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Latte+ – No More Than Three Chords

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Ho trentaquattro anni, non studio, non lavoro e non guardo la tv e quando, da giovane, blateravo di no future mi ero fatto un’idea più idealista di quest’anarchia che a oggi pare solo essere un costante stato di caos interiore. Gli unici momenti in cui riesco a ristabilire l’ordine è quando mi passano tra le mani ricordi degli anni più belli della nostra vita, quelli in cui tutto era Punk e a tutto si pensava tranne che al giorno in cui avrei scritto ho trentaquattro anni e blah blah blah. Qualche settimana fa, a distanza di oltre quindici anni, sono riuscito ancora a pogare e ballare e fare un bagno di birra e risate con i mitici Chromosomes e ora, eccomi a far girare nello stereo l’ultima fatica dei Latte+, tra i meno vicini al mondo Flower Punk dei suddetti, anche perché arrivati con qualche anno di ritardo (1997), ma di certo capaci di incarnarne perfettamente lo spirito ribelle e un po’ romanticamente cazzone.  Con questo nuovo lavoro, i Latte+ tornano alle loro origini, mettendo da parte la lingua madre e tornando all’inglese, scelta che certo sarà stata decisiva per arrivare alla coproduzione statunitense della Infested Records. Oltre a questo, cosa dovremmo aspettarci da una band nata negli anni 90, che fa Punk senza spostarsi di una virgola dai suoi cliché, con cinque album all’attivo, compilation, split, live con Punkreas, Derozer, Senzabenza? Niente più che il tirare una linea, fissare un momento preciso in cui urlare al mondo: “questo siamo noi, questi sono i Latte+!”. Non aspettatevi altro che un manifesto postumo di una generazione incapace di crescere, se crescere significa diventare schiavi di una società che ci vuole quanto più conformi agli standard scelti dai potenti.  No More Than Three Chords è un disco che prende a prestito, com’era lecito aspettarsi, i sound dei mostri sacri Queers e Green Day ma che ha nei Ramones il suo massimo punto di riferimento; in tal senso, non pare certo un caso, l’omaggio del brano “Johnny Ramone” (oltre al titolo, anche i coretti iniziali stile “Blitzgrieg Bop”), che in realtà molto ricorda anche lo stile di un’altra immortale formazione italica che dei fast four ha fatto un credo, gli Impossibili con la loro “Rock’n Roll Robot”.


La rilettura della lezione del professor Joey Ramone avviene tuttavia in maniera del tutto diversa, puntando su una maggiore dinamicità rispetto ai colleghi compatrioti, grazie anche all’uso della lingua inglese, e quasi sottolineando l’aspetto più duro e crudo della band di New York. Se Joey rappresentava il lato sensibile della band, Johnny ne rappresentava quello più grezzo e battagliero e soprattutto a questo sembrano ispirarsi Chicco (basso e voci), Sunday (chitarra e voci) e Puccio (batteria) tanto che brani come “Rise Up” o “I Wanna Be Like Steve Mc Queen” somigliano più ai durissimi pezzi stile “The Crusher” che non alle sdolcinate “Do You Wanna Dance” e simili. La sottile linea che divide l’ispirazione e l’omaggio dal plagio, si assottiglia ulteriormente in “Anyway I Wanna Be with You” quando per poco non ci si trova con la testa sprofondata in una cover di “Palisades Park”. L’unico fattore che riesce a differenziare il sound pelle, jeans e converse è la voce, la quale regala al tutto un sapore californiano che almeno in talune circostanze (“It’s Been a Long Time”), si avvicina alle linee più melodiche di certi Guttermouth. Ho trentaquattro anni. Alla mia età dovrei essere sposato, con due figli, laureato (questo sì, anche se non mi serve a un cazzo), avere un conto in banca (sì, ma ormai a zero), un mutuo da pagare per un monolocale e invece mi ritrovo ad ascoltare Punk e va bene così perché come dice sempre un vecchio amico, l’unica cosa che conta oggi è divertirmi ed essere felice e No More Than Three Chords è il disco perfetto per farlo. Domani penserò al resto.

