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Nagasaki mon amour || Dieci artisti giapponesi che dovreste conoscere

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Allan Glass – Magikarp

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Per il duo piemontese Marco Matti e Jacopo Viale, dopo la buonissima prova dell’ep Guzznag, è giunto il tempo dell’album che li dovrebbe introdurre definitivamente nell’oscuro mondo dell’underground italiano. I due ragazzi pescano tantissimo da un passato che ha il sapore di un Garage sporchissimo (“Betulle”), figlio dei decenni Sessanta e Settanta, tra Iggy Pop e The Sonics ma questo lavoro di riscoperta della lordura che fu è messo in atto con uno spettro di modernità e rinnovamento senza eguali. Un’inclinazione fresca che rinvigorisce lo spirito, anche quando le chitarre Funky danzano selvaggiamente con una sezione ritmica tribale che non lascia scampo neanche ai più rigidi pezzi di legno (“La Tua”) oppure quando si resta schiacciati contro il muro da uno tsunami Impro Folk Rock che suona come un putiferio incontrollato e caotico, almeno all’apparenza. Quello degli Allan Glass non è solamente un Alternative Rock sparato a mille chilometri l’ora, con un tripudio Noise a calpestare, soffocare, stuprare le linee melodiche vocali (“Palloncini e Pavoni”, “L’Estate Non Conta Parte I”). È tantissime altre cose, in parte sulla scia dei giganti della Psichedelia sperimentale, gli Oneida e in parte oltre ogni paragone di sorta.

Il loro fosco e poderoso ma comunque ritmato Lo Fi, sfoggia le vesti più eleganti di un certo Post Rock psicotico, senza saliscendi o variazioni sostanziali (“L’Estate Non Conta Parte II”), che quasi sarebbe base perfetta per un pezzo Experimental Hip Hop stile Dälek, ma sa anche svestire quei panni per mostrarsi in tutta la sua bellezza Art Punk, ritmica e amorfa (“Plastic Bubble in the Mystic Place”) oppure mutare forma in maniera sostanziale e inaspettata, trasformandosi in una sperimentale miscela di Acid House, Industrial e Psichedelia Elettronica neanche si trattasse di figli illegittimi di un parto selvaggio e innaturale di Genesis P-Orridge e famiglia (Psychic Tv). Con Magikarp (per gli appassionati del genere dovrebbe trattarsi di un Pokemon di scarsa potenza) gli Allan Glass mettono finalmente in mostra tutto l’arsenale a disposizione, forse con un po’ di confusione, qualche pausa d’intensità di troppo e pochi minuti (circa ventiquattro) sui quali sfogarsi, ma quelle armi paiono avere tutte le carte in regola per fare molto male. Gonfiare ancor più l’album non tanto con nuove idee ma soprattutto con la materializzazione di quelle già presenti avrebbe certo aiutato ad apprezzare ma chi ha buon orecchio per ammirare anche questo sensazionale rumore, non faticherà a riconoscere indubbie doti creative.

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