Da buon vecchio adulatore dell’hard rock tamarro e (perché no) frivolo e fricchettone, non ho mai rinnegato i capelloni tutto alcool e facili donzelle. Ho passato gli anni del liceo da vero outsider, cresciuto con il grande sogno della villa a L.A., festini in piscina e camperos anche in spiaggia. Insomma ho adorato questo stile grezzo ma ben patinato, chitarroso, sporco, violento con la foga del punk e del metal primordiale. Oggi nel 2012 a mio avviso l’hair metal (lo chiamiamo così?) risulta abbastanza anacronistico. Un rugoso cimelio, a volte ben rispolverato con lacca applicata su una parrucca posticcia e un bel kilo di cerone in faccia. Gran parte delle volte viene solamente alzata una voluminosa nuvola di polvere. Tanto fumo insomma.
Mettendo da parte il risultato, c’è da dire però che in varie parti del mondo c’è ancora chi da una bella spolverata all’arruginita statuetta, perseguitando questo sogno a sorsi di Jack Daniels e credendo in uno stile di vita che pare essere sempre al limite del modaiolo soprattutto in determinate aree geografiche (il fatto che io lo trovi anacronistico è un’altra storia). La strada in tutte le sue forme affascina sempre. Tra questi inguaribili sognatori sicuramente spiccano quattro ragazzi russi, con una band che porta un nome che è a dir poco un fardello: Addiction For Destruction. Il rimando al capolavoro dei Guns’N’Roses è immediato.
Il loro esordio è “Neon Light Resurrection”, il titolo ha il sapore di rinascita del sintetico, della bieca superficialità, di violenza e sudicia indecenza. E il sound dei AFD racchiude tutto questo in una voce sigarettosa, chitarre taglienti e sezione ritmica pungente, con un bel basso metallico, come si usava ai bei tempi. Sonorità in bilico tra Sunset Strip e Svezia (casa di questa new generation di rockers maledetti) vengono subito sputate fuori dai primi brani: “My Resistance” e “Rock’N’Roll To You” amalgamo punk e metal con ammiccante furbizia. I compagni di gelo Hardcore Superstar e Crashdiet sono santini nella sala prove del gruppo moscovita.
Gli anni 80 sbucano invece subito dopo con “On My Needle”, il coretto iniziale non lascia molto scapo all’immaginazione. E certo la creatività e l’originalità non sono le doti migliori della band, che però in ogni episodio taglia e sprigiona la sua violenza senza fare sconti e guardare in faccia nessuno. Il mondo del pop non viene solo ignorato, gli si sputa contro e gli si volta le spalle. Disprezzo totale verso qualsiasi melodia memorabile, che fa scorrere il disco un po’ pesantemente fino all’attesissimo ballatone. “Jaded Heart” acustica e low-fi non è di certo una perla di classic rock, ma è una gemma in mezzo all’organizzato marasma. Si, perché il gran furore e il maligno bordello risultano sempre ben bilanciati. Per fortuna i quattro ragazzacci russi non giocano a chi è più tamarro, lasciando da parte l’ego e inutili virtuosismi. Il lavoro di squadra si sente.
Dopo la piccola deviazione della ballata strappamutande, si ritorna sulla strada più dura e polverosa con il boato della Harley che apre “Feeling Fine”: il pop ora è più vicino con un bel ritornello ruffiano senza ammorbidire troppo la lama. Per ritrovare un altro episodio degno di nota si vola dritti all’ultimo pezzo: “(I don’t care) You are nothing” è un acustico che non smorza i toni, molto vicino ai brani di “Lies” dei Guns’N’Roses. La voce di Tom Spice patisce un po’ in alcuni frangenti e a sistemare tutto ci pensa Henning Nielsen, che distribuisce blues con dimestichezza. Per fortuna nel finale la musica del diavolo, madre di tutti i capelloni, viene onorata nella sua forma più onesta.
Il sipario si chiude e gli AFD ci laciano un album viscerale e onesto, poco altro da aggiungere. Ma certo è che questo fumo necessita di maggiore densità e colore per estendere la sua pericolosa nube oltre il confine, per superare il limite e arrivare a concretizzare i sogni di rock’n’roll.