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El Terrific – Un Anno Terribile

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Ritmi forsennati tra Hardcore e Stoner, una sberla in mezzo al viso. Una foresta di valvole che veste bene l’anno terribile che andiamo ad ascoltare. Un anno poco ragionato, in cui non ci soffermiamo mai su una frase, un anno buono solo per tremare e dimenarci. E per convincerci che veramente viviamo in tempi bui come diceva una nota band milanese, sicuramente ben conosciuta da El Terrific, quartetto perugino di recente nascita ma con ben chiara la rotta da intraprendere. Pure la nave sembra solida, rocciosa, costruita per affrontare tutte le intemperie del caso.

“La Festa di Billy” è un taglio in gola e le armi più efficaci sono sicuramente le chitarre sudate e sanguinanti, fedeli nel seguire una melodia che gioca a nascondersi, finge di non esserci, per entrarci in testa storta, marcia ma scomodamente presente. Le chitarre vincono anche nella meno immediata “Orso”, il drumming arranca un po’ negli intermezzi sghembi per poi arrivare come un treno negli occhi in un ritornello meno ispirato ma non per questo poco efficace. “Guarda chi sei, ogni tuo passo risuonerà, l’orso più grande, il capitano della tua anima”. Forse è solo una mia impressione ma le parole a volte pare siano piantate un po’ li a caso, spesso però la sensazione è che avvolgano bene la nuvola di chiasso in mezzo a cui tentano di distinguersi. La lama delle chitarre di “Dominic” spazza via tutte le mie seghe mentali. Qui la voce pecca in intonazione e ad essere realisti è solamente la terza canzone di fila in cui sbattiamo la testa contro un muro spesso cinque metri.

I ritmi cambiano solo con “2002”, nostalgia di anni passati, un po’ di banalità soppiantata da un gran bel giro di basso incalzante. Ancora più inaspettati arrivano gli accenni a classici Blues di “Minnie”, quasi una jam inappropriata in cui si tritano riff sempre più violenti e che sfocia nella perla di rumore “Chilometri”:  “ostacoli non ne ho, forse è quello che manca”, poi (finalmente) un bell’assolo. “La Città Brucia” è meno ispirata e risente un po’ troppo della comoda influenza dei Ministri, “Voglio Rimorsi” è l’anti Pop mentre la chiusura è affidata a “Super Io”, senza grande lode ma con la dovuta cartella da lasciarci con l’acquolina in bocca. Probabilmente una maggiore attenzione nei dettagli manderebbe il prodotto ad un altro livello. In ogni caso ci accontentiamo degli schiaffi, che in questo disco schioccano sulle nostre guance dal primo all’ultimo secondo.

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Psycho Killer – Dead City Life

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Del buon sano rock! Ecco, proprio questo ho pensato mentre ascoltavo Dead City Life, il primo album dei torinesi Psycho Killer. Gli Psycho Killer sono Enrico (voce, chitarra), Riccardo (basso, cori), Alessio (Batteria, voce) e  anche se si sono formati relativamente da poco (primi mesi del 2013), i tre componenti si conoscono bene poiché hanno fatto tutti parte degli ormai sciolti Hollywood Noise, band che ha infuocato le notti del capoluogo piemontese e che si è fatta conoscere al grande pubblico grazie all’apparizione televisiva su Rock Tv e ai loro due album More than your Mouth Can Swallow (2010) e More than your Mouth Can Swallow II (2012). Il loro è uno stile ispirato principalmente alla scena Hard Rock americana sviluppatasi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, caratterizzata da chitarre costantemente distorte e ruvide supportate da una linea ritmica basso-batteria decisa e martellante.

