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Recensioni | agosto 2015

Written by Recensioni

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Ben Miller Band – AWSOF (Country, 2014) 8/10

Un secondo album spettacolare per il trio Ben Miller, Doug Dicharry, Scott Leeper che unisce in dodici tracce dal sapore Country tutta la propria esperienza e classe, miscelando Bluegrass, Americana e Southern Rock in un sound estremamente tradizionale ma che riesce a non emanare mai lo sgradevole odore di anacronismo.

Gab de la Vega – Never Look Back (Cantautorato, Punk, 2015) 7,5/10

Il cantautore Punk Folk bresciano Gab de la Vega torna e stupisce tutti con dieci nuovi pezzi e un’interpretazione di “Never Talking to YouAgain”, un grande classico degli Hüsker Dü. Un po’ ricorda quanto fatto recentemente da Tv Smith, ma c’è anche tanto di Bob Dylan e Neil Young. Da non lasciarselo sfuggire!

Stearica – Fertile (Post Rock, Math Rock, 2015) 7,5/10

Essere scaraventati al muro dalla potenza del suono non è cosa che succede troppo spesso. Gli Stearica ci riescono, in versione digitale quanto in versione live, a botta di drumming energici, bassi e chitarre distorti.

Lydia Lunch/Retrovirus – Urge to Kill (No Wave, Post Punk, 2015) 7/10

Lydia Lunch scrive il capitolo del progetto Retrovirus, riunendo sul palco Weasel Walter alla chitarra, Tim Dahl al basso e Bob Bert (Sonic Youth) alla batteria. Nove tracce per ripercorrere la carriera della “big sexy noise queen” e una ciliegina sulla torta: la cover di “Frankie Teardrop” dei Suicide.

OoopopoiooO – OoopopoiooO (Sperimentale, Ambient, 2015) 7/10

Due maestri del theremin creano un nome impronunciabile, sintomo di un universo distorto, onirico, pazzoide. Quella pazzia sana, che fa andare oltre le spesse barriere del Pop e mischia strumenti, giocattoli, elettronica, parole e voci che sembrano arrivare dalle zone più nascoste del nostro cervello. Tredici brani che sembrano difficili al primo ascolto ma che alla fine ci sembreranno vicini alle orecchie come ronzii di insetti.

All About Kane – Seasons (Pop Rock, 2015) 7/10

Gli All About Kane alla loro seconda prova discografica intitolata Seasons, confermano l’ottimo esordio con Citizens e aggiungono alla loro dna british un pizzico di sperimentazione che si spinge verso il Pop e l’Alternative. Seasons è un interessante insieme di melodie leggere e mood movimentati; canzoni come “Old Photograph” e “Hurricane” si fanno amare fin da subito per piacevolezza e orecchiabilità. Nonostante spesso la voce del cantante ci ricordi molto Brian Molko dei Placebo, gli All About Kane riescono a mantenere viva la propria identità per tutto l’album, offrendo all’ascoltatore qualcosa di interessante e ben realizzato. Anche se uscito da qualche mese lo consigliamo per tutti i viaggiatori estivi che hanno voglia di una sferzata di aria fresca.

My Own Prison – Sleepers (Hard Core, 2015) 7/10

Cagliaritani, i My Own Prison, dimostrano con questo loro lavoro di conoscere decisamente bene l’hard core e di possedere tutta la tecnica per poterlo personalizzare. Tutto il disco è fondato sull’infuenza grind e su un cantato growl che muove su ritmi serratissimi di basso e batteria (al limite dell’agilità), che non si concedono tregua neppure in “Sleepers Eve”, caratterizzata da un timbro chitarristico dal sapore Indie-Pop, o nella più intima “Temper Tantrum”. Dieci tracce per un full lenght davvero pieno di energia, decisamente per gli appassionati del genere.

Solkiry – Sad Boys Club (Post Rock, 2015) 6,5/10

A due anni di distanza dall’album d’esordio, torna il quartetto australiano con il suo dinamico Rock strumentale di chiarissima ispirazione mogwaiana. Un disco potente e variegato, che riesce a cullare tutto lo spettro di emozioni che si accavallano nei sogni ad occhi aperti e che ha l’unico difetto di mostrarsi troppo incapace di osare davvero, risultando troppo banale e ripetitivo nella scelta pura dei suoni.

