Vito Solfrizzo, voce e basso, Cristian Fanizzi, chitarra, Alessandro Spenga, batteria, e Domenico Lippolis, piano, hammond e synth, formano i Lorian, giovane gruppo barese, che dall’inizio del 2012 propongono, assieme ai loro brani originali, anche i grandi successi del passato (Pink Floyd, The Police, U2, Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Santana). Una demo, la loro, formata da tre brani: U.R.A. (Utopia Realmente Astratta), L’Ombra del Sole e Gladio, dove il rock, di stampo assolutamente classico, è il genere predominante, con tinte di progressive e qualche puntino di funk. Buoni i soli di chitarra, gli arrangiamenti e l’uso dei cori. La parte vocale, invece, rimane sempre un po’ standardizzata e uguale a se stessa, quando potrebbe andare oltre le proprie capacità, sperimentare nuovi colori e modi di esprimersi. La strada è ancora lunga, ma i migliori amici per i giovani musicisti sono il tempo, la sperimentazione, totale, perché no anche sfrenata e lo studio, il resto è solo fortuna.
progressive Tag Archive
Jaspers – Mondocomio
Premessa: ho visto i Jaspers live, un venerdì sera in cui non avevo nient’altro da fare. Ci sono andato conoscendo solo un pezzo loro, Palla di neve, di cui avevo visto di sfuggita il video (orrendo). Il brano in questione, secondo il sottoscritto, è una ballad pallosissima (mi si perdoni l’espressione non propriamente aulica). Capirete quindi il mio stato d’animo nell’entrare nel locale rischiando una rottura di palle infinita, aspettando questo gruppo stranissimo che si maschera per suonare, stile Slipknot de noantri, e poi produce un pop super-italiano, super-melodico. Ero un po’ interdetto, e non sapevo cosa aspettarmi – ma se avessi scommesso, avrei puntato sulla rottura di palle.
E invece i Jaspers mi sorprendono. Una presenza scenica eccezionale. Una bravura tecnica invidiabile. Si lanciano in lunghissimi brani-follia, uno più pazzo dell’altro – e qui la parola chiave è pazzo. Sì, perché poi scopro che i Jaspers (che prendono il nome da Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco) hanno una loro missione, una loro ricerca: “chi è il pazzo? Chi esplora la follia o chi si nasconde dietro a mille maschere, in nome di una “normalità” fatta di castrazioni e compromessi?” (parole loro).
Insomma, oltre ad avere (pare) le idee chiare, fanno pure un concerto coi contro-cazzi, e scusate il francesismo. Intensi, coinvolgenti, girano per la sala, si dimenano, e in tutto questo suonano benissimo, ognuno il suo: batterie precisissime, tastiere onnipresenti, chitarre avvolgenti, e poi la genialata finale, le due voci, vero punto di forza di tutto l’ensemble. Si mischiano perfettamente, si rispondono, si inseguono.
Ottimi, davvero.
Poi però torno a casa. E mi ascolto il loro disco. E sapevo, giuro, lo sapevo: sapevo che i Jaspers avrebbero rischiato molto nel fissare quel delirio su un supporto qualsiasi. E avevo ragione.
Il disco, è indubbio, è fatto bene (anzi, molto bene). Ma senza l’impatto, senza la pressione, suona un po’ vuoto.
Cerco di spiegarmi meglio.
I sei Jaspers hanno diversi punti di forza, ma li confondono. Non scelgono una strada, ma diverse, e questo, secondo me, li penalizza. Sono tecnicamente ineccepibili, ma a volte il mettersi in mostra, su disco, annoia. Sono simpatici e tentano la strada dell’umorismo, a tratti demenziale, spesso più teatrale, ma su disco ovviamente perdono tantissimo (sono sempre dell’idea che di gruppi come EELST ne nasca uno su un milione). Tentano, come prima accennavo, le ballad, cercando (e non ne fanno mistero) un’esposizione e un’attenzione mediatica che credono (e giustamente, anche) di meritarsi, ma ne escono maluccio – Palla di neve, dai… sembra una versione degli Io?Drama immersa nell’immaginario posticcio dei Lacuna Coil…
E c’è da dire che i Jaspers hanno un curriculum esagerato: hanno studiato al CPM, sono stati formati da Mussida (o chi per lui), hanno vinto una quantità di concorsi, hanno persino fatto un party al Just Cavalli per i 10.000 fan su Facebook (con ospiti di livello, tra cui Lola Ponce e Patrick, che non so chi sia, ma immagino non l’amico di Spongebob). Per cui, cercate di capirmi: sono molto combattuto nel giudicarli, e oscillo tra una passione (controllata) per il progetto e una (non proprio lieve) stroncatura.