Come già detto, i tre componenti  arrivano  da esperienze precedenti a questa e il loro affiatamento nell’esecuzione dei brani è evidente in ogni singolo passaggio, l’intensità e l’energia che ne viene fuori rientra nella più tipica tradizione del Rock di concedersi al massimo, fino all’ultima goccia di sudore. Questa loro invidiabile genuinità Rock è altresì un difetto che mina tutte le tracce dell’album a livello compositivo. Non c’è nessuna canzone che spicchi per originalità o per completezza, si limitano tutte a rispettare i canoni stilistici del genere e non c’è nessun elemento che li identifichi o che li differenzi dall’immensa schiera di band simili presenti in tutto il pianeta. Sembra  un’operazione  di emulazione delle band di quel glorioso periodo e nulla di più. Non è un caso che tutto l’album sia cantato in inglese, che non deve essere per forza un elemento screditante, ma è piuttosto l’interpretazione delle canzoni che risulta  troppo impostata nella voce alla ricerca di uno slang forzato per nulla naturale.

Dead City Life è un buon esordio e promette per il futuro, e poi non sono certo io quello che deve consigliare di insistere, c’è un gruppo abbastanza famoso  che dice appunto it’s a long way to the top… giusto?

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Aa. Vv. – Son of a Gun A Tribute to Kurt Cobain

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Il cinque aprile di venti anni fa muore, apparentemente sparandosi una fucilata alla testa, quello che è innegabilmente uno tra i personaggi più importanti, influenti, sfrontati e idolatrati che la storia del Rock ricordi, uno di quei loser (al fianco di Ian Curtis, Elliott Smith e pochi altri) capaci di affascinare intere generazioni per decenni e anche oltre. Per l’occasione, Big Red Agency e RuSsU (Totale Apatia) in collaborazione con La Città della Musica e Rock House, hanno promosso questa raccolta di cover, reinterpretate da band e musicisti lombardi, per ringraziare Kurt per quello che ci ha consegnato. Tutto fantastico, in apparenza, ma poi ci tocca stendere una recensione di questo lavoro, cercando di tirare fuori tutto il cinismo possibile trattandosi di rievocare un personaggio a noi tanto caro e scomparso in circostanze così atroci. Come si può discorrere in modo ostile di un tributo a un’artista come Kurt Cobain? Infatti, non è quello che farò, perché la scelta di mettere insieme questi diciannove riarrangiamenti da parte di Big Red Agency e gli altri è totalmente comprensibile, gradito e, la quasi generale assenza di desiderio di speculazione mi spinge ad accettare con ancor più appagamento questa pura voglia di ricordare e omaggiare attraverso le note dei Nirvana.

Come abbiamo accennato, però, l’album è fatto non solo di parole dei Nirvana, ma di canzoni della grande band di Aberdeen rivisitate da nostrane formazioni lombarde, non tutte in grado di rileggere con sensibilità nuova quei brani, mantenendone inalterata l’intensità emotiva. La scelta condivisa dalla maggior parte delle band è di non stravolgere eccessivamente lo stile originale, forse mostrandosi saggi o spaventati dagli ovvi paragoni, e quindi, per lo più, la tendenza è sottolineare chi l’aspetto Punk (Andead), chi quello Rock (Mad Penguins, Marydolls, Str8t), chi quello Alternative (Cronofobia, Nessuno, Pay) e chi quello Lo Fi (Il Re Tarantola) della band regina assoluta del Grunge. Diverse le formazioni che provano ad aggiornare con raffinata adeguatezza al presente le note di Cobain, alcune riuscendoci in pieno e altre meno ma comunque palesando una buona dose di coraggio che non deve essere trascurata. Discrete le scelte di Hey! Amber, Incomprensibile Fc mentre ottima è la selezione del brano da parte dei 36 Stanze che offrono una versione Crossover di “Tourette’s”, cosi come non dispiacciono l’intima rivisitazione di “Rape Me” di RuSsU e “Serve the Servants” in chiave Rock’n Roll dei Seddy Mellory. Passando al peggio ascoltato nella compilation, dispiace dover citare le due brutte trasposizioni Rock scialbissimo e Hard Rock dei Deizy e dei Blackline e disturba addirittura lo stile e la timbrica irriverente, in senso cattivo, dei Malena cosi come la “Sliver” dei Totale Apatia che quasi annienta la potenza intrinseca del brano originale. Per fortuna ci pensano prima i Korova Milk Bar con una splendida “Drain You” a risollevare il livello e poi i Matmata con “Dumb”.

