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Rainska – Media Stalking

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Ci sono voluti ben cinque anni per sfornare il primo disco dei Rainska, Lo Specchio delle Vanità ed altrettanti per la loro seconda fatica discografica, Media Stalking. Prodotto con l’etichetta discografica Udedi, registrato presso gli studi de La Baia dei Porci di Nereto, e mixato e masterizzato presso l’Indie Box MusicHall di Brescia, il disco vede la partecipazione di Totonno DUFF nell’opening “Le Bocconiane”, Maury RFC ne “Il ‘93” e Clode LAZULI in “500 Lire”. Oggi lo Ska (o Bluebeat, chiamatelo come volete) non è certamente più di moda come quando nacque nei primi anni Sessanta quando da esso derivarono altri generi che poi divennero persino più famosi quali il Reggae e il Rocksteady. Lorenzo Reale (voce), Angelo Di Nicola (chitarra e voce), Giulio Di Furia (basso e voce), Lorenzo Mazzaufo (batteria), Pierpaolo Candeloro (sax), Eliana Blasi (tromba) e Martina D’Alessandro (sax) ce la mettono tutta quindi per emozionare l’ascoltatore sin dall’incipit della già citata “Le Bocconiane”.

Il risultato è certamente egregio, ma forse da un gruppo che ha festeggiato il decennale della carriera (pochi vi riescono) ci si aspettava anche qualcosa di più. Gli spiriti di Madness e The (English) Beat per fortuna rimangono costanti con i sette teramani sino alla fine garantendo loro un buon fine. Un ulteriore sforzo poteva essere fatto inoltre anche a livello di testi, talvolta troppo semplici ma certamente di sicuro effetto ed il sospetto è che si sia badato più agli arrangiamenti dei fiati che a tutto il resto. Del resto di esperienza ormai ne hanno accumulata talmente tanta da garantire loro la presenza su prestigiosi palchi al fianco di artisti famosi quali Shandon, Punkreas, Velvet, Piero Pelù, Teatro degli Orrori, Giuliano Palma & The Bluebeaters, Paolo Benvegnù, Linea 77, Vallanzaska, Africa Unite e Bandabardò. Dopo tanti e ripetuti ascolti ci si abitua anche al sound che a tratti ricorda persino quello della premiata ditta Sting / Summers / Copeland, ovvero dei Police, e talvolta persino quello del Punk anni Novanta dei Green Day e degli Offspring. Consigliato a chi vuol passare quaranta minuti circa in allegria, da evitare per chi non sa apprezzare Ska e Reggae.

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2nd District – What’s Inside You

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Di Punk-Glam-Sleazy Rock credo se ne sia visto a bizzeffe negli ultimi quindici anni, soprattutto nel Nord Europa. C’è chi ha solamente messo due litri di lacca nei capelli, si è piazzato qualche tatuaggio da duro e ha smaltato gli occhi con l’eyeliner più resistente. Ma come in tutti i fenomeni di costume, c’è chi ha pure sfornato un pane molto gustoso per gli amanti del genere. Ha preso l’eredità di Guns N’Roses e Hanoi Rocks dando una forma al proprio suono, con canzonette che sicuramente non entreranno mai nella Rock N’Roll Hall of Fame, ma hanno fatto muovere il culetto a migliaia di ragazzini in calore. Detto onestamente, tra queste band fino a ieri io non avrei mai inserito i tedeschi 2nd District. Visti dal vivo un anno e mezzo fa a Torino di supporto ai Prima Donna (band da tenere d’occhio), i quattro non mi avevano particolarmente colpito né per attitudine, né per groove e tanto meno per le canzoni. Su questo disco invece svoltano. Il loro secondo album suona un Power Pop facile, diretto, schietto. Tra accenni di Post Punk e il sound ruffiano e moderno dei Pretty Reckless. Con la voce di Marc de Burgh in primo piano che non strappa di certo via le nostre orecchie con violenza, ma anzi spesso è sinuosa e femminea. Verrebbe da ridere a pensare che un omone vestito scuro e con i braccioni tatuati possa cantare in questa maniera, ma tra un sorriso che scappa e uno scossone alla testa in segno di disapprovazione, ci viene pure da battere il piedino a tempo.

