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Fiori di Cadillac – Cartoline

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Pare che per la realizzazione dell’esordio discografico i Fiori di Cadillac hanno impiegato circa due anni, almeno da quello che leggo sulla loro presentazione promozionale, l’esordio in questione si materializza sotto il nome di Cartoline uscito sotto etichetta Forears. Due anni sono veramente tanti, immaginate in due anni quante cose si possono fare, quante cose possono cambiare e soprattutto quante differenti sensazioni possono attraversare l’intimità di una persona. Ma in due anni è possibile anche concepire qualcosa di sensato dai connotati maturi. I Fiori di Cadillac per qualche motivo che fatico ancora a elaborare mi erano già passati per le orecchie, insomma, provo questa strana sensazione di averli già ascoltati prima di ricevere il disco e consumarlo nella giusta misura che meritano. Sono quei misteri ai quali non riesco mai a dare una spiegazione ma che accetto con una smisurata soddisfazione specialmente quando l’oggetto misterioso in questione è rappresentato da un lavoro come Cartoline. La band campana ci mette dentro una notevole quantità di tecnica ma il valore aggiunto è segnato indubbiamente dall’emotività sperimentale del sound. Io dentro quel sound mi sono perso infinite volte e provavo piacere nel lasciarmi ammanettare dalla loro enfasi, quadrati e armonicamente perfetti anche quando il cantato in italiano non si dovrebbe legare perfettamente al tipo di musica proposto per una questione di orecchiabilità. Lode a questo bravo cantante.

Per intenderci (e sono parole loro) trovano influenze in band come Radiohead e Mercury Rev. Cartoline si apre con “Il Ministero dell’Amore” e la ritmica innaturale (alla Radiohead) si sovrappone prepotentemente ad un cantato bello e immediato. La durezza della pasta esce subito allo scoperto. “Io Resto Qui” viaggia sulla stessa sintonia della precedente, ambienti umidi ed emozionalità alle stelle. Tutto resta sugli stessi contesti fino ad arrivare alla più intima e personale “Prima” nella quale i Fiori di Cadillac lasciano molto spazio a riff mielati e coinvolgenti. Soltanto palpitazioni in “Dissolvenza/Stacco”. Acidi e psicologicamente confusi in “Canzone in Scatola”, qualcosa mi ricorda il caos intelligente dei primissimi Bluvertigo, niente di scontato insomma. Ironia della sorte in “Fuori Nevica” (perché fuori nevica davvero) dove le atmosfere sembrano quelle affrontate quasi perennemente da Moby ma molto più rockettare e con un finale ai limiti del Post Rock. Sorrisi e pianti in “Jonny”, il disco è quasi finito e molte cose si sono ficcate sotto pelle. “Le Tue Cartoline” suona come una gradevole chiusura del disco, un brano che sembra prenderci per mano e accompagnarci all’uscita con estremo desiderio di vedersi nuovamente. I Fiori di Cadillac registrano un esordio discografico di indiscusso fascino, dentro Cartoline possiamo trovare tutto quello che cerchiamo, bisogna avere cervello e buon gusto. I Fiori di Cadillac sono una delle migliori uscite di questo duemilatredici stronzo e funesto, un esordio che ti scoppia in faccia. Non potevano iniziare meglio.

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Push Button Gently – Fuzzy Blue Balloon

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In un mese dove l’uscita del nuovo disco dei Pearl Jam doveva essere l’evento musicale dell’anno (ma non lo è stato) fa molto piacere recensire il nuovo lavoro dei Push Button Gently, che dall’Italia fanno capire ai colleghi americani che il Grunge non è morto e che avrebbero dovuto impegnarsi di più. Alla composizione e all’arrangiamento dei brani partecipano: Nicolò Bordoli (chitarra – voce) ex Dirty Sanchez, Natale De Leo(basso), Francesco Ruggiero (batteria) e Julio Speziali (voce – chitarra) di Endigma e Keibe che ha anche registrato il tutto. Il mastering è stato curato invece da Lorenzo Monti al “Le Mont Studio” di Morbegno (So). L’anima di Eddie Vedder & co. sembra essere stata per tutto il tempo della composizione nella stanza in cui il gruppo si è dato da fare, soprattutto in “The Bottle” e nella successiva “Tarpit Cock and the Bazoukie”. Che il gruppo ami sperimentare a livello sonoro è già chiaro dai brani più brevi “Weirdo Will”, “Incoming”, “Go to be Ready” (o got come si legge nel loro bandcamp ufficiale) e “After all this” (che ha l’ingrato compito della chiusura). Esperimenti che ai più potrebbero apparire senza senso ma che se ascoltati nel loro intero contesto hanno un perché e persino un ruolo fondamentale (se non vi dovessero piacere potete sempre mandare avanti il cd in fondo). Un po’ di Stoner, un po’ di Rock anni Settanta e persino qualche influenza da parte dei Radiohead rendono nel complesso piacevole il tutto. In “Kilgore Trout” ci sono persino dei bassi alla Offspring e una voce effettata alla Damon Albarn dei Blur. Sembra quindi non esserci un filo conduttore ma in realtà il senso di tutto ciò è proprio nella varietà dei suoni, mai scontati e banali e sempre curatissimi. Apprezzabile e degno di nota è anche l’artwork di Giorgia Barbieri che non farà certamente rimpiangere l’assenza di un booklet che avrebbe però dato un tocco di classe in più soprattutto se fosse stato curato dalla stessa persona. Non lasciatevi quindi sfuggire questa piccola gemma del sottobosco Indie italiano!