Un lavoro senza troppe ambizioni che non ci regala molte positive chiavi di lettura, ma quantomeno pone l’accento su una grande formazione a tratti troppo bistrattata ma che invece ha saputo fare della semplicità e del minimalismo rabbioso una forza capace di resistere al tempo. Un lavoro che aiuterà i più distratti a ricordare di un perdente che il tempo ci ha insegnato a riconoscere come un grande uomo oltre che un immenso artista.

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Me First and the Gimme Gimmes – Are We not Men? We Are Diva

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Vi è mai capitato di aver bisogno di un disco nei momenti di scazzo per poter sfogare un po’ di frustrazione e ritrovare la serenità perduta? Se state pensando a qualche mattonata New-Age o Chill-out siete fuori strada. Dopo più di 6 anni tornano i Me First and the Gimme Gimmes a riportare un po’ di serenità nelle vostre orecchie con il loro ultimo album Are We not Men? We Are Diva. Il titolo, che oltre ad omaggiare il disco più famoso dei grandiosi Devo, ci fa capire fin da subito chi sono state le loro fonti d’ispirazione per la registrazione di questo disco: le più grandi dive della musica leggera anglofona (lo so, Boy George non è tecnicamente una donna, ma sicuramente si sente una Diva!). La formula per sfornare le loro cover è grosso modo sempre la stessa, ovvero un Punk Rock in puro stile californiano abbinato ad una linea melodica che ricorda quella della canzone originale.

Il risultato, per chi conosce i MF&GG’S è abbastanza superfluo dirlo, è spassoso e, come anticipato prima, anti-stress grazie ai suoi ritmi serrati e alla voce rauca di Spike Lawson che interpreta a modo suo le canzoni delle ugole d’oro della storia della musica (immaginatevi Cippa dei Punkreas interpretare una qualsiasi canzone di Laura Pausini). Degne di nota sono sicuramente “I Will Survive” (Gloria Gaynor) che apre il disco con schitarrate e batteria rullante per mettere in chiaro fin da subito di cosa si tratta, e “Beautiful” (Christina Aguilera) che risulta la più divertente nel disco: Spike Slawson, che non è esattamente l’uomo che a primo impatto può sembrare fragile e insicuro, che canta la canzone per eccellenza delle ragazzine che faticano ad accertarsi per il proprio aspetto estetico.

“My Heart Will Go On” (Celine Dion) è l’unica canzone arrangiata in stile Country e ricorda, forse scimmiotta, lo stile dei Mumford & Sons poiché è sovraccarica di cori, accompagnamento di banjo e fisarmonica. La cover più riuscita del disco è sicuramente “Believe” (Cher) in cui la voce del cantante viene modulata in puro stile Dance anni 90 (forse una delle trovate più brutte nella musica commerciale, ricordate gli Eiffel 65?) con accompagnamento di tastiere con effetti spaziali. Are We not Men? We Are Diva! dura, ahimé, solamente 35 minuti ma vi basteranno per rendervi la giornata migliore!

