La storia inizia nel 1994 quando, a 5 anni, Cecilia rimane affascinata da un’arpa vista in TV. Nel 1998 scrive una lettera a Babbo Natale senza alcuna intestazione ed un unico contenuto: “ARPA”. Lo strumento arriva e due anni dopo Cecilia viene ammessa al Conservatorio di Torino. Studentessa ribelle, ma talentuosa e curiosa, coltiva il gusto per la sperimentazione, cercando di slegare l’arpa dall’immagine classica ad essa associata. A 15 anni entra nell’orchestra diretta dal jazzista Furio di Castri e nel coro del Conservatorio. Così Cecilia scopre di saper cantare e inizia a farlo suonando la musica che ama. Il debutto live avviene nel 2005 durante la Festa dell’Unità di un paesino sconosciuto a Google Maps, ma sicuramente nella Val Varaita. Ottenuto il diploma al Conservatorio, Cecilia “fugge” a Los Angeles e si mantiene suonando busking. Tre mesi dopo torna a Torino da dove riparte scegliendo questa volta la vita da marinaio: si imbarca otto mesi per “allietare” le orecchie dei turisti in crociera. Lì capisce che ≪fare male quello che si ama è terribile≫, ma quest’esperienza le permette di conoscere tanti posti (dall’India alla Cina, dal Mediterraneo alla Penisola Arabica) e arricchirsi di volti e storie. Senza lasciare mai l’arpa, nel 2011 torna a casa, inizia a lavorare in libreria e finalmente a prendersi il tempo per scrivere le sue prime canzoni. Grazie all’incontro con il produttore Neda – MeatBeat Studio – scopre l’elettronica e le si spalancano le porte di nuove possibilità espressive, sia strumentali che vocali. L’arpa inaspettatamente pop diventa il punto di partenza per raccontarsi e raccontare ciò che ha intorno. Intensa è la sua attività live che nel 2014 l’ha portata a tenere oltre 40 concerti in giro per l’Italia, tra cui gli opening dei live di Levante e Marta sui Tubi. Si è inoltre esibita in manifestazioni di livello nazionale come il concerto per i 20 anni di Emergency a Roma, l’inaugurazione della 29a edizione del “Torino Gay and Lesbian Film Festival”, il Gerundium Festival di Bergamo e il Microcosmi Festival di Comerio (Va) diretto da Vittorio Cosma. Il 2015, per Cecilia, si apre con due progetti internazionali. Firma il tema musicale di 6Bianca, il primo serial teatrale italiano, prodotto dal Teatro Stabile di Torino e Scuola Holden, scritto da Stephen Amidon (suo il romanzo Il Capitale umano da cui Paolo Virzì ha tratto l’omonimo film, in corsa per la candidatura all’Oscar 2015) per la regia di Serena Sinigaglia, e si esibisce in Danimarca con il proprio repertorio di inediti insieme alla compagnia Cantabile2, nello spettacolo Ord mellem rum (The space between two words). Il 21 aprile 2015 è stato pubblicato, per Qui Base Luna il suo primo disco di inediti: 11 canzoni, scritte in italiano e inglese, che hanno come protagonista una sintesi poetica di voce, arpa e, per la prima volta, l’elettronica.