Il giro di basso per nulla banale che introduce “Broken Bits of a Lifetime” ci porta diretti su un treno veloce che mantiene però ben salda la traiettoria. Nulla di nuovo insomma, tanti power cords e assolini, ma una buonissima intuizione melodica. “Borgeoise Attitude” è il brano di punta del disco, i Backyard Babies sono un po’ ammorbiditi, ma il richiamo al freddo sound svedese è praticamente scontato. “Wherever” è più facile, ma non manca di mordente con un ritornello scanzonato e cantato a squarciagola in coro. Basso e batteria stanno sui binari e vantano un amalgama furba, mai troppo calda e mai troppo fredda. Giusto per rimanere ben ancorati alla locazione geografica. “Market Crash” e “Bad Habit” pagano il loro tributo al glorioso Punk inglese targato 1977, con rullate veloci e ritornelli da calci in faccia, invece “Pain Museum” è uno dei pochi episodi “ricercati”. Sia ben chiaro: senza esagerazione, con il ritornello da chitarra in spiaggia e l’eyeliner che si sfalda e cola nel romanticismo più bieco.

In ogni caso questo è un disco che si fa ascoltare tutto d’un fiato (dote rarissima al giorno d’oggi) e soprattutto è degna di nota l’assenza di riempitivi. E sebbene possa suonare a tratti banalotto, ha nel suo punto di forza l’ottimo bilanciamento tra Pop mainstream e Punk incazzoso, tutto in equilibrio senza forzature. Il rischio era forte, ma per fortuna questa pare non essere musica scritta per mettersi semplicemente in vetrina.

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Coconuts Killer Band – Party ‘n’ Fun

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La Coconuts Killer Band nasce nel 2010 dalle menti di Mick e “Little Demon Sim”, fratelli e rispettivamente chitarrista e batterista di quella che ben presto diventerà una tipica Rock’n’Roll band. Ma come fare una Rock’n’Roll band senza prima una particolare voce con un carisma non indifferente? Ed ecco che alla formazione si aggiunge il cantante John Ron Carpenter, il bassista Ste Doc, il tastierista El Gringo e le killer babies Jade & Gretha. Il gruppo al completo quindi comincia a girare sulla loro instancabile Lemmy Van per diversi locali e festival, partecipando come gruppo spalla a concerti de Il Pan del Diavolo, Moltheni, Zamboni &Baraldi ecc, e vincendo concorsi come “Sotterranea Rock Contest” di San Benedetto del Tronto e il “B-live alternative” di Cosenza che li porterà a suonare in Germania, Belgio, Olanda, Svizzera e Austria nel 2014.

Insomma tre anni davvero pieni per la band abruzzese che nel 2013 esce con la loro prima Demo. Quattro tracce che in toto rappresentano il loro stile predominante che è quello Rock’n’Roll con una spruzzata di altri generi, soprattutto Garage e Punk, tanto per colorire e rendere più gustosa la modernità. Appena parte la prima traccia “No! No!” non è difficile immaginare l’atmosfera fatta di ciuffi alla pompadour, maniche a giro, coriste in rosso che ciampettano una semplice coreografia e lui, microfono simile a un MS-55 Elvis stile anni sessanta che primeggia davanti a tutti. “Party’n’Fun” si muove invece in quel Rockabilly tipico degli anni Cinquanta-Sessanta, periodo che si respira anche nel quarto brano della demo “Last Day” che riconferma prima di tutto la loro conoscenza del genere e del periodo in questione, certamente come “Running Wild” posto come finale eclettico e ritmato.

Insomma i Coconuts Killer Band con questo lavoro dimostrano qualcosa. La passione per gli anni Cinquanta-Sessanta, la padronanza delle loro intenzioni, la tecnica musicale, la voglia di girare e farsi conoscere; infatti il gruppo nell’arco della sua breve vita artistica ha collezionato più di trecento live che non si fermeranno certamente ora. A tutto questo si aggiunge la peculiarità di genere utile soprattutto in realtà festaiole e goliardiche per ballare, sballarsi e non pensare troppo. Tutto può sembrare positivo, elettrizzante e centrato nel punto. Ed ecco che il punto è proprio questo: troppo centrati in una sola epoca, troppo simili ad uno stampino di Elvis, tutto già sentito, già suonato e già vissuto. Quindi perché non usare questa tecnica e bravura musicale per creare qualcos’altro? Magari è l’inglese a rendere un po’ tutto scontato al contrario dell’italiano che sarebbe probabilmente più interessante. Insomma tutti gli elementi ci sono, manca solo quel quid in più.