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EVIL – EVIL

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EVIL: questo il nome del progetto nato a Sulmona (Aq) nell’Ottobre 2012 da un’ idea del chitarrista Alessandro La Civita che chiama a far parte della band da subito Marco Di Ianni (basso e synth) e Giovanni D’Ambrosio (batteria). Dalle loro menti nascono le prime bozze acustiche da cui viene estratto e arrangiato il materiale definitivo di questo ep, pubblicato ad Agosto 2013, che si avvale anche della collaborazione di Maurizio Tavani (En Declin, Droning Maud) che offre una performance vocale pressoché perfetta. Lo stile di quest’ultimo ricorda da vicino infatti quello del più malinconico ed intimo Eddie Vedder dei Pearl Jam e si incunea nelle melodie ben tessute dai suoi tre compagni di gruppo.

Il nome della band tradotto in italiano vuol dire “male”; anni fa i Sonic Youth ci scherzarono sopra sulla parola intitolando un loro disco Evol, anagramma di love (Amore) e distorsione di evil appunto. Ed effettivamente di cattivo la band ha ben poco, in quanto le quattro tracce contenute in questo ep sono molto pacate e malinconiche. La venatura pop e il taglio stilistico appaiono ben chiari sin dall’opening “Meaningless” (poco più di quattro minuti di assoluto piacere sonoro) e dalla successiva “Winter Thoughts” in cui graffianti chitarre riecheggiano le atmosfere dei Radiohead di “Creep” e di “High and dry”.

In “Trapped” invece la batteria inizia ad acquisire un peso sempre maggiore (essendo stata finora un po’ in disparte) scandendo chiaramente un tempo che raramente subisce variazioni (ma ne è proprio questa la bellezza; ricordate una certa Moe Tucker che con i Velvet Undeground faceva tanto con pochi pezzi del suo strumento? Ebbene, il tocco di D’Ambrosio non sarà forse così minimalista, ma di certo neanche troverete in esso virtuosismi alla Terry Bozzio o alla Mike Portnoy, ex Dream Theater). Conclude il tutto in bellezza “Mae” che inizia con una serie di armonici alla chitarra per poi proseguire in un Pop raffinato. I testi di tutte e quattro le canzoni sono stati scritti da Susanna Camerlengo. Poco più di quindici minuti che offrono alla band un ottimo bigliettino da visita che sicuramente sarà utilissimo per trovare date dal vivo.