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Cristina Donà – Così Vicini
Ciò che mi sorprende dell’ottavo disco dell’incantautrice Cristina Donà è la voglia che ha ancora di giocare, di tessere le sue canzoni di dettagli e rifrazioni, di non esaurirsi nel compito, nell’abuso del già fatto, ma di procedere sempre in avanti, o di lato, anche per piccoli scarti: non è che si faccia sperimentazione, ma almeno si testano soluzioni non ovvie, soprattutto per quanto riguarda gli arrangiamenti (di Saverio Lanza), ma anche nelle armonie, nelle linee melodiche (“L’Infinito nella Testa”, “Perpendicolare”, “Senza Parole”). Così Vicini è un disco piccolo, intimo, sussurrato, ma con grazia luminosa, preziosa. Intessuto di parole dirette, scarne, semplici, ma dagli accostamenti che risuonano di un’eco profonda (“Corri da me che i pianeti si spostano / e prima o poi sposteranno anche noi”, “Corri da Me”; “Hanno chiesto di te le sedie, il tavolo, il divano / un soprammobile da poco ritrovato / era nascosto come me che ti aspettavo”, “Il Tuo Nome”). È un disco che miscela atmosfere, musica e testi imbevendoli di luce calda, e tutto sembra al suo posto, in un ordine naturale e quasi miracoloso – e che, a questo proposito, mi ricorda l’ultimo di Carmen Consoli, Elettra, anche se con altre sonorità, e un’altra poetica. Sonorità che qui vanno da un mood seventies posato e elegante (la title track) ad un Rock morbido e senza spigoli (“Il Senso delle Cose”), in un pastiche sonoro spesso incatalogabile, onnivoro, iridescente.
Cristina Donà ci racconta i ricordi dell’infanzia, l’amore per la propria terra, i bisogni e gli affetti, il desiderio anche fisico, il fascino dell’infinito e dell’imprevedibile, del sentirsi vivi e del dirsi vivi insieme, il tutto guardato dal basso, con gli occhi dei bambini, lo sguardo di chi si è appena svegliato, di chi vede le cose per la prima volta, o si ricorda di com’era scoprirle allora. Così Vicini ha il candore di una vita nuova, ed è piacevole lasciarcisi andare, lasciarsi sorprendere.
Beatrice Antolini – Vivid
Saranno i tempi non più conformi, le deviazioni meteo o chissà la profonda alienazione dell’underground o i prezzi delle albicocche alle stelle, fatto sta che quel prodigio che fu Beatrice Antolini si è liquefatto per sempre, lontani i tempi di A Due e stratosferici gli allontanamenti dalle conferme che per un lasso di tempo l’avevano seguita qua e la per lo Stivale. Ed ora? Tutto finito, Vivid, l’ultimo lavoro della nostra marchigiana è un buco nell’acqua colossale, un sequel di quel orrido escamotage chiamato BioY che già era presagio sincero di una fine annunciata, di una pagina underground strappata e data in pasto al nulla.
Dischi simili funzionano nel senso opposto del piacere, tracce queste su livelli “metaqualcosa” spudoratamente declinate all’effetto immediato che purtroppo per la Antolini non arriva nemmeno se lo si affitta a buon soldo, un continuo riciclo di elementi ispirativi e di mosse già pre-esistenti per giocarli poi in manipolazioni estenuanti e di scarsissimo valore uditivo; dieci confusioni patinate che soggiacciono e guastano il ricordo di questa giovane promessa che era, e che confondono ulteriormente il già tanto confuso circuito emergente. Quello che emerge – o sarebbe meglio dire “viene a galla” – è un contorno musicale senza capo ne coda, molto radiofonico quello si ma di quei “zompettoni imbarazzanti” che farebbero la fortuna di qualche club sulla costa sud del lago di Garda nei fine settimana.
Sculettate alla B52’s, la Furtado che anela amore tra un trucco e l’altro “Open”,. “Trasmutation”, più in basso la tecnologia vibrante dell’Acid Jazz che avvampa senza prendere fuoco “Now”, la stupidità ritmata in mid-techno “Cobra” e un pochino più in disparte (menomale) la nullità corale di “Happy Europa”, anello di congiunzione tra il niente e sperpero di energia elettrica, quello che rimane dopo l’ascolto è solamente il ricordo vago di “ My Name Is An Invention”, sciarada volatile ben congegnata ma che purtroppo non può soddisfare da sola quello che un intero disco nega all’ascolto.
Beatrice Antolini devia sulla strada di un mediocre Soul-Pop, forse un ripiego o forse una ricerca di un qualcosa da cantare pur di cantare, ma quello che si prospetta agli orecchi è solo autolesionismo senza nessun significato. Peccato gli inizi erano buoni…….