A Minute to Insanity – Velvet (Grunge, Stoner, 2014) 6,5/10

Il Grunge non è morto. Gli A Minute to Insanity da Cosenza lo dimostrano con orgoglio in questo ep. La chitarra e la voce “consumata” di Francesco Clarizio, insieme al basso di Antonio Trotta e alla batteria di Francesco Lavorato, ti riportano lì, in quegli anni Novanta che non sono ancora messi in archivio del tutto.

Attribution – Whynot (Rock’n’Roll, 2015) 6,5/10

Potente e autorevole questo Whynot dei bergamaschi Attribution, album che mescola un’attitudine classicamente Rock and Roll ad una commistione di generi che invece di risultare indigesta esalta le qualità di ogni singolo componente (prezioso l’uso dei fiati). Da ascoltare soprattutto il divertente Funk di “Scofunk” e la bella rivisitazione di “Cold Turkey” di John Lennon.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Ep (Stoner, Noise, Hard Rock, 2013) 6,5/10

Un vero e proprio calderone: fondete Stoner, Noise e Hard Rock e otterrete la giusta ricetta sonora; un sound che appartiene più all’America che all’Italia e forse in questo la lingua non aiuta molto (sarebbe stato più giusto cantare in inglese!). Nonostante ciò un lavoro maturo negli arrangiamenti e perfetto nella registrazione

Snow in Damascus – Dylar (Elettronica, Shoegaze) 6/10

Atmosfere cupe e sonorità che spaziano tra Elettronica e Shoegaze, per un disco d’esordio che nel complesso suona come un buon lavoro di tecnica, ma che non colpisce per la sua originalità.

Moira Diesel Orchestra – Moira Diesel Orchestra (Alternative, Post Grunge, 2014) 6/10

Orfani degli anni Novanta, i MDO ricercano costantemente sonorità a metà tra il Seattle sound e dei seminali Litfiba. Tra qualche errore di gioventù e troppi eccessi di imitazione emergono alcuni momenti interessanti come “Nostema di Posizionamento Globale” o “Ardore” che per qualche minuto cancellano i molti reminder. Rimandati.

The Moon Train Stop – EP (Rock, Alt Pop) 6/10

Echi sixties per il trio piemontese all’esordio. Un Pop alternativo luccicante, divertito, ritmato, senza eccessiva originalità ma competente. Quattro brani suonati bene, cantati così così. L’inglese non rende benissimo. Non lasciano (ancora) il segno.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Di Blatta in Blatta (Stoner, Noise, Hard Rock, 2015) 5,5/10

Quando si incide un disco che ha il grave compito di succedere a quello d’esordio si pretende qualcosa di più; purtroppo in questo lavoro si mette in evidenza solo la bravura. Mancano i contenuti e le idee nuove. Un piccolo passo indietro quindi è stato fatto nonostante il gruppo si sia aperto ad un lato più “oscuro”.

Night Gaunt – Night Gaunt (Doom Metal, 2015) 5,5/10

I romani Night Gaunt fanno loro l’essenza dei Candlemass unendola alle cupe atmosfere dei Katatonia e alle accelerazioni di puro stampo Celtic Frost. Si resta sempre nell’ambito del Doom Metal, fedeli a un registro prestampato. Senza infamia né lode.

Marco Spiezia – Life in Flip-Flops (Cantautorato, Swing 2015) 5/10

Semplicità ed immediatezza sono le caratteristiche principali di questo disco che non fa ascoltare nulla di nuovo ma che diverte. Canzoni (quasi) sempre veloci ma dai ritmi abbastanza simili. Forse il cantautore sorrentino Marco Spiezia dovrebbe (e potrebbe) osare di più.

The Junction – Hardcore Summer Hits (Indie, Pop Punk) 5/10

Per i tre padovani, il secondo album è una nuova prova con pretese ridotte al minimo sindacale. Pezzi tirati quando basta per provare a non annoiare, qualche buona melodia, un inglese che si tradisce spesso e tantissime banalità, in una miscela di cliché Indie Rock e qualche incursione nei territori del Punk Rock (Pop meglio) da bermuda, occhiali da sole e infradito.

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Stearica

Written by Interviste

Il 18 luglio, subito dopo la loro performance per A Night Like This Festival, abbiamo intervistato Davide e Francesco, batterista e chitarrista degli Stearica, band di Torino che ha da poco pubblicato il suo ultimo album, Fertile. Buona lettura.

M. Innanzitutto buonasera. Avete appena suonato, qualche considerazione a caldo su questo live?
D. Eh, c’era la pioggia, è stato divertente (ride). Abbiamo tirato corto per suonare mezz’ora. Siccome abbiamo pezzi molto lunghi dobbiamo tenerci parecchio. Però è stato un bel live.

