Psych Rock Tag Archive
The Chanfrughen – Shah Mat
Sono iniezioni lisergiche e rinvigorenti gli otto brani di Shah Mat dei liguri The Chanfrughen. Viaggi psichedelici e psicotici in terre inesistenti o rese tali da un’immaginazione sferzante, appuntita, che ci porta, di traccia in traccia, nel caos fuggitivo dell’America Centrale, nel vuoto freddo della Siberia, nei Balcani insensati e sanguinanti, nelle vie che per l’Asia Minore portano all’Estremo Oriente o chissà dove. Frizzano di distorsioni sgarbate, di ritmiche imprevedibili e scostanti, e pestano duro, con voci che spintonano, e creano paesaggi arzigogolati e scaleni di Rock seventies che sa essere ipnotico senza troppi fronzoli, immerso in un Blues sanguigno e ossessivo, tra synth e arpeggiatori e riff che, pur elementari, scavano le orecchie come la goccia che tortura la pietra. Shah Mat è un disco dall’immaginario denso ed evocativo, che dà il suo meglio negli episodi più enigmatici, nelle insenature più esotiche (“Belize”, la title track) e rallenta un po’ quando si bagna in modo eccessivo nel mare scuro del Blues più lineare (“Rhum, Spezie, Sciac Tra”, per esempio). I testi a volte sorprendono nella loro franchezza sopra le righe: quello di “Belize” al primo ascolto sembra quasi fuori luogo, poi scopri invece che si incastra perfettamente nelle pieghe del brano con una lucidità allucinata, sciamanica, laterale. Non va sempre così, intendiamoci: altrove l’eloquio si fa più ingenuo, meno a fuoco. Stessa cosa per alcuni passaggi strumentali che forse avrebbero giovato di un’ulteriore affilatura. Rimangono però piacevoli le lunghe fughe, le corse aperte di chitarre e sintetizzatori, la cura ritmica per prendere sempre in contropiede l’ascoltatore, e in generale l’arroganza – sacrosanta – dell’inventarsi un disco libero da paranoie su lunghezze, accessibilità, e altre aberrazioni limitanti. Un giro di giostra che sa di libertà e convinzione.
The Winstons – The Winstons
I The Winstons sono un trio formato da Enro Winstons (tastiere, fiati, voce), Rob Winstons (basso, chitarra, voce) e Linnon Winstons (batteria, tastiera, voce). Trattasi di un rockettaro, ma pur sempre amorevole, papà e dei suoi pargoletti? O forse di 3 giovani capelloni scapestrati conosciutisi in un college, magari a sud-est di Londra, che scoprendo di portare lo stesso cognome e strimpellare 3 diversi strumenti decidono di metter su un gruppo per far baldoria insieme? No, niente di tutto questo, almeno in parte, perché dietro ai nomi sopra citati si celano le figure di 3 rappresentanti di razza della musica italiana degli ultimi anni: Enrico Gabrielli (Enro), Roberto Dell’Era (Bob) e Lino Gitto (Linnon), vero però è che soprattutto a sud-est di Londra il trio tende lo sguardo, alla Canterbury dell’indimenticabile decennio 65-75, e trattandosi dunque di Progressive era pressappoco impossibile che ad occuparsi di loro non fosse che la AMS Records, casa discografica molto attenta al presente come al passato di questo genere musicale. Il disco si apre con “Nicotine Freak”, brano scelto anche come singolo ad anticipare l’uscita dell’album, scelta più che condivisibile poiché si tratta di uno dei pezzi migliori del lotto ed è capace di rendere da subito chiare le intenzioni del trio. La voce, seppur meno emozionale, richiama a Robert Wyatt, il lavoro sulle armonizzazioni vocali è più che buono e musicalmente “Nicotine” suona come un Progressive che col passar del tempo diviene sempre sempre più freak. Si prosegue con brani che pur conservando sempre una matrice Progressive e Psichedelica si muovono in diversi territori, passando da brani più jazzati (“Diprodton”, che porta in realtà un titolo giapponese) a caldi saliscendi Pop (“Play With the Rebels” e “She’s My Face”) senza lasciarsi sfuggire neanche atmosfere più cosmiche (“…On a Dark Cloud”) o colorazioni in parte più scure e robuste (“Dancing in the Park With a