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Paul Collins in Italia!

Written by Senza categoria

Quello che nella seconda metà degli anni 70 veniva chiamato Power Pop altro non era se non Beat sporcato di Punk. E tra le leggende di quell’epoca aurea c’erano i The Beat di Paul Collins, uno che la storia l’aveva fatta già coi Nerves (è loro l’hit planetaria “Hanging on the Telephone”) e che in oltre trent’anni di carriera ha influenzato (ed è stato copiato) da decine e decine di band: dai Blondie ai Green Day. Paul Collins la storia ha continuato a farla sino ad oggi senza mai tradire il suo antico amore per il Pop e il Rock’n’Roll. L’ultimo album di Paul si intitola King of Power Pop: difficile obiettare. Ecco le tre date italiane del tour europeo, che vedrà, oltre allo storico musicista americano anche la presenza dei Miss Chain & The Broken Heels, reduci da un fulminante tour americano di oltre un mese e già pronti a ripartire per quella che sarà la loro prima volta in Francia.

14/11 GIO – Edonè – Bergamo
15/11 VEN – United Club – Torino + Miss Chain & The Broken Heels
23/11 SAB – Bounty – Thiene (VI) + Miss Chain & The Broken Heels

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Indelirium Records Festeggia Dieci Anni!

Written by Interviste

Indelirium Records festeggia dieci anni di attività e noi di Rockambula non potevamo non fare qualche domanda al fondatore Emiliano Amicosante (conoscenza importantissima di Rockambula). Una chiacchierata veloce ma intensa per cercare di capire cosa vuol dire stampare fisicamente cd e produrre Hardcore in un duemilatredici infettato dal sistema internet.

Indelirium Records festeggia dieci anni, ci vuoi spiegare cos’è e come è nata Indelirium Records?
Indelirium Records è una piccola etichetta discografica nata con la voglia di dare una mano ad amici e band HardCore e Punk Rock della scena musicale italiana.

Dieci anni sono una bella età, quali sono state le peggiori e le migliori cose fatte in questi anni?
La cosa peggiore che ho fatto è sicuramente stata mettere su la label, poi per rimediare a questo grande errore, ho dovuto fare 55 Release Top.

Pensi che le etichette indipendenti (ma anche non) abbiano ancora qualcosa da dire nella musica attuale? Le trovi ancora importanti? Perché?
Purtroppo proprio giorni fa pensavo a questo argomento. Dopo varie riflessioni posso affermare con tanto disagio (ma solo perchè a me diverte gestire band ed avere a che fare con loro) che le piccole label come le grandi label oggi hanno ben poco da dire. Un ruolo importante potrebbero averlo queste nuove figure di manager o uffici stampa che si occupano del marketing delle band, ma le etichette come una volta forse non servono più. Prima una label aveva i contatti diretti con i distributori e negozi di settore (diciamo in tutto il mondo e comunque in territori molto vasti). Oggi con il disco fisico che non ha più tiro diventa inutile tutto questo dispendio di energie per distribuire un album. Per concludere, posso dire che oggi la musica è al 100% della band che se la canta e se la suona grazie a servizi di distribuzione digitale.

Stampare dischi ha ancora senso?
Assolutamente no!! Diciamo che per massimo un paio d’anni il CD potrebbe rimanere il souvenir del concerto da affiancare alle tante maglie colorate da acquistare nei banchetti. Ma tra due tre anni non avranno più senso. Se pensate che già da più di un anno sui nuovi Mac non vengono più montanti i lettori cd questa cosa già basta per rispondere alla domanda.

Ci parli delle soddisfazioni che hai vissuto con le band del tuo roster?
Soddisfazioni tantissime ma senza fare nomi di band, una delle prime cose belle sono state le tante vendite di dischi che arrivavano dal Giappone e Sud America. Delle vere soddisfazioni…

Un episodio totalmente negativo che vorresti raccontare?
Forse in dieci anni sicuramente sono successe anche cose sgradevoli, ma posso dire che se ci sono state le ho totalmente rimosse… in fin dai conti Indelirium Records è una label TOP, BEST e DA PAURA.

Stampare dischi non ha più senso?
Assolutamente no!! Diciamo che per massimo un paio d’anni il CD potrebbe rimanere il souvenir del concerto da affiancare alle tante maglie colorate da acquistare nei banchetti. Ma tra due tre anni non avranno più senso. Se pensate che già da più di un anno sui nuovi Mac non vengono più montanti i lettori cd questa cosa già basta per rispondere alla domanda.