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His Clancyness – Vicious

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Jonathan Clancy, canadese trapiantato a Bologna, è un girovago. Nel suo peregrinare ha visto tanti luoghi diversi, assorbendone le influenze culturali e musicali. Già in tour con Settlefish e A Classic Education, ha uno stile riconoscibile e allo stesso tempo riconducibile a centomila altri artisti. C’è un cantautorato alla Neil Young, tanto per cominciare, incupito da un costante rimando al Glam Punk e alla New Wave e reso moderno nel senso indie del termine. Quindi chitarrine plin plin e voci spesso e volentieri sullo sfondo del pezzo. Al primo ascolto sembra un’irritante accozzaglia di roba registrata alla perfezione. Al secondo giro del disco, piace. Vicious si apre con “Safe Around the Edge”, uno scanzonato brano Post Punk dal sapore più americano che inglese. “Miss Out These Days” è sinteticissima, a causa delle tastiere in apertura. Ha un tono molto più meditativo e riflessivo della precedente e si trasforma presto in una canzoncina super Indie tenuta in piedi solo da voce e chitarra. “Gold Diggers” è vintage: gradevole nella resa, sembra un rivisitazione della musica leggera anni 50, confluendo quasi per direttissima in “Hunting Men”, più quadrata e dritta delle precedenti, banale, se vogliamo, ma caratterizzata da un bel dialogo intessuto tra la componente ritmica e quella melodica. Il disco cambia di nuovo tono con “Slash the Night”, in cui Clancy strizza l’occhio ai Radiohead. Come un cerchio, si torna alle sonorità Glam dell’inizio in “Run Wild”, a cavallo tra la scanzonatura Punk e le atmosfere decadenti della New Wave. “Machines” è costruita in modo volutamente artefatto, con un’introduzione eterea che dà l’impressione che il brano evolverà in una certa direzione quasi Trip Hop: la sensazione iniziale viene subito disattesa però e la canzone si trasforma in una ballata veloce di stampo cantautorale, ma su un tappeto elettronico. Vicious prosegue piacevolmente, ma senza lasciare particolare traccia dietro di sé. “Avenue” si rivela da subito per essere la canzone depressa del disco: voce e chitarra creano un’atmosfera parecchio buia e malinconia su cui si muove un testo essenziale e ripetitivo, come conducesse a una sorta di trance. “Crystal Clear” è un vero e proprio tributo agli anni ’80, mentre “Zenith Diamond” è puro Punk. “Castle Sand Ambient” è la traccia che più mi ha colpito: qui le sperimentazioni si esasperano e le iniziali sonorità acustiche si espandono a macchia d’olio tra riverbero e noise, elegantemente dosati, come se si applicasse alla lettera la lezione dei Sonic Youth. Il disco poteva finire qui, ma Clancy si gioca un’ultima traccia (a mio avviso sbagliando): è la debolissima “Progress”, caratterizzata da un ritornello ben poco incisivo e pregevole forse per la sonorità Garage inglese che appare per la prima volta in questo lavoro discografico. Nel complesso è un disco che si sente, ma molto probabilmente non si compra. Si scarica, ma si ascolta una volta e si cestina per non occupare spazio nell’hard disk. Ben fatto, indubbiamente, ma incapace di aggiungere nulla di particolare a quanto è già stato detto in musica. Almeno negli ultimi quarant’anni.

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Rivoluzioni musicali in mostra alle OGR di Torino

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Quando si parla di musica, ognuno ha senza dubbio i propri riferimenti, i propri miti, le stelle polari che lo guideranno lungo il corso della propria esistenza ,in lungo e in largo, a destra e manca, forever and ever, “finché morte non vi separi”. Alcuni di questi miti, però, non fanno solo parte del nostro universo musicale, ma sono delle vere e proprie pietre miliari della storia della musica, simbolo di un’ epoca, esempio per le generazioni future ed esponenti di rivoluzioni che hanno deviato il corso della storia stesso.  Ed è proprio a questi Dei dell’Olimpo musicale che fa riferimento Alberto Campo, curatore della mostra fotografica Transformers – Ritratti di Musicisti Rivoluzionari, allestita presso i Cantieri OGR di Torino e visitabile dal 28 settembre al 3 novembre 2013. Il filo conduttore che la caratterizza è quello della “Trasformazione”, tema tanto caro alle ex Officine Grandi Riparazioni Ferroviarie (una delle ultime testimonianze della storia industriale della città), oggetto di un recente restauro che le ha restituite alla popolazione torinese sottoforma di “Cantieri Culturali”, sede di eventi musicali, teatrali, mostre, fiere ecc.