M. Vedo che portate la maglietta di Fertile, il vostro ultimo album, parliamone un po’. Cos’è questa fertilità, cosa eravate pronti a seminare?
F. Diciamo che il periodo in cui abbiamo composto il disco era un periodo molto “fertile”. Probabilmente sta continuando ad esserlo, anche se son cambiate tante cose da tre anni a questa parte. Lo era perché era un periodo in cui stavamo suonando al Primavera Sound, a Barcellona, e ci siamo trovati proprio nel mezzo delle manifestazioni del movimento degli Indignados che ha poi avuto un certo riverbero nel nord Africa e nel Medio Oriente, in quei movimenti che se ricordi hanno preso il nome di Primavera Araba, C’erano delle grandi speranze in quel momento, dell’energia e ci ha colpiti.

M. Voi fate purtroppo parte di quella schiera di musicisti che all’estero riescono a suonare tantissimo, e sono anche molto conosciuti…
F. Ma in Italia no, diciamolo! (Ridono).

M. Ecco appunto, in Italia no. Cos’ha l’Italia che non va? Cosa c’è in Italia che non permette il diffondersi della vostra musica?
F. In realtà non lo sappiamo. Quest’anno stiamo provando a suonare di più e già arrivare a dei festival come questo ed il Siren (Vasto Siren Festival n.d.r.) per noi è un piccolo traguardo, che raggiungiamo dopo 18 anni che suoniamo. Abbiamo cominciato prestissimo a suonare all’estero, perché è sempre stato più facile. Mandavamo il materiale in Italia e lo mandavamo all’estero: fuori ci chiamavano, qua no.
D. Ed è ancora così. Stanno per uscire le date dell’ennesimo Tour Europeo, ed in Italia niente. Continua ad essere esattamente come prima.
F. Apriamo un’inchiesta con i lettori di Rockambula: com’è possibile che in Italia non si riesca proprio a suonare? Dobbiamo forse cambiare deodorante? (Ridono).

M. Voi vi siete fatti un’idea del perché in Italia non riuscite a suonare?
F. Le idee ce le abbiamo ma sono cattive e non le possiamo dire.

M. Ma Rockambula è una webzine senza peli sulla lingua… (Ridono)
F. Guarda in realtà non lo sappiamo davvero. La cosa che ci dicono sempre è “ spaccate, siete fighissimi e bla bla bla…” ma quando arriva quel momento in cui se lì con i pugni stretti e continui dicendo “E quindi?” in realtà poi non succede mai niente. Quindi dobbiamo sempre farci un po’ di chilometri per suonare. E soprattutto non possiamo mangiare il cibo italiano.
D. La cosa bella di quando suoni in Italia è che comunque mangi sempre bene.

M. Portarsi dei sughi da casa? (Ridono)
F. Qualche volta abbiamo fatto anche quello.

M. E di Torino invece cosa mi dite? Com’è stato tornare a suonare nella vostra città?
D. Abbiamo presentato Fertile allo Spazio 211, ed è stato molto molto bello.

M. Come l’avete ritrovata, musicalmente parlando?
D. La serata degli Stearica allo Spazio è una cosa, la città di Torino musicalmente parlando è un’altra cosa. Io sono abbastanza deluso di quello che ha fatto Torino negli ultimi 2-3 anni. C’è stato un periodo in cui sembrava potesse diventare una città del calibro di Berlino o Londra, l’attitudine era verso quel tipo di realtà. Artisticamente parlando c’è un gruppo di gente che suona, ma alla fine non si quaglia. Ovviamente parliamo sempre del nostro ambito e settore musicale.
F. Nonostante abbiano aperto anche diversi locali, che poi però nel frattempo hanno anche chiuso.
D. Ecco, a me sta sul cazzo che c’è stato proprio un momento, circa 4-5 anni fa, in cui vedevo uno sviluppo di situazioni e di festival, di cose belle che succedevano. Poi ad un certo punto improvvisamente si è fermato tutto quello che sembrava stesse nascendo.