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Blonder – Radio

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Per ovviare alla frustrazione di una che è costretta a passare metà della giornata davanti a un PC con l’audio fuori uso faccio un piccolo esperimento, un primo approccio senza audio. L’EP di esordio dei Blonder è disponibile in vinile 7 pollici e in free download. Modaioli. È una scelta ormai frequente, in linea con il dilemma dei tempi moderni del dover decidere tra progresso e tradizione. Non sono mai stata una fanatica del supporto ma se continuo a prediligere quelli fisici è a causa di una certa forma di feticismo in fatto di artwork, biglietti da visita del suono. Il front di Radio è essenziale, duocolor. il titolo in nero campeggia su un fondo ocra. Sul retro, un satellite artificiale, sempre nero. I tre ragazzi romani fanno alcune premesse. Dichiarano una vocazione per un certo Punk, dai Radio Birdman agli imprescindibili Stooges, e dicono anche che questo EP è stato un parto naturale ma frettoloso, senza troppa cura nella qualità. Non mi scompongo, perché per ora il contenitore mi ha convinta nonostante sia sfacciatamente Lo-Fi.

Rientro a casa e premo play, ed il contenuto suona estremamente in linea con le impressioni del mio primo ascolto-non-ascolto. Il ritmo serrato di “More Drugs Blue Sky” è trascinante nonostante le sbavature. I quattro brani che compongono Radio sono costruiti su distorsioni e ronzii Shoegaze evocano le atmosfere dei Ride agli esordi, ma con un energia che sa di anni 70 e di Proto Punk. Chitarra, basso e batteria. Tracce brevi, sporche e penetranti. Un timbro vocale non particolarmente originale, che per lo più non riesce a farsi spazio tra i riff ma che a tratti esplode graffiante, come sul ritornello di “And Feathered Cloud”, acida e melliflua, con dentro tutto il background musicale che si è costruito chi ha superato da un po’ la soglia dei trenta.

C’è da dire che forse questo ultimo brano l’unico in cui si manifesta in maniera più compiuta uno stile proprio. Le tracce che lo precedono risultano un saggio di quelle che per loro stessa ammissione sono le loro passioni e ispirazioni e poco svelano su quello che c’è da aspettarsi dai Blonder quando torneranno in forma di album compiuto.  Non c’è alcuna smania sperimentale, né tantomeno la pretesa di essere sofisticati, ma a rimanere in bilico sulla sufficienza poi mi sento la prof stronza del liceo. Ammessi all’esame di stato del long play, ma prendetevi il tempo necessario per le levigature.

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Radio Shakedown – Burn Again

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A due anni di distanza dal precedente EP Cheaters Never Lose si riaffacciano sul panorama musicale i pescaresi Radio Shakedown. Le sei tracce di Burn Again, registrate presso l’Acme Recording Studio, sono quanto di più sfrontato si può chiedere al giorno d’oggi al Punk Rock. L’avvio è da infarto con “Something’s Gonna Come”, canzone che ci illustra come i due leitmotive dell’album saranno la voce sporca di Freddy e i cori, mai fuori luogo, intrisi dell’aroma degli Anti-Flag pre The Terror State e dei Face To Face periodo Vagrant Records. Le schitarrate presenti in “Wrecks”, ricche di stop ‘n’ go, solcano il cielo plumbeo squarciandolo con i classici due accordi che hanno reso celebre il genere agli albori. Il singolo, che dà anche il titolo al disco, è un grido d’insurrezione, un invito, senza mezzi termini, rivolto alla massa, tarda a risvegliarsi dalla catalessi che l’ha colpita, una bomba ad orologeria pronta ad esploderci in pieno volto. Dopo altre due tracce, dove si mantiene salda una spiccata devozione allo Street Punk degli U.S. Bombs, si arriva troppo velocemente alla conclusione con la ballata “Are You Having A Good Time”: un pezzo acustico ben costruito sulla falsariga delle doppie voci, un qualcosa di assolutamente inaspettato e sorprendente.