Gun”). I 3 Winstons si muovono piuttosto agevolmente tra tutti questi territori ed il disco scorre via piacevolmente, ma senza picchi in grado di regalare quelle vibrazioni, quelle sensazioni, capaci di rendere grande un album o comunque una canzone, e purtroppo nel trittico finale (trittico per chi li ascolterà su CD, MC o in streaming, poiché nella versione in vinile “Number Number”, altra canzone che in realtà porta un titolo giapponese, e che probabilmente risulta essere la migliore delle 3, non sarà presente) il trio mi sembra soffrire un po’ di manierismo, non la migliore delle sofferenze per chi propone questo tipo di sound. Ai nostri, qua e là supportati anche dall’immancabile Xabier Iriondo e dalla tromba di Roberto D’Azzan, va il merito di ricordare molti ma di essere uguali solo a sé stessi, durante l’ascolto oltre al già citato Robert Wyatt, non sarà difficile trovare influenze dei Gong come dei Beatles, di Kevin Ayers come dei primissimi Pink Floyd e molto altro ancora risalente al già citato decennio dal quale gli Winstons sembrano provenire e non solo amare e celebrare, o prendere a pretesto per sfornare un disco. Il trio suonerà live in lungo e in largo per l’Italia per tutto il mese di Gennaio (e non è da escludere vengano annunciate nuove date in seguito), consiglio agli amanti del genere di selezionare la data più vicina a casa propria e non mancare all’appuntamento, credo che dal vivo gli Winstons possano regalarci belle sorprese essendo ancor più liberi di poter suonare free.
Radar Men from the Moon – Subversive I
A differenza dei compagni di etichetta Underground Youth, gli olandesi Radar Men from the Moon hanno compiuto un viaggio diametralmente opposto, almeno fino all’uscita datata 2015 di entrambi. Se quelli di Manchester avevano esordito con poche promesse per il futuro salvo poi evolvere e crescere fino a buoni livelli, la band di Glenn Peeters aveva debuttato due anni dopo con tante ottime prospettive che, col passare degli anni, si sono rivelate illusorie. Un percorso antitetico, dunque, che però ha portato le due band a un risultato (l’ultima release per intenderci) molto simile, in quanto a giudizio critico. Non si faccia l’errore di immaginare le due formazioni parificabili in quanto a stile, non è questo che le accomuna. Messa da parte l’etichetta e la quasi contemporaneità dell’ultimo album, la vicinanza tra Radar Men from the Moon e Underground Youth può ritrovarsi solo in una non troppo marcata predisposizione a suoni di stampo Psych Rock. Tornando ai nostri olandesi, parliamo, infatti, di quattro brani per circa trentacinque minuti di musica, completamente strumentali. L’avvio di “Deconstruction” è una bomba per quando diretto e potente. Col passare dei minuti però, quella stessa veemenza si riduce in una banalità sonica e una monotonia ritmica, che talvolta sembra voler prendere pieghe Math Rock ma che alla fine è solo volgarità creativa. La situazione non migliora con i brani seguenti, anche se il lungo intro Minimal Noise di “Neon” inserisce qualche elemento di varietà apprezzabilissimo, ponendo le basi del brano più intrigante di tutto questo Subversive I. “Hacienda” chiude il disco provando a fornire nuovi ingredienti ma anche in questo caso è la noia a farla da padrone oltre che un’insipidezza retorica quasi avvilente. L’unica cosa che salva il disco la troviamo nella traccia numero tre e in qualche fugace tentativo di uscire dallo schema precostituito dai Radar Men from the Moon come nella parte finale della closing track; per il resto, se proprio volete cimentarvi con lo Space Rock, andate a ripescare qualche vecchio disco di Spacemen 3, Gong o Hawkwind o se cercate qualcosa di più attuale, magari proprio di questo 2015, provate con i veterani britannici Ozric Tentacles o, se desiderate una band freschissima, coi cileni Föllakzoid perché l’ultimo dei Radar Men from the Moon sarà duro da digerire.