M. Voi avete avuto modo di vivere la scena della Torino Punk Hardcore?
D. I nostri primi live, quando avevamo sedici anni, li abbiamo fatti insieme a gruppi Punk Hardcore, pur non suonando Punk Hardcore. Eravamo in quel giro lì.
F. Ecco vedi, quella lì ad esempio è stata una cosa pazzesca. Quel periodo lì che ovviamente per noi è una delle poche scene che riconosciamo come valide, c’era una apertura mentale ed una voglia di aiutarsi, anche tra i gruppi. Ricordo sempre quando suonavamo alla Delta House e ci dicevano che facevamo musica da viaggio, da trip. E ci suonavamo con facilità, avevano piacere ad invitarci. Quando abbiamo cominciato a suonare noi, 18 anni fa, c’era un’attitudine, c’era molta forza, energia. Adesso la sensazione che ho è che si tende a curare tutta una serie di cose. Già da quattro anni a questa parte i Social hanno cominciato a dettare tutte le regole.
D. Devi categoricamente essere un gruppo da Social.
F. C’è questa storia che bisogna avere quel tipo di facciata, quel bisogno di far vedere che vai a cagare e ti fai il selfie sul cesso. E non lo fa solo Arisa, lo fanno anche i signori dell’Indie. Non ho la sensazione che si voglia creare qualcosa tra gruppi, poche volte succede.
D. Sembra ci siano dei canoni preconfezionati che devi per forza seguire.
F. Forse è questo uno di motivi per cui abbiamo sempre suonato poco in Italia. Forse non abbiamo coltivato un certo tipo di immagine, un certo tipo di contatti. Però ti ripeto, non è una cosa che ci interessa, non ci appartiene.

M. E per quanto riguarda il discorso dell’attitudine di cui parlavi prima…
F. Io credo che se suoniamo in un certo modo è perché siamo nati e vissuti in un certo periodo. Quando ci chiedono i nostri riferimenti, musicalmente è difficile dirlo, anche perché abbiamo sempre suonato cose diverse da quello che ascoltavamo. Più che dei riferimenti musicali, noi abbiamo proprio avuto dei riferimenti umani, è questa la differenza grossa, ed è stata una roba che ci ha fatto dare veramente una svolta ai tempi, e che oggi ci fa un po’ soffrire, perché ci sentiamo un po’ fuori da questo tipo di mondo.

M. Cosa vi portate oggi dietro di quegli anni, di quel periodo che avete vissuto. Come lo riproponete oggi?
D. Con quell’attitudine che vedi sul palco.
F. Quando suoniamo vogliamo spaccare il culo, ma nel frattempo proviamo profonda tristezza nel vedere che dall’altra parte del palco non è più così.

M. E dall’altra parte, all’estero, cosa c’è che qui manca?
D. C’è più curiosità, meritocrazia, cultura musicale, ascolto. Che poi se ti piace la musica è quello che dovresti fare. All’estero c’è chi ascolta la musica e va ad ascoltare le band che non conosce. Se gli piacciono si gasa, e poi magari compra anche i dischi.

M. Bene, siamo giunti al termine, io interrompo l’intervista e vi ringrazio. È stato molto bello parlare con voi.
F. La cosa è reciproca.
D. Ciao, alla prossima

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Musica e Libri. Uno Sguardo sull’ Underground Italiano: Black Hole!

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Mistic Zippa- Una Volta Si Usava Il Veleno

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I Mistic Zippa, sono una longeva band di Savona, in pista dal 1992. Una storia lunga un abbondante ventennio, fatta di alti e bassi, una reunion e una positiva campagna di crowdfunding tramite musicraiser, che li ha portati a pubblicare nel mese di marzo il terzo album intitolato: Una Volta Si Usava Il Veleno. Il titolo, che sarebbe perfetto anche per un libro di memorie da serial killer, in realtà ha un grande effetto anticipatore del contenuto che ci aspetta. I Mistic Zippa, infatti, sebbene utilizzino un registro stilistico spesso scanzonato e giocoso, tipico dello Ska e della musica popolare in generale, bilanciano l’effetto goliardico con contenuti sarcastici, ironici, e attuali. La base di partenza è la denuncia sociale e politica, anche se non mancano le eccezioni come “Brivido Calvo”, che sottraendosi alla logica si concede una divagazione scherzosa e funkeggiante giocando appunto con l’annoso e maschile problema della calvizie, o come “Un Amore” in cui si racconta la fine di un amore un po’ burrascoso. Una Volta Si Usava Il Veleno ha un’anima ritmata, festaiola e una spiccata vocazione al ballo, che emerge sia dallo Ska solare alla maniera dei Vallanzaska o dei Persiana Jones di “Desideri”, sia dall’insistente fisarmonica che fa tanto Patchanka di “Lotta”. Non mancano, però, sparpagliate per le undici tracce del disco, influenze e incursioni sonoro di derivazione Rock, da quelle elettroniche, che richiamano il mondo dei Subsonica, nell’uso di tastiere e synth in “Italiani…Diversamente Intelligenti”, alle chitarre dal mood dark e hard di “L’umore” e “Morto”. L’album si ascolta con piacere e scorre facilmente, l’esperienza del gruppo si fa sentire, e precisione e pulizia contraddistinguono tutto il lavoro. Forse qualche sporcatura o graffiatura avrebbe dato qualche brivido e quel pizzico di personalità in più.