La tua è un etichetta quasi completamente HC, pensi che la linea vada seguita sempre e comunque evitando modaioli generi che spopolano nell’ambiente Indie italiano? Non credi che un estremismo eccessivo possa essere causa di autolesionismo?
Penso che una label che nasce esclusivamente per divertimento possa fare quello che vuole, variare dal Rock demenziale al Metal brutale. Io personalmente fin dall’inizio ho sempre voluto dare alla mia etichetta un taglio ben preciso e non penso che in futuro sperimenterò su cose diverse dal Punk Rock o Hardcore.

Progetti futuri?
Continuare per un po’ a fare uscite fisiche di Punk Rock Hardcore e poi meditare se buttare la spugna e fare solo uscite digitali.

Parlaci della tua visione della musica in Italia, cosa andrebbe o non andrebbe fatto per rendere accettabile la qualità della musica in circolazione?
Penso che grazie al web il livello qualitativo delle band si è alzato molto. Bisognerebbe salvaguardare e migliorare l’aspetto live e di conseguenza sarebbe bello se in Italia si iniziassero a valorizzare i Live Club e farli diventare professionali e rispettosi nei confronti delle band come per esempio succede in nel resto d’Europa.

Cosa ti piace fuori dal mondo HC, ascolterai anche altro?
Ascolto veramente tantissima musica dal Black Metal al Pop Punk per poi passare al Indie
Rock per quanto riguarda l’ HC non lo ritengo un genere musicale ma passione è stile di vita

Grazie, questo è un piccolo spazio per fare promozione alla tua attività…
Grazie a voi per lo spazio che ci avete concesso, veniteci a trovare sulla pagina Facebook per scoprire tutte le nostre produzioni!
https://www.facebook.com/indeliriumrecords

Una produzione Indelirium Records

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Cayman The Animal – Aquafelix

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Prendete un po’ di Hardcore anni 90, miscelatelo ben bene con un po’ di Noise, aggiungete tanto sano Punk e Rock’n Roll ed otterrete il disco dei Cayman The Animal, gruppo nato sull’asse Roma / Perugia (a seconda di come gli conviene). A tratti Nofx, a tratti Black Flag, questo lavoro potrebbe rivelarsi una piccola gemma nel panorama indipendente italiano. Non sentitevi vecchi quindi se l’ascolterete perché pur avendo molto di già sentito (dagli anni Ottanta e Novanta è uscita comunque molta roba di altissimo livello), Aquafelix può essere considerato un pronipote di quella generazione che tanto ha dato e continua a dare a livello musicale. E nella migliore tradizione del genere ecco quindi che in soli diciannove minuti vedrete condensato un mondo fatto di accelerazioni sonore e di stop che lasciano indubbiamente soddisfatto l’ascoltatore.

Giusto quindi parlare di EP nonostante siano ben nove i brani contenuti al suo interno. Evidente l’eredità raccolta dai mitici Ramones, padri (o nonni?) del Punk moderno, soprattutto nell’opening “Cayman Jr.” e dai Dead Kennedys di Jello Biafra in “Killed by the Golden Gun”. Sono presenti invece un pizzico di ironia anche in “Next Stop Orte” ed in “I Say Prévert – You Say Pervert”e di sano rumorismo in “Here Comes the End Part II”. Qualche effetto in più del solito in “Donkey Man” tinge di curioso il disco che ritrova nuova linfa in “Shiny Happy People Dying”. Una risata e un urlo invece vi accoglieranno in “Rock ‘n’ Roll Ice Cream”prima della conclusiva bonus track “Next Stop Orte Special Version” che però aggiunge poco a quanto detto precedentemente e come dicono proprio qui i Cayman The Animal: “Hai capito?”.

Altrimenti, se qualcosa non vi è chiaro, mettete su un disco della hit parade ma di certo non ne guadagnerete nell’ascolto. “Aquafelix” è stato registrato, mixato e masterizzato da Valerio Fisik all’Hombre Lobo Studio di Roma nella primavera del 2013 mentrele voci sono state registrate da Alberto Travetti all’HD Studio Perugia. Degna di nota anche la copertina artistica a cura di Ratigher.