La scarsa durata è l’unica nota dolente. Ci lascia l’amaro in bocca constatare come in venti miseri minuti sia già tutto finito. Probabilmente era più il caso di aspettare di avere maggior materiale tra le mani ed uscire con un prodotto più corposo. Tolto questo, ciò che rimane è un lavoro impetuoso, pervaso da una marcatissima anima ribelle, da ascoltare e riascoltare. Sicuramente “This is Not The End”.

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The Chromosomes, il nuovo video!

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Amanti del Punk Rock! Ecco una sorpresa per voi, il nuovo video dei Chromosomes “Siesta Forever” (realizzato da Diego Caldari). Estratto dall’album Yes Trespassing (Inconsapevole / Waterslide Records 2013). E allora buona visione!

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Paolino Paperino Band – Porcellum

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Qualche giorno fa vi ho raccontato, con una certa vena di eccitazione e sana inquietudine, di un disco chiamato Pislas, ristampato qualche mese fa, e di una certa band dallo strampalato nome, Paolino Paperino Band. Se avete letto quelle mie parole, avrete capito che cosa questi cinque ragazzi abbiano simboleggiato per la nostra gioventù ribelle a modo nostro; poi però succede che questa stessa formazione dallo sconclusionato nome, Paolino Paperino Band, decide di tirar fuori un album nuovo, oltre vent’anni dopo da quel mezzo capolavoro e ci tocca quindi smetterla di sognare ad occhi aperti pensando a tempi ormai andati e valutare con onestà intellettuale questo Porcellum. Che cosa è cambiato dai tempi di Pislas a oggi, nella loro musica? Poco, se guardiamo allo stile puro eppure tanto e non certo in senso positivo. Gli undici brani di Porcellum seguono le stesse dinamiche Punk degli esordi ma non riescono a proporsi con la stessa potenza, scivolando in maniera più lineare, senza troppi cambi di ritmo e riducendo al minimo quelle follie soniche che ci parevano ergere i nostri su un livello di superiorità rispetto ai colleghi italiani.

Anche in quanto a temi e testi, lo stile è quasi immutato, con un cocktail di attacchi al sistema e a nemici quasi reali e di spessore sempre cercando di velare il tutto in un’ironia che stavolta pare forzata oltremisura e poco incisiva e realmente divertente, a differenza di quanto succedeva venti anni fa. Oltre la nostalgia e la malinconia che evidentemente deve aver colpito anche loro, vista l’autocitazione di “Fetta”, storico brano dei Paolino (“fetta di salame o di prosciutto, fe-fe-fe-fe-fetta con il ketchup, con lo strutto”) resta tanta amarezza e delusione e anche quel fastidioso senso di malessere di chi sbatte la faccia contro la dura realtà. Cristo Santo, non ho più diciotto anni, non è più tempo di “giri morti” in macchina a zonzo, fumo e birra e i Paolino Paperino Band non sono più gli stessi forse perché noi non siamo più gli stessi o forse perché, certe cose possono dirle solo dei ragazzi un po’ fuori di testa e non degli adulti rimasti troppo ancorati al passato. La nostra rivoluzione è fallita eppure resta quella tristezza che mi ricorda che sognare che il tempo si sia fermato a venti anni fa, in fondo non costa nulla.

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Paolino Paperino Band – Pislas (Ristampa 1993)

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Per capire cosa siano stati per noi vecchi punker di provincia quei cinque pazzi chiamati Paolino Paperino Band dovreste poter osservare il sorriso sui nostri volti quando muovono le note di pezzi come “Fetta” o “Porno Tu” e, grazie a questa ristampa che mette insieme Pislas, l’Ep Fetta e un sette pollici bonus contenente quattro brani, ho avuto modo io stesso di contemplare l’entusiasmo di chi rievoca, con una vena di amarezza, la propria gioventù ribelle e gonfia di sogni di rivoluzione e, forse, c’è anche un po’ di turbamento ad ascoltare le parole di Yana e scoprirsi proprio in tutto ciò che un tempo odiavamo insieme.