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Dr. Quentin & Friends – Dr. Quentin & Friends

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Il fatto che questo EP riesca ad evocare le sonorità di un disco che porta il titolo di London Calling (dopo l’ascolto di “Carry On”) non è roba da poco. Passato però il momento evocativo la musica prende la propria strada. L’omonimo disco del progetto Dr. Quentin & Friends ha infatti molto di suo, a partire dalla voce Quinto Fabio Pallottini (il Dottore), sporca e vissuta, nonostante la sua giovane età, in piacevole contrasto con la voce di accompagnamento, decisamente più melodica. Un EP che evidenzia una marcata fede musicale che viaggia tra Reggae e Punk, e che non dà molto spazio ad altre contaminazioni sonore. Una sezione ritmica precisa ed una chitarra incisiva per la produzione di un suono spensierato e coinvolgente, ma che a volte sa diventare anche malinconico (“Sweet Dirty Music”). Il risultato è un EP contenente pezzi che, una volta ascoltati, entrano in loop nel cervello e sono capaci di rimanerci per giorni. Al tutto si aggiunge la grandissima presenza scenica di Quentin che ho avuto modo di constatare nel corso dello Streetambula Rock Contest 2014, ma non è questa la sede giusta per dilungarsi su questo aspetto. I presupposti per la nascita di un progetto di spessore ci sono tutti. Resta solo da capire se la band è pronta e disposta ad affrontare altre sonorità con le quali arricchire il proprio sound. I pezzi scelti per l’EP difficilmente lo fanno intuire. Non resta dunque che attendere che la dea ispiratrice (ognuno ha la propria) poggi nuovamente la mano sulla testa dei componenti della band per farne uscire nuovi brani ed un lavoro più corposo. Carry on, Dr. Quentin & Friends. Carry on verso un nuovo lavoro.

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Lennon Kelly – Lunga Vita al Re

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Miscelare spirito Punk e sonorità Irish con inserti in dialetto (romagnolo), raccontare “storie vere, di speranza per un futuro migliore, di denuncia sociale e politica mai velata o censurata”: non si può certo dire che i Lennon Kelly cerchino l’originalità a tutti i costi, anzi… Il loro ultimo album, Lunga Vita al Re, è praticamente un album dei (primi?) Modena City Ramblers (c’è persino una comparsata del flautista Franco D’Aniello nell’ultimo brano, la ballata “La Morte di Corbari”). Un album senza infamia e senza lode, suonato con competenza, pieno di canzoni piacevoli ma che non rimangono granché nella testa, soprattutto perché manca una personalità forte, un’identità che li distacchi dai più famosi cugini. Se per voi di musica così non ce n’è mai abbastanza, ascoltateli assolutamente: la fanno molto bene, le canzoni filano, e scommetto che dal vivo sono danzerecci e scatenanti al punto giusto (la title track da questo punto di vista funziona benissimo, ma anche la piratesca “Sangue e Sale”, e in fondo praticamente tutti i brani si portano dentro una bella atmosfera festosa, da pinte di birra scura e balli infuocati). Il problema è riuscire a tenere sotto controllo l’effetto déjà vu, che a tratti è veramente insopportabile, e che purtroppo mina alle fondamenta l’approccio stesso del progetto.