Quindi?
Quindi il consiglio è: andate a vederli da vivo. Fatevi trascinare. Non fidatevi dei video, dei singoli, del curriculum, del disco. Immergetevi nel Mondocomio: ma fatelo faccia a faccia coi brutti musi (mascherati) dei Jaspers. Questo è quello che mi sento di dirvi. Poi so già che il disco farà faville in tante delle vostre orecchie, ma dicono che il mondo sia bello proprio perché vario…
Valter Monteleone – Hill Park
Oggi mi trovo a recensire un polistrumentista, Valter Monteleone, con un esperienza pluriennale come session musician. Ma che pluriennale, decennale è l’espressione giusta. Si decennale. La sua carriera da chitarrista, bassista e batterista ha inizio nellontano 1967 quando comincia la sua esperienza da turnista in varie formazioni pop italiane di spicco come: Nada Malanima, The Showmen, Nini Rosso, Ombretta Colli, Carmen Villani, Lucio Dalla, Sergio Bruni, Aurelio Fierro, Rita Pavone, Teddy Reno, Betty Curtis.Sicuramente anni di formazione e di pura esperienza visti i nomi e visti i tempi, d’oro appunto. Personalmente la musica leggera Italiana fa inacidire il mio stomaco e mi chiedo cosa mai possa venir fuori da questo disco. Ma soprattutto, perché l’ hanno inviato a Rockambula?!?! Non capisco cosa c’entriamo noi Rocker con la musica pop per l’aggiunta italiana. I dubbi mi assalgono e l’unico modo per toglierli dalle scatole è infilare il CD, Hill Park,nell’HiFi e pigiare su play.
OK allora parto. La prima track è Bossando, il richiamo al latin jazz è immediato. Subito, i primi accordi in levare lasciano alla fantasia lo spazio di una calda spiaggia sudamericana con l’aria calda che ti sfiora la pelle e il tempo inizia a dilatarsi intorno. E’ Jazz, altro che musica leggera italiana, altro che pop. Questo è jazz!!!
Nel 1994, il nostro Valter, inizia la sua avventura jazz che lo porterà a suonare la batteria in varie formazioni, da una Big Band, la Taras Jazz Forum Orchestracondotta dal maestro Domenico Rana all’Academy Jazz Trio.Non faccio elenchi ma la storia continua ed è piena di partecipazioni rilevanti. Inizia a uscire fuori lo spessore di quest’artista, di queste note. L’armonia di questa composizione. Il disco di una vita lo definirei a primo acchitto. Dentro c’è tutta la passione per la musica, lo studio, l’impegno. Roba seria insomma. La tracklist procede con Castle in cui una voce profonda (alla Paolo Conte) accompagna la musica che ci trasporta sempre più dentro questa esperienza. Si prosegue con Hill Park, traccia che titola l’album, che inizia con un temporale in sottofondo, tuoni e acqua a catinelle danno il la alla tastiera e alla chitarra. Molto New Age. Tutto accompagnato dalla sua calda voce. Scorre così quest’album, splendidi giri d’accordi che creano la perfetta atmosfera per qualcosa di intimo, di personale.
Tutto nei minimi dettagli. Note che scorrono lisce senza intoppi e ritmi studiati a pennello. Forse manca qualche virtuosismo di quelli da far drizzar la pelle. Forse si potrebbe anche dire che qualche “notaccia” in più sarebbe stata più viscerale. Ma alla fine che cos’è il jazz?! Nessuno può dirlo e solo l’ascolto può illuminarci.
Soundrise – Timelapse
Come possiamo porci nei confronti di un’allergia? Beh io me ne porto dietro ormai parecchie, per fortuna nessuna grave, ma pare che il mio corpo rigetti sempre di più con il passare degli anni. Pelo dei gatti, paracetamolo, graminacee. Ma anche le versioni di latino, le serie televisive (Twin Peaks a parte), i Radiohead. E rimanendo in tema musicale il progressive rock.
Questa mia ultima irritazione forse deriva semplicemente da una scottatura. E’ probabile che a 17 anni quando ho iniziato a strimpellare il basso, tutti gli allievi della scuola di musica che frequentavo mi facevano notare quanto bravi fossero con i loro strumenti infittiti da un numero esagerato di corde a riprodurre fedelmente tutto Metropolis dei Dream Theater. Beh potete capire come si possa sentire frustrato un ragazzino che faceva fatica persino ad andare a tempo dietro Jailbreak degli AC/DC.
Da questa premessa si capisce quanto sia stato arduo l’ascolto di questo album dei triestini Soundrise. Timelapse si presenta come mix di hard e progressive rock della durata di 50 minuti.