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Mr Boonekamp – Turn Off Fake Reality

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Il Veneto è da sempre una regione incubatrice per band emergenti e non, che abbracciano i suoni del Grunge e del Punk. Oggi è la volta dei Mr Boonekamp, quartetto di giovanotti veneziani che dopo alcune vicissitudini, periodi bui e cambio di formazione, si presentano, orami già da qualche mese, con un secondo album dal titolo Turn Off Fake Reality. Scorrendo velocemente tra le dieci tracce si percepisce subito una forte influenza proveniente della cultura cinematografica horror degli anni 80, tanto che molti dei personaggi descritti potrebbero benissimo essere grotteschi protagonisti di qualche serie splatter un po’ datata, scampati a qualche epidemia apocalittica “Splatters”, in preda a manie da stalker “Jeremy The Stalker”o rincorsi da mostri plasticosi “Tremors”.

Musicalmente il background dei veneziani è,anche in questo caso,marcatamente old school, con un sound figlio legittimo delle sonorità Grunge dei Nirvana e dei Soudgarden, a tratti però decisamente più violento e rumoroso. L’energià e l’impatto rappresentano i cardini del gruppo  e pervadono tutti i brani, non c’è spazio per sentimentalismi e fughe romantiche per campi bagnati dalla rugiada, tutto è duro, incazzato, sballato quanto basta. Non mancano poi pezzi  come “Problem” e “A Culple of Bitches” definibili come ibridi Rock, che fanno dell’accelerazione e della velocità del Punk il loro fulcro. Vocalmente sono nuovamente i Nirvana icreditori assoluti del gruppo, e Francesco,voce e chitarra, si avvicina molto col suo cantato a quella pasta vocale un po’malata e ubriaca che cotraddistingueva  Kobain. Turn Off Fake Reality è a conti fatti un disco che pesca dal passato, in quel  calderone dell’underground sudicio e sporco degli anni 80,  adatto ai maleodoranti locali, spesso malfrequentati di una periferia metropolitana.  A tratti ironico e grottesco e a tratti eccessivamente autoreferenziale “Boonekamp World”, sulla carta ha molti numeri, ma in fondo non colpisce e spicca per grandi novità. Decisamente adatto a chi sulla propria cartà d’identità, alla voce occupazione, preferirebbe mettere pogatore selvaggio e molesto ad attento e sodfisticato ascoltatore musicale.

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Jerry Moovers – A Cresta Alta

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Questa non me l’aspettavo. Forse non ci pensavo neanche più. Come se tutto quello che ho vissuto (oserei dire quasi “subito”) nei concerti di fine anno del liceo fosse scomparso insieme ai miei brufoli, ai pantaloni larghi coi tasconi e allo zaino scarabocchiato dell’Invicta. E’ un dato di fatto: uno dei “desaparecido” della musica underground anni 10 pare proprio essere il verace e diretto Punk. Certo, vive ancora di rendita grazie ai grandiosi fasti di fine anni 90. Vive nelle sue forme più spinte e più smussate, vive nelle puzzolenti cantine Hardcore e nelle altalenanti classifiche, in cui a volte fa stile scomodarlo. Sopravvive come un virus difficile da estirpare, ancorato nelle venature della musica americana e britannica, ma la sua forma più grezza, più pura, pare essere un vecchio ricordo sbiadito.

Non tutti però la pensano così, o forse sarebbe meglio dire che se ne fottono. E i Jerry Moovers da Bergamo, già a vederli in faccia, pare proprio che se ne fottano alla grande. Seppure giovanissimi vantano numerosi concerti (a dire il vero però quasi tutti nei paraggi di casa) e un secondo disco in uscita, dal titolo inequivocabile: “A Cresta Alta”. Sulla musica poco da dire, se non che il disco è suonato strabene, prodotto con la giusta dose di marciume che non snatura l’essenza del genere. Rullate velocissime, basso plettrato ipermedioso e assoli di chitarra scrausi sono le scelte sicure ma anche le carte vincenti. Il riffone alla Sum 41 nell’intro “Punto di Domanda” ci indica subito la direzione da seguire. Se cercate ciuffi fashion, facce da pomeriggio su MTV o singoli per le vostre comode playlist, questo non è il disco per voi. Questo disco è sigarette fumate di nascosto, pomiciate a caso e pogo davanti a piccoli palchi sudici. Questo disco è più Rock’n Roll di quanto possa sembrarvi. Sparato ai mille all’ora già dal secondo pezzo, “Solo” dimostra che i ragazzi non sono poi così immaturi e sfoggiano pezzi mai banali, nonostante la musica e il cantato di Jako non lascino grande spazio alla fantasia e il rimando ai “classici” (Pornoriviste, Derozer e Punkreas) sia dietro l’angolo.