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Colapesce – Egomostro

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Sono trascorsi tre anni dall’ultimo disco ufficiale di Colapesce, tre anni durante i quali il cantautore siciliano ha raccolto pezzi di “mostri” in giro per l’Italia, tre anni per dare vita al nuovo Egomostro. Un disco diverso dalle precedenti produzioni sotto ogni punto di vista, Colapesce appare più maturo e in un certo senso abbastanza “sperimentale”, il sound profuma di anni ottanta, Lucio Battisti che lascia la sicurezza Mogol per sperimentare liberamente. Con il precedente Un Meraviglioso Declino avevamo conosciuto un artista molto legato alla leva cantautorale degli anni zero, apprezzabile e godibile, niente però riusciva a tirarlo fuori dalla mischia con spiccate autorevolezze compositive. Le cose cambiano inevitabilmente, sia nel bene che nel male. Egomostro rappresenta la maturità artistica di Colapesce, un disco certamente poco diretto ma capace di entrarti dentro pian pianino per restarci prepotentemente. Ad un certo punto della vita senti il bisogno impellente di approfondire le cose, di capirne il senso, non per sembrare presuntuoso, soltanto per viverle a pieno. Egomostro racchiude la consapevolezza della maturità che non si ferma davanti alla facciata, Colapesce decide di entrare nel vecchio palazzo per ammirarne tutte le stanze, per respirare quell’aria di chiuso che a molti darebbe fastidio. Dopo l’intro, il disco dimostra subito di essere elettronicamente diverso, quasi Punk, con “Dopo il Diluvio”. Roba fresca, diversamente attraente. Le mie papille percepiscono dell’agrodolce in “Reale”, la ritmica incalzante mette allegria ma l’aria non è delle migliori per sentirsi felici, la tristezza in un certo senso rende riflessivi. Lo stomaco si chiude, la bellezza incontrastata di “Sottocoperta”, la canzone italiana che offre grandi sensazioni, quelle capaci di farti accapponare la pelle, quando pensi che non avresti chiesto di ascoltare di meglio. Colonna sonora da dedicarsi nei momenti più intimi, ad ora il miglior pezzo dell’album almeno per emozioni trasmesse. “Egomostro” torna a portare sperimentazione fine anni settanta, non mi esalto troppo ma ne apprezzo le potenzialità, Colapesce ha deciso di spostare tutte le sonorità del disco su quella strada, sarà la sua personale passione nei confronti di Battiato. Ascolto il mare, penso al vento che taglia la faccia, penso alla dolcezza di una carezza, “L’Altra Guancia” scioglie ogni riserva emotiva alla quale ancora mi ero attaccato. “Maledetti Italiani”, rappresenta tutto il brutto della nostra società, una protesta a cui ultimamente siamo abituati, a cui non facciamo neanche più caso, della quale tutti ci sentiamo vittima senza reagire, inerti. Di Egomostro riesco ad apprezzare quasi tutto, la non convenzionalità dei brani mi rende fiducioso sul futuro della musica italiana, Colapesce si mette in gioco pesantemente e vince. Il disco è indubbiamente di duro impatto, fermarsi al primo ascolto significa non capirne la volontà, significa avere un approccio mediocre e superficiale verso l’arte. Colapesce è tornato in grande stile registrando un disco considerevole, questa volta riesce a togliersi l’etichetta di piccolo cantautore diventando grande, dimostra di saper comporre musica diversa e scrivere testi calibrati. Egomostro sono riuscito a renderlo mio, a farlo aderire alla mia personalità, a capire tutto quello che voleva trasmettere. Egomostro è un grande lavoro, avevamo tutti bisogno di un Colapesce in queste condizioni compositive, ormai non posso più farne a meno.

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Day After Rules – Innocence

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I lodigiani Day After Rules arrivano al secondo lavoro con l’attuale formazione con una buona padronanza degli stilemi del Punk pucciato nel Pop, quell’Hardcore melodico di stampo americano che ha grande successo oltreoceano. Il loro Innocence è un concentrato (sette brani per meno di diciassette minuti) di batterie pestate, chitarre taglienti e una voce (femminile) che sa muoversi tra cantato e urlato con facilità. Se a livello di suoni si può ancora migliorare molto (la batteria suona artificiale e le chitarre in alcuni frangenti appaiono troppo acide) sulla composizione e l’esecuzione siamo ad un buon livello per il genere: i Day After Rules non inventano granché, ma sanno accelerare e rallentare come si deve, spingere quando la musica si gonfia e prende la rincorsa, ripiegare sulla morbidezza e l’armonia quando invece la marea scende (molto apprezzabile l’ondeggiare di “No More Future”, che ha pause quasi Post-Rock). Non fraintendetemi: il disco suona bello cattivo, schiaffeggia a dovere, merito soprattutto delle ritmiche e della voce mai fuori posto di Giulia, cantante e chitarrista, che ci porta alla mente, qua e là, sia una Hayley Williams che una Brody Dalle. Un buon disco di Hc Melodico, tirato, pestato, e sapientemente svuotato e ammorbidito quando serve. È suonato bene e scritto bene per il genere che incarna: forse una minore aderenza al canone avrebbe giovato alla speranza di vita di Innocence, che comunque ci presenta una band che ha studiato e sa addossarsi la responsabilità delle proprie scelte.