Orange Revival – Futurecent
Eric, Christian, Andreas ovvero i nomi dietro ad una delle migliori band Psych Rock nate negli ultimi cinque anni, anzi, se continueranno con tale pregio, stile e carica, presto la migliore band del genere in circolazione. Non sto esagerando, perché se già l’esordio Black Smoke Rising era riuscito a persuadere tanto il pubblico (nei limiti di quello che può esserlo nella scena) quanto la critica, ovviamente il confermarsi non doveva essere cosa agevole. A distanza di quattro anni, ecco vedere la luce Futurecent, e se da un lato dovremo attendere per comprendere quanto gli affezionati ascoltatori sappiano apprezzarlo, quello che è certo è che anche questa volta il trio svedese ci ha preso alla grande. Sette brani che ripercorrono tutta la tradizione psichedelica, partendo sì dagli albori piantati nei sixties, ma sviluppandosi soprattutto dalla scuola susseguente, quella nata sul finire dei Settanta per opera di formazione quali The Teardrop Explodes e Soft Boys e che si sta sempre più imponendo grazie ad etichette come la Fuzz Records, festival come l’Austin Psych Fest e band quali Tame Impala, Gang Gang Dance e soprattutto, almeno per le similitudini stilistiche con i nostri oranges e Singapore Sling. I sette pezzi che si succedono nei circa trentotto minuti dell’album sono una cavalcata di ritmiche ripetitive, chitarre distorte quanto basta, fuzz e noise, e una voce tagliente e ben calibrata e modulata anche in fase di registrazione. Non c’è la potenza pura, introspettiva e violenta di certi Dead Skeletons in quest’album, né l’enigmaticità di un Henrik Baldvin Björnsson o la tecnica conturbante di Kevin Parker e soci, ma ciò che rende Futurecent tanto accattivante, quanto valido e spettacolare all’ascolto, è la capacità di mescolare le diverse parti, senza lasciare mai che sia una di queste varianti a emergere ma piuttosto facendo in modo che i brani acquistino un’essenza propria, che sappia accontentare i più cupi come i più attenti al lato melodico, i più nostalgici tanto quanto i più tesi verso l‘ostentazione del nuovo. Futurecent trova la forza proprio dove tanti altri hanno trovato il proprio declino. Alla ricerca simultanea di svariati mondi, c’è chi si perde nell’universo e chi scopre nuove forme di vita.
The Underground Youth – Haunted
Tanta cassa dritta, voce cupa, monotona e suoni sommessi e ovattati. Non è un caso che The Underground Youth provenga dalle stesse terre della più grande band Post Punk mai esistita, i Joy Division. Il solco è quello ma con sfumature sintetiche e psichedeliche maggiori, un’attitudine rivolta più al Gothic che al Punk e un suono tendenzialmente Wave che se non fosse per l’indolenza delle ritmiche sarebbe perfetto per far ballare i vampiri quasi a guisa di violenta Ebm (“Drown in me”). Quelli che sembrano i punti di forza di Haunted finiscono inevitabilmente per diventarne gli stessi limiti. Laddove le chitarre osano con più insistenza, si evidenziano non solo le influenze della band di Manchester ma anche le similitudini con formazioni contemporanee ben più note e talentuose. Stessa cosa possiamo rilevare nella sezione ritmica e se da un lato ci si potrebbe aspettare un qualche conforto dalla voce, non resta che rassegnarsi anche alla sua banale piattezza e timbrica involontariamente sgradevole. Tutte queste considerazioni sembrano far protendere il giudizio verso una solenne bocciatura eppure c’è qualcosa di buono in questo settimo Lp della band formatasi solo nel 2009 (certo quello che non le manca è la prolificità). Quando le derive psichedeliche si fanno più marcate e Craig Dyer e soci prendono le strade più Experimental Noise Rock (la parte iniziale di “Self Inflicted” ad esempio o “The Girl Behind” che può ricordare certi Have a Nice Life o ancora “Slave”) mostrano tutto il loro potenziale talento e il rimpianto è di non aver assistito alla definitiva crescita stilistica di una formazione che probabilmente avrebbe potuto dare molto di più al genere pur avendo fornito prova di evoluzione considerevole rispetto agli esordi.