“Tra Sogni e Realtà” dona linfa e brucia di speranze, che sentite in bocche così giovani strappa un sorriso e fa stringere più forte i pugni, “Il Rumore del Silenzio” e “Ricorda” si spingono verso ritmiche più Hardcore dove il rullante di Seba sembra tagliare le casse a pezzettini. “Veronica” è invece il pezzo che ti aspetti, melodico, spudoratamente adolescenziale e tutto di un fiato. Un piacevole cliché. Inutile ingannarci, questo non sarà mai il disco dell’anno e i Jerry Moovers non saranno mai la band rivelazione dell’underground italiano. Potrei facilmente cavarmela dicendo che sono nati tardi, con un genere che spesso è stato considerato (da me per primo) facilotto e usa e getta. Ma scordiamoci di tutto: dei riff già sentiti, delle facili polemiche contro l’America e delle “creste alte”. Apriamo gli occhi. Qui dentro c’è la foga di fare musica per bisogno esistenziale. C’è tutta la passione che vorrei incontrare ogni volta che ascolto un disco di una giovane band. E datemi del romantico, ma sono ancora convinto che senza questa passione non si combini un bel cazzo.

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Inbred Knuckelhead – Family Album

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Un italiano, uno svedese, un egiziano e un americano si trovano a Roma. Ora ci si aspetterebbe una mirabolante barzelletta dal finale esilarante ed invece ci troviamo davanti agli Inbred Knuckelhead. Il gruppo, romano di adozione ma multietnico nella composizione, si presenta dopo tre anni di silenzio dall’album di debutto con il nuovo lavoro Family Album. Premesso che avendo un debole per i cd, nonostante faccia largo uso di musica digitale, mi sono deliziata a spulciare con attenzione quello realizzato da questi ragazzoni. La cosa più interessante e che l’esterno rispecchia molto fedelmente l’interno. Nessun inganno frutto dell’apparenza ma solo una buona dose di coerenza. A più riprese nelle molteplici sfaccettature di questa band si ritrova un legame tra la musica e il modo di presentarsi visivamente. Di primo acchito e ascolto quella più evidente è l’ironia. Questa è espressa, dal punto di vista visivo nei parossistici personaggi che compongono il personale album di famiglia del gruppo, e da quello musicale con brani che attingono a piene mani dalle sonorità indiavolate e scanzonate dello Ska e del Punk, come “Remenber When” che apre le danze o “Revolution”.

Una seconda sfaccettatura è quella della voce gutturale di Marco Vallini, delle chitarre distorte e dall’animo scuro certamente Grindcore, che troviamo in “Circus” e “Recombine”e anche qua e là sparpagliate in fugaci apparizioni. Insomma molti tratti, ben marcati e tinteggiati da colori netti sembrano rappresentare la chiave di quest’album, come il lavoro di chi con cura si dedica a realizzare scatti multipli della stessa fotografia per non perdersi nessun dettaglio. Su questa scia le prime tracce quasi volano piacevolmente finché non s’inciampa in “Gypsy Girls”, e si rimane spiazzati da un brano fatto di chitarrine, nacchere, cowboy e indiani. Non sembra nemmeno di ascoltare lo stesso gruppo se non fosse per la voce di Mike Botula. Conclusa la parentesi vado in Messico si risale la china e si ritorna ad ascoltare brani fatti da un mix di Punk e Ska alternato a giri di chitarre che rasentano sentori Metal e qualche intonazione Country Blues, per terminare con una doppietta “Transform” e “Tekkno”decisamente più dura e nera.  Gli Inbred Knuckelhaed sono un gruppo interessante per composizione e per la miscela a volte esplosiva che riescono a creare, ma al tempo stesso le molteplici anime che muovono le corde del gruppo, forti e innatamente dure come nocche, lo portano a realizzare brani ibridi dal sapore un po’ incerto, dove generi diversi s’innestano l’uno sull’altro. Family Album è un lavoro curato a volte con qualche indecisione che lo fa zoppicare sullo stile perché molto focalizzato a dare voce a troppi dettagli, ma che rappresenta alla perfezione l’incontro delle anime musicali di un rapper italiano, un chitarrista Hardcore svedese, un batterista egiziano, di fatto ma non di nome e un americano della weast coast con il Funk nelle vene. Se non vi fidate schiacciate pure il tasto play.