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Hot Complotto – Hot Complotto

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Gli Hot Complotto sono un power trio di Varese, che folgorati e fortemente ispirati dal movimento musicale e artistico chiamato Great Complotto, sviluppatosi a Pordenone sul finire degli anni 70, ha messo in piedi la propria particolare idea di musica. A Novembre hanno pubblicato, con l’obiettivo di unire in undici tracce le tante anime gruppo e i diversi caratteri dei suoi componenti, il loro omonimo album d’esordio Hot Complotto . La base di partenza è senza dubbio il Punk inglese, delle belle e salde radici, che si fanno sentire nelle ritmiche veloci e aggressive di brani come “Pezzi di Te” e “Non Voglio Niente” e che aleggiano con qualche leggera deriva Ska per quasi tutto l’album. Le incursioni di altri generi, però, sono sempre dietro l’angolo e come funghi dopo la pioggia spuntano qua e là, dal groove Funk e danzereccio di “Brutte Abitudini” al basso pieno di “Se”, fino alla romantica e intimistica ballad acustica “Neve”. C’è spazio anche per delle belle casse dritte e ben pestate alla maniera del più classico Alternative Rock di stampo inglese, che donano sempre la giusta dose di energia e carica. Gli Hot Complotto, al loro primo lavoro, non si sono di certo risparmiati e hanno messo tanta carne al fuoco, condita di altrettanta originalità. I mix tra ritmi e generi diversi , come tutti gli esperimenti a volte riescono bene e mostrano spunti molto interessanti, e a volte non convincono del tutto come in “Tecnofavole” in cui l’elettronica sminuisce anziché arricchire le potenzialità del brano. Detto questo, ai ragazzi sicuramente non mancano energia e passione che ben si sentono nei suoni carichi di forza e nell’impatto generale del disco, purtroppo però l’eccessivo mix tende a creare un po’ di smarrimento e rende molto frammentata la percezione e l’identità del gruppo. Considerato che stiamo parlando e ascoltando un disco d’esordio, bisogna premiare la volontà di proporre un progetto personale, nuovo, che ricerca soluzioni originali, e si spinge verso sperimentazioni giocose, anche se non sempre convincenti al 100%. Come si dice non tutte le ciambelle riesconocol buco, noi nel frattempo li aspetteremo, fiduciosi, al prossimo lavoro.

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Vintage Violence – Senza Paura delle Rovine

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I Vintage Violence hanno il dono delle frasi ad effetto. Il loro ultimo disco, Senza Paura delle Rovine, ne è pieno: Anche gli ergastolani hanno paura di morire, chiosano in “Neopaganesimo”; e Fare musica in Italia è come abbronzarsi il culo / Se ne accorgono solo in pochi se non lo dai via nella traccia seguente, per l’appunto “Abbronzarsi il Culo”, giusto per fare due esempi. Sono incazzati neri, i Vintage Violence: si sente soprattutto nei testi, nelle ritmiche incessanti e nelle chitarre taglienti, anche se tutto poi vira verso un Punk Rock giocherellone, ironico, dove la voce vola alta e pulita in rime baciate e cadenze alla Zen Circus. Ma sono incazzati veramente, e ce l’hanno con tutti: con la musica italiana (“Abbronzarsi il Culo”), con la SIAE (“S.I.A.E.”), con le magagne del nostro presente, in questo caso specificamente lombardo (“Metereopatia”, “Vivere in un Bilocale”). Finiremo tutti in ospedale / Vince chi ci va con una storia originale. L’importante è dire tutto, raccontare storie, sputarle in faccia, Suonando canzoni per chi muore / Come una bomba fatta esplodere nel sole, senza aver paura, anzi, con l’intento palese di scandalizzare, di smuovere, di colpire forte, satireggiando ghignanti, senza far mancare, in sottofondo, una lucidità critica invidiabile. E forse non è un caso che tra i pilastri del disco si scovino le fondamenta della satira: politica, sesso, religione e morte, come diceva qualcuno…

Un’audacia encomiabile che però rimane a mezz’aria, legata all’aspetto di canzonette che qua e là hanno i brani del disco: sebbene suonati e prodotti con ogni crisma, mi hanno lasciato, alla fine, con la sensazione di aver bisogno, nel reparto musicale, di più graffi, più rabbia. Questione di gusti, comunque: nel frattempo mi riascolto “Capiscimi” senza smettere di sorridere a denti molto, molto, stretti. Stanotte ti voglio scopare / Davanti allo specchio con le luci accese / Anche i gatti confusi che guardano / Compariranno nelle riprese […] / Ma appena prima che il fuoco si estingua apri la bocca al mio segnale / Devo scriverti sotto la lingua un titolo adatto per il finale…