I Paolino Paperino simboleggiavano molto più di una band Punk Rock dell’Emilia Romagna dall’accento inconfondibile; divenivano la nostra voce ed erano anche cinque ragazzi che facevano tremare le pareti quando iniziavano a fare casino. La cosa più piacevole è che avevano tanto da dire, magari con troppi (anti?)/luoghi comuni, un po’ di qualunquismo alternativo e sano spirito “contro” ma ogni loro lirica era pervasa da una profonda e trascinante ironia che metteva quasi in secondo piano ogni discorso logico sulle questioni trattate. Che si parlasse di Tv, Droga, Ultrà, Politica noi eravamo d’accordo, magari non sempre capendo il perché; ma sapevamo che i Paolino Paperino non ci avrebbero mai raccontato cazzate. Quella stessa irrisione che aiutava a dare un senso alle controversie più spinose era anche lo strumento preminente con il quale ci narravano folli storie come fossimo a cazzeggiare tra amici con qualche birra in mano e uno spino a girare nel cerchio magico della nostra amicizia. E poi ci spiattellavano di quelli che erano i nostri antagonisti nella vita di tutti i giorni, i nemici di piccole guerre che non combattevamo mai veramente ma che ci facevano sentire vivi, a sedici anni. Dai vigili, al discotecaro, da Michael Jackson fino al carabiniere nessuno era al sicuro dalle loro parole e noi avevamo qualcuno che sapeva come urlare la nostra collera e la nostra identità ancora da scovare. La genialità dei Paolino è che comunicavano di questioni che, ammetto, non avrei mai affrontato a quell’età senza un pungolo di questo genere. Grazie a queste cose oggi posso dirmi veramente libero, capace di ragionare con intelligenza su tante questioni. Ecco la differenza tra chi è cresciuto con loro e chi con troppa merda nelle orecchie. Poi ci apparivano più bravi di tutti gli altri, nei loro infiniti cambi di tempo, sterzate incredibili, inserti rumoristici e vocali da paura, cori ai limiti del Noise e tanto altro.

Questa è solo una eccezionale ristampa di uno straordinario disco e qualcosa in più, non serve scribacchiare una recensione di quelle che componiamo di solito. Se ve li siete persi quando avevate sedici anni, riascoltarli ora non vi servirà a molto, se non a darvi un bel nome da sfoderare quando si parla di Punk tricolore. Se siete persone peggiori di noi, per certi versi, è perché nessuno vi ha passato una cassettina con uno strano nome scritto a pennarello sul lato lungo: Paolino Paperino Band Pislas.

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Hydrahead – H(e)arth

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Pop Punk melodico é quello dei HydraHead con la classica forma intro – riff – ritornello – stacco – riff – ritornello – outro, nulla di nuovo insomma, ma é un nulla di nuovo fatto come si deve a cominciare dal mix: chitarre stereofoniche, batteria che picchia, basso calibrato e voce pulita con tanto di cori intonati. Suona talmente bene da non sembrare per nulla italiano ma quasi californiano, ed infatti non a caso dietro a questo progetto troviamo il nome di Daniele Autore in veste di produttore (Vanilla Sky e The Alternative Factory).


H(e)arth inizia con “Escape”, dove sinceramente la prima cosa che mi è saltata all’orecchio è un inglese dalla pronuncia …mmm… come si dice… italianissima?! Non è proprio il massimo, si può e si deve migliorare direi! Poi però ci si rialza dallo scivolone con il singolo dal sapore radiofonico “Follow This Sound” con tanto di videoclip molto U.S.A. (Football americano e Cheerleader per intenderci) ma girato in terra nostrana da Salvatore Perrone con il team sportivo Chiefs di Ravenna (ah si, gli Hydrahead sono di Ravenna tra l’altro). La classica combo amore + Punk Rock caratterizza invece “Incomplete”. Si passa poi alla meno aggressiva “No Regrets”, dove le speranze prendono il sopravvento e l’arrangiamento acustico ne consolida l’intenzione. Chiude il cerchio “Wrong Target”, il brano che conferma la linea guida che caratterizza H(e)arth: del Pop Punk classico realizzato con classe, quello che spesso piace molto agli adolescenti (e alle adolescenti soprattutto), ma che nonostante la produzione impeccabile e gli arrangiamenti ben realizzati a me personalmente ha comunque annoiato.