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L’AMO – NIENTE (È un Bel Pensiero da Mettere Tra le Gambe Alle Ragazze)

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L’AMO sono Alessio, Domenico e Federico, tre pazzi furiosi che un paio di anni fa si sono chiusi in una cascina in quel di Lugnano per sette giorni sfornando un disco dal nome Di Primavera in Primavera. Bene, ora invece la situazione é un po’ diversa e NIENTE (È un Bel Pensiero da Mettere Tra le Gambe Alle Ragazze) é un disco che nasce ancor prima di entrare in studio, più precisamente dall’idea di voler fare un disco e dalla consapevolezza che per realizzarlo lo bisogna prima preparare e non solo suonare. Quindi hanno cambiato milioni di microfoni, registrato miliardi di takes, mixato e rimixato l’impossibile, mandato a fanculo il progetto, e infine sono riusciti a partorire un benedettissimo album dopo un lungo travaglio di quattro maledettissimi mesi e bestemmie. Il figlio dei L’AMO è un cd che contiene l’idea dell’amore e del suo contorno, fatto di lussuria, depressione, deficienza, follia, insomma fatto di vita e sudore (e quindi anche di puzza). Ok, dunque dopo aver premuto play, capito che l’artwork del disco l’ha realizzato Alessio e letto l’artistica, divertente e curiosa cartella stampa, con un grosso sorriso sulla faccia mi metto a dire qualche parola su quello che le mie orecchie stanno ascoltando.

Chitarre R’n’R, Synth anni 80, batteria che ti stampa la cassa in fronte e cori da stadio, questa è “Bagnoli”, e così si apre il disco. Con “Marinai” i tre ragazzi ci tengono a farci capire sin da subito che sono napoletani D.O.C. fieri del proprio mare in cui poter affogare, mentre in “È Amore Dalla Terza in Poi” ci ricordano come era l’amore adolescenziale, e cioè fatto di quei piccoli gesti imbarazzanti come chiedere: Mi fai accendere?. “Luca Grieco è solo indeciso” é la storia del classico uomo che lascia le proprie relazioni fluttuare in quell’aria troppo densa di domande e di incerte risposte. “Nessun rimorso, solo rimpianti” é sintetica, dal testo talmente misero da starci in una riga –  Ho sempre fretta, non so cos’è. Io ho paura del domani – insomma è veloce ed efficace. “Stupida” è una ragazza ingenua e frivola mentre “La Macchina da Guerra” è il centro di NIENTE (È un Bel Pensiero da Mettere Tra le Gambe Alle Ragazze) e cioè quel nulla che non si vorrebbe mai avere ma che invece si riceve, poi c’è l’assurda “Silvio e Veronica” e “Anna”, traccia d’addio con tanto di Synth a mo di videogame. Si chiude il tutto con “Ubriaca”, il brano più lungo di tutti e forse anche quello che lascia aperte più possibilità di diverse interpretazioni, perché qui stranamente pare proprio che l’alcol non centri nulla. Tutto bene quel che finisce bene insomma, l’unica cosa che mi sentirei di consigliare è un pizzico di volume in tutte le vocal track, in quanto spesso si fatica a comprendere ciò che viene cantato e/o gridato.

Per concludere, L’AMO sono un po’ come i Tre Allegri Ragazzi Morti, infatti sono anche loro un trio, generano canzoni ripetitive ma mai noiose fatte di loop al confine tra Rock spensierato e cazzutaggine Punk, non realizzano brani in sequenza intro-strofa-ritornello, e possiedono quella magica capacità di mettere tutto insieme in modo da mandarti in tilt il cervello fino allo sfinimento. L’AMO sono l’emblema della sintesi, fatta di poche parole ma sensate, o forse loro preferirebbero dire: insensate.