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Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere – Tutto

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Fate un esperimento. Andate sulla loro pagina Fecebook e leggete come si descrivono. Poi andate a cercare e sentire la loro musica sul bandcamp dove hanno messo a disposizione gratuitamente il loro disco, Tutto. Troverete che si descrivono come un Power Trio che fa nuovo Punk italiano. Si collocano tra i Nirvana e Rino Gaetano, ma è ovvio andare a pensare ai Verdena quando il lettore inizia a macinare note. Fabrizio (chitarra e voce), Enrico (batteria) e Cristiano (basso) sono Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere,  e vengono da Piacenza. Applicano l’italiano a un Rock dal sapore internazionale. Quattro versi (i testi sono a disposizione sul bandcamp) ripetuti in un loop straniante, ma non ossessivo. Non perché “così che ci vuole a scrivere canzoni?”, ma perché in quattro frasi si può racchiudere l’essenza del racconto, l’immagine o la sensazione che si vuole trasmettere. Punk in questo, (inevitabile, per certi versi, andare a pensare ai Tre Allegri Ragazzi Morti) essenziali fino al midollo, ma non banali. Fabrizio canta con voce graffiata su un giro che è pronto ad esplodere. Come se si dovesse trattenere, perché è la musica a dare l’intensità adeguata al messaggio. Da sentire e risentire, senza lasciarsi fregare dal primo ascolto. Se non vi colpiscono subito, non vi fidate della prima impressione, del resto ceci n’est pas une musique commerciale. Parola di Sacerdotesse.

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Jack White – Lazaretto

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Jack White è un tipo particolare, si sa, visibilmente eccentrico almeno nelle apparizioni ufficiali. Il suo look ultimamente è l’incrocio perfetto tra il surrogato Rock di Johnny Deep e un vampiro. Tanto eloquente è la cover di questo secondo e necessario album da solista; lui bianco pallido seduto su un trono di angeli, nel centro esatto della copertina, con la faccia imbruttita e una tinta blu glaciale che fa da sfondo. Diciamocelo, White, che ci piaccia o no, è uno che non lascia nulla al caso. Una chicca, se così può essere considerata, per i collezionisti, è il vinile: la testina del giradischi va posizionata alla fine del disco, verso il centro, l’album gira al contrario; sulle scanalature ci sono dei piccoli ologrammi raffiguranti gli angeli di copertina che risaltano alla luce e tengono i nostri occhi inchiodati sul disco che gira; la prima canzone sul lato B, “Just One Drink”, ha una doppia scanalatura che si traduce in una doppia intro, acustica/elettrica, in base a dove finisce l’ago della testina. Fissazioni?!

Ma arriviamo all’album, anzi, alla musica. Lazaretto è un’altalena in cui fluiscono sfumature di vari generi nella prosa Blues, oscura e psichedelica, di White. Una gestazione durata più di un anno al contrario dei precedenti album registrati in una manciata di giorni. White si chiude a Nashville nella sua Third Man Records, il suo Lazzaretto, luogo di confine per appestati e lebbrosi, catalizzando i suoni del suo passato e mettendo una distanza netta dagli White Stripes e trovando un mood più pieno, meno minimal. Tanta la strumentazione utilizzata ma permangono su tutto l’album soprattutto il magnifico suono del pedal steel di accompagnamento, i vari synth moog suonati alla barrelhouse come si faceva nei vecchi saloon western, mandolino Folk e ovviamente l’immancabile frastuono della sua chitarra elettrica; “High Ball Stepper” ne è un esempio perfetto. L’album si apre con “Three Women”, organo hammond in stile big band, propulsione R’n’B e disturbi di chitarra elettrificata. Si parte da qui, anche se la riconoscerete forse solo per il testo, questa è una cover del cieco (blind) Willie McTell (1928), alle radici del Blues quindi, alle radici della musica moderna. Tutto il disco risulta avvolgente, modulato a tal punto che si ascolta senza problemi, dal Blues più ritmico di “Lazaretto”, seconda traccia, a quello Country di “Temporary Ground”. Dalla malinconia desolante di “Whould You Fight for my Love?”, con i suoi cori tetri, alla più Punk “Just One Drink”, molto President of U.S.A..

Con questo lavoro White, dopo essere diventato una star con gli White Stripes, cerca la consacrazione nella Rock and Roll Hall of Fame. Undici pezzi impeccabili stilisticamente che ne fanno un lavoro da non perdere assolutamente. Godetevelo!

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