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7Years – Psychosomatic

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Non è semplice fare qualcosa di nuovo nel panorama musicale nostrano e non solo. Spesso sembra che tutto sia stato detto, spesso non si hanno i mezzi tecnici per andare oltre, spesso si manca di creatività o ci si accontenta di suonare qualcosa che piaccia senza chiedersi se possa piacere ad altri o se possa aggiungere qualcosa a quanto tanti hanno già detto prima di noi. E quest’ultimo punto sembra riguardare i 7Years che si sono coraggiosamente autoprodotti il loro Psychosomatic, disco di tredici tracce e tanta energia, che fin da subito si colloca a gamba tesa in un genere più che quotato, il Punk Rock, e non si schioda mai da lì se non, in parte, sull’ultima traccia.

“Run Away” apre le danze (o meglio il pogo): super tiro, cazzutissimo un po’ alla Backyard Babies, vien subito da chiedersi come dev’essere un concerto di questi ragazzi. Segue “Kill me Now” e neanche mi ero accorta che avessero cambiato traccia, grossa pecca, che già dovrebbe far riflettere sul poco margine che il genere lascia tra i suoi stilemi e sulla poca personalizzazione dello stesso da parte della band. “Breeding Grounds” è velocissima, tiratissima e sempre portata avanti: sicuramente molto bravi dal punto di vista tecnico, sarebbe facile a questa velocità tirare indietro i pezzi e perdere gradatamente di tensione e invece non mollano mai la presa. “Drown” è più ariosa e orecchiabile, con un bel riff alla Hardcore Superstar, “Still Lake” suona iper iper americana, mentre la title track “Pychosomatic” è caratterizzata da un palm muting delle chitarre che si alterna ad accordi pieni e giochi di voci, a tratti con qualche reminescenza dei Soundgarden di Superunknown. Quando si arriva a “Just You and I” bisogna proprio riconoscere che non hanno smesso un secondo di tirare mitragliate di note senza sbavature e incertezze, pur tra tutti i cliché del genere, che alla lunga possono annoiare chi non è proprio uno sfegatato cultore. “A Reason to Smile” è ben fatta, sicuramente, e dal vivo probabilmente rende molto di più che in studio; “Sons of a Beach” bel riff che gioca sulla modalità, ma il discorso resta: ormai abbiamo capito tutto dei 7Years e non c’è più niente da scoprire già da qualche traccia. “Never Alone” inizia con una voce registrata, un dialogo tra una madre e un bambino piccolo, e poi parte durissima, cattivissima e distortissima, quasi accelerata per tutta la strofa. “Remove” prosegue sulla falsa riga della precedente, mentre in “Animals” c’è la registrazione dell’intervento di Silvio Berlusconi sulla bandiera americana, in cui sfodera un inglese più che maccheronico. “Faith” ha un intro stranamente diverso da tutto il resto del disco, sonorità molto più meditate e atmosfere ariose e aperte, che, naturalmente, cedono subito il passo alla distorsione e all’energia, questa volta più in stile Foo Fighters.

I 7Years sono dotatissimi dal punto di vista tecnico e sguazzano ormai nel loro genere, padroneggiandone bene tutti i tratti stilistici caratterizzanti. L’augurio è di non accontentarsi e sapere andare oltre, chiedendosi cosa possono aggiungere di proprio e trovando una dimensione più personale. In bocca al lupo.

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