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Gary Wrong Group – Knights of Misery EP

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Questa è una situazione particolare, una situazione in cui voglio mostrare ciò che circola oltre oceano, nelle più remote scene underground made USA. Ok?! Oltre le consuete recensioni made in Italy e oltre il mainstream bigotto dei soliti artisti on air sulle grandi stazioni stellari. Ogni tanto, cari miei, è bene anche uscire di casa e farsi un giro, andare a pescare band non nei soliti calderoni, salotti per buone orecchie fatti di mail e dischi recapitati a casa, ma spulciare la rete come scimpanzé. Quindi, questa volta, vi beccate un po’ di monnezza americana.

Tocca ai Gary Wrong, formazione strampalata con un sound Punk sporco, inacidito, fatto di zozzi riff, percussioni primordiali, voci soffuse, stridenti e synth schizoidi. Escono, a inizio mese,  con Knights of Misery, Ep che a oggi ha già esaurito le poche copie stampate, per la Total Punk Records; 6 tracce di brodaglia Punk composte sotto l’influenza di “DitchWeed”, erbaccia, nelle tarde ore della notte in un luogo sconosciuto dell’Alabama. Può risultare una cagata pazzesca se non siete amanti dei gruppi Garage o una super scopata che vi porterà confusione nei prossimi giorni. Allora preparatevi a sentire le minacciose risate del signor Gary mescolate a organi sgocciolanti, rumori inquietanti e batterie sventrate.

Sono sincero, non sentivo del buon Punk da tempo. Nel 2013 le punk band, soprattutto nostrane, suonano in vecchio stile oppure hanno fatto la scelta effemminata del Pop. Questo Ep rimarrà sul mio player per tutta quest’estate a ricordarmi da dove vengo e che il Punk è ancora vivo e vegeto!!!

GARY WRONG GROUP "HEROIN BEACH SERPENTS ATTACK" from Vice Cooler on Vimeo.

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Pig Tails – So What

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Due ragazzi di Mantova. Solo due. Niente basso, niente seconda chitarra. Un organico ridotto all’osso, col cantante che suona anche la chitarra e il batterista. Questi sono i Pig Tails, che hanno dato alla luce So What, il loro full lenght composto di dieci tracce, oscillanti tutte tra il Punk americano e il Grunge anni ’90. Energia da vendere, indubbiamente, come si intuisce già da “Spitfire”, brano modellato sulle sonorità Garage con chitarre anni ’70 e un retrogusto pop, un po’ alla White Stripes.

È con la title-track “So What”, però, che si delinea meglio lo stile del duo: un bel Punk’n’Roll graffiante, su cui si muove la linea vocale dalla timbrica chiara seppure urlata. Particolarmente interessante in questa traccia è la perizia strumentale: i due ragazzi sono davvero molto bravi anche nella ricerca timbrica. “Papercut” e “The Revolution” sono profondamente in debito con i primissimi album dei Green Day quelli delle distorsioni, dei pantaloni al ginocchio e delle scarpe da skater, non certo quella copia patinata di loro stessi che sono ora. Con l’intro di “I Promise”, invece si evidenzia un certo gusto per la dissonanza che ricorda le esperienze del Grunge dei Nirvana di Incesticide, con un cantato più trascinato che lanciato: la ballad finisce però presto per diventare un po’ noiosa e ripetitiva, meritandosi in poco tempo l’etichetta di pezzo meno riuscito del disco.

Per fortuna parte “Stonecutter II” con il suo bel riffone Seventies: il brano potrebbe non essere davvero nulla di speciale, ma gli effetti usati alla voce allontanano dall’Hard Rock tradizionale e lo stacco improvviso che muove verso il Grind rendono la canzone ulteriormente originale. Lo stesso si può dire della successiva “We Can’t Fall”, mentre con “Too Bad” si torna al classico Punk-Rock. La chitarra di “Reptiles” richiama di nuovo il Grunge, ma quello degli Alice in Chains questa volta, e il disco si chiude con un nuovo richiamo ai Green Day, con la tripartita “I’ll Be Here”.

I Pig-Tails giocano con la forma canzone, scombinando le canoniche relazioni e apparizioni delle strutture strofiche e dei ritornelli, mescolando i generi, allargando le maglie di compenetrazione degli stili. Solo sono due e sembrano tanti e hanno i numeri per poter dire qualcosa. L’impressione è che, al momento, stiano esplorando un terreno in cui già molto è stato detto così tutto suona già sentito, ma l’augurio è quello di individuare un taglio più personale, che, supportato dall’indubbia capacità tecnica, non potrà far altro che portare un po’ di fortuna.

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