Massaggio lentamente le mie orecchie e le getto in pasto ad un sound a loro avverso. L’attacco è deciso, non ci sono dubbi: rullatoni e doppia cassa, ritmiche storte, intrecci complicati e tastierismi esagerati. Ma anche una buona dose di melodia, ben interpretata da Walter Bosello (anche alle tastiere), che devo ammettere esegue un ottimo lavoro compositivo, oltre che nell’esecuzione vocale. Forse il mio cervello limitato non riesce ad apprendere, a viaggiare insieme a queste musiche così contorte. Si disperde in un sentiero pieno di deviazioni e curve, così irreale davanti miei occhi. Lontano dalla terra e dal cielo che conosco. Non riesco a toccare né con mano, né con l’aiuto dell’immaginazione i luoghi delineati nelle note dei Soundrise (“all that I can see, I try to keep it near and all the things I keep they seem to slip away” la prima frase di Time is mine pare capire il mio stato d’animo).
In Higher Ground la band conferma di essere strepitosa tecnicamente, ritmica funkettona stortissima e una tastiera molto misteriosa rimandano alle vecchie glorie dei Rush. Give Up è melodia pura e ha il sapore di un ballatone hard rock di fine anni 80 con un assolo bello ruffiano e piacevole. Sulla stessa scia procede Learning, la strada si fa meno faticosa la meta sembra ora meglio definita. Ma i ragazzi ad andare dritti non ce la fanno e l’inizio di More presenta già salite ostiche e prepotenti ostacoli lungo la strada, sempre più difficili da evitare in King Time’s Dilemma. Macigni pesantissimi crollano sulla mia testa, ma rimane la forza di una band che (al di la delle mia difficoltà) riesce ottimamente a intrecciare durezza, melodie, repentini cambi di tempo e di dinamica.
La band è ottima, dunque nessun dubbio. Ha lavorato tantissimo (quasi 10 anni!) su questo progetto e ha ottenuto un risultato straordinario: compatto, vario e deciso. Sicuramente un gran bell’esordio che sarà molto apprezzato dagli appassionati delle sonorità prog-metal. Certo, non è un disco da cui si possa salvare un singolo o un disco da ascoltare mentre si prepara cena o nel traffico di rientro da lavoro. Non è il disco che mi fa viaggiare sconnettendo il cervello o meglio connettendolo al cuore. Mi ritrovo costretto a prendere il binocolo per osservare lontano. Al di là delle montagne e delle nuvole, aguzzo la vista in cerca di qualcosa che alla fine dei 50 minuti non ho proprio trovato.
Mario Cottarelli – Una strana commedia
Si chiama “Una strana commedia” ed è l’ultimo lavoro di Mario Cottarelli. Una produzione giunta a quattro anni di distanza da “Prodigiosa macchina” per regalarci un universo sonoro più accattivante ed orecchiabile. Il disco apre bene con il pezzo di circa 10 minuti che è anche il titolo del nuovo lavoro. Un intro sorprendente, in grado di trascinarti nel vortice tipico delle sonorità progressive. Poi, nei minuti successivi, si sente netta l’influenza dei mitici Jethro Tull. Una chicca per appassionati. Segue “L’occhio del ciclone”, mix esplosivo di alti e bassi ben orchestrati, tra i quali, spuntano tastiere taglienti tipiche del genere. Il terzo pezzo, “Corto circuito”, nei testi, richiama le tematiche ascoltate in “Pensiero dominante”, ma questa volta, il ritmo è molto più incalzante, notevoli anche gli intermezzi di chitarra distorta. Più vicina alle tendenze pop o comunque meno infarcita di sonorità progressive, la quarta traccia, “Bianca scia”. Chiude il lavoro, un pezzo più fresco e giocoso “L’orgoglio di Arlecchino”, un brano di 12 minuti strumentali che regalano anche qualche sorriso. Un gesto spontaneo nato dalle strane alchimie della musica di Cottarelli che appunto, descrive con le note – ditemi voi se questa non è una dote – una delle maschere più amate del carnevale. Sullo sfondo resta un lavoro degno e complesso, decisamente dedicato anche agli appassionati del genere, che fa onore alle grandi capacità di composizione di Cottarelli. Non solo, mentre ascoltavo, mi è venuto più volte in mente che questo disco, come altri dell’artista cremonese, potrebbe diventare ancora più incisivo, se i brani venissero liberati dei limiti del sintetizzatore e venissero eseguiti da musicisti singoli. Suonatori dotati di strumenti veri e soprattutto, di carattere musicale, per lo meno, come quello di Cottarelli. Insieme, per imboccare una versione “live”, di questo e degli altri lavori. Un invito senza pretese, ma che spero venga accolto.