earth ne sono consapevoli perciò decidono che la creazione di nuove tematiche debba ripartire proprio da un’epifania come la gloria del mattino, in qualunque accezione la si voglia interpretare.
Lo stile a cavallo tra varie decadi trova una nuova via d’uscita in un Post Rock da soundtrack che ben si adatterebbe, per restare fortemente attaccati al presente, ad una serie televisiva americana.
La strada è lunga ma il bagaglio è ben pieno. Sentiremo parlare di loro.
Shut Up Much – Rapporti di Forza
Nati nell’autunno del 2011 gli Shut Up Much fondono una moltitudine di generi, spaziando dall’ Elettronica al Post Rock, una mistura che dà vita a Rapporti di Forza, un lavoro incentrato sui rapporti interpersonali e sulla fragilità degli stessi. Un concept ambizioso e fuori da ogni stereotipo.
Il disco prende piede con “Molecola”, scandita da una batteria tombale e dalla voce profonda di Antonio. Lo scenario è meno asfissiante in “Xanax”: i toni vorrebbero rilassarsi, ma permane un’atmosfera ipnotica in un cui la tensione è tangibile. “Nichilismo” parte con un piglio Dance, si evolve nella New Wave dei Joy Division e, a conti fatti, è vicinissimo allo stile dei Subsonica. Quest’ultimo tratto risulterà dominante anche nella seguente “Il Silenzio di Much”, accostando alla citata influenza una pennellata Dark Ambient. Andando avanti ci muoviamo tra la falsa spensieratezza di “Pop TG”, l’Industrial tribale di “Pope Nope” e le chitarrone corrosive della title track, a cavallo tra Rammstein e Franz Ferdinand.
Rapporti Di Forza è la sagra delle buone occasioni mancate. Molta carne al fuoco. Pochi concetti sviluppati nella loro interezza. Conto di ascoltare in futuro un qualcosa di meno abulico generato da questi ragazzi di Salerno, forte del fatto che si scorgono spiragli positivi disseminati qua e là all’ interno dell’album.