Ed eccoli allora sfilare uno per uno i Grandi della musica, in una serie di scatti che li ritrae durante la loro vita di artisti (con una predilezione per quelli realizzati durante gli eventi live) e di comuni mortali; un richiamo all’idea della “Trasformazione” come trapasso dalla dimensione pubblica a quella privata. Le fotografie sono attinte dal vasto bacino messo a disposizione da Getty Images, ed abbracciano sessant’anni di musica (dall’avvento del Pop negli anni ’50 all’era del web e delle tecnologie digitali odierne); il sottofondo musicale è una lunga colonna sonora composta da canzoni-simbolo degli artisti considerati. Campo fa cominciare tutto con Elvis (e come dargli torto!), opportunamente inserito nella sezione “Origini della Specie” e fotografato durante una delle sue celebri mosse di bacino. La seconda tappa porta il titolo de “l’Invasione Britannica” ed i protagonisti non potevano che essere Beatles e Rolling Stones, considerati perennemente in antitesi. Gli anni ‘60 si tingono anche di Folk e dei ritratti di un giovanissimo Bob Dylan, che con la sua “Blowin’ in the Wind”, cantata come inno di chiusura dei comizi di Martin Luther King, diviene il rappresentante della “Canzoni di protesta”, mentre Miles Davis e James Brown lo sono del Jazz e del Soul-Funky nella sezione “Black Power”. Si conclude un decennio e ne comincia uno nuovo, segnato dall’ “Utopia Hippie” che vede i suoi massimi esponenti nei Doors e in Jimi Hendrix (immortalato mentre dà fuoco alla chitarra elettrica durante il festival di Monterey), mentre il Transformer per eccellenza, David Bowie (nelle vesti di Ziggy Stardust) trova posto nella sezione “Rock a Teatro” insieme alla primissima formazione dei  Velvet Underground (fotografati con l’immancabile Andy Warhol ), quella di cui faceva parte anche la splendida Femme Fatale Nico, immortalata in un primo piano stupendo, mentre indossa una maglietta riportante la scritta Fragile. Nella sezione “gli Outsider” si piazzano Tom Waits e Frank Zappa, mentre l’unico artista italiano preso in considerazione, Ennio Morricone, non poteva che collocarsi nella sezione “la Musica Come in un Film”. Passano gli anni, cambia il modo di far musica, che diventa “definitivamente prodotto dal vivo su larga scala”: Led Zeppelin e Pink Floyd sono esempio dell’ avvento dei grandi concerti che riempiono gli stadi. Dall’altro capo del mondo, sempre in quegli anni, “One Love”, Bob Marley si faceva portavoce di un nuovo genere musicale: il  Reggae. Altra rivoluzione musicale degna di nota in quegli anni è il Punk, rappresentato nella sua forma più grezza dai Sex Pistols (lo scatto che ritrae Johnny Rotten nel tentativo di armeggiare un paio di forbici enorme parla da sé) e nella sua forma più colta da Patti Smith, la sacerdotessa del Rock che sembra non aver alterato con gli anni l’espressione che ha in volto mentre canta. Gli anni ‘80 sono quelli dell’ Hip Hop dei Beastie Boys, del re e della regina del Pop: Michael Jackson e Madonna. Gli anni ’90 segnano una frattura col decennio precedente grazie all’avvento del Grunge e dei Nirvana: il primo piano di Kurt Kobain troneggia in sala (forse è una delle immagini più belle della mostra), mentre ha in mano la chitarra che riporta la scritta “Vandalism: beautiful as a rock in a cop’s face”. La mostra arriva fino ai giorni nostri, e si conclude con l’ “Evoluzione della Rockstar” verso una musica sperimentale e ricercata, i cui esponenti sono rappresentati da Björk e Radiohead (riconoscere una foto scattata durante il loro ultimo tour del 2012 ti fa sentire fiero di esserci stato) per chiudersi definitivamente con l’avvento della musica elettronica dei Kraftwerk e dei Daft Punk nella sezione “Technologia”.

I grandi assenti? Tanti, ognuno sicuramente troverà qualche suo “mito” mancante all’appello. In ogni caso, non è un buon motivo per privarsi di questa mostra, che non è una semplice esposizione fotografica, ma un viaggio visivo e sonoro indietro nel tempo, verso tappe della storia e rivoluzioni musicali compiute dai musicisti che tanto amiamo. Allacciate le cinture, si parte.

Fonti: http://www.ogr-crt.it/events/transformers-ritratti-musicisti-rivoluzionari/

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Years Without Days feat. Athonal – DJ Set #1

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Dj Set#1 nasce dall’incontro di due emergenti della musica elettronica: Years Without Days e Athonal, rispettivamente Luigi Calfa e Simone Giudice. Insieme per la prima volta sul palco del Color Fest (8 Agosto 2013) a Lamezia Terme, nel cuore della Calabria che per ventiquattr’ore di fila ha ballato sulla musica de I Ministri, Nobraino, Giorgio Canali & Rossofuoco ecc. Una festa di colori e musica soprattutto per riscattare una terra troppe volte martoriata e sottovalutata.

Un primo featuring che lascia intendere almeno l’idea di un secondo incontro per costruire ancora quegli universi paralleli ma similari, fatti di infiniti loop e pensieri metafisici creati su idee e passaggi semplici che rendono l’elettronica minimale ma soprattutto chiarissima all’ascolto di ogni singolo piccolissimo passaggio che apre inesorabilmente un mondo fatto di sensazioni tattili in paesaggi futuristici e lontani dall’immaginario odierno. Ma anche un’elettronica che guarda ai suoni più contemporanei e atonali presenti all’inizio del Dj Set, utili a definire mondi popolati da creature misteriose e silenziose che riportano l’uomo verso il suo passato ancestrale, verde e vuoto e su una terra incontaminata che fa pensare a 2001 Odissea Nello Spazio e all’inconfondibile monolito di una nuova e inarrivabile generazione. Un lavoro semplice ed elegante che ad alto volume sprigiona una potenza che non nasconde niente. Una potenza fatta di tempi enormi, scanditi da infiniti giri di vinile. Ma soprattutto più di un’ora riempita da una tracklist invidiabile, partendo da Alva Noto, la cui musica è arrivata nei centri d’arte contemporanea più importanti del mondo, dal Guggenheim di New York alla Biennale di Venezia, passando per Ramadanman, Marcel Fengler, i Radiohead con“Good Evening Mrs Magpie” e Apparat con la Noise version di “44”.

Un Dj Set che loro stessi definiscono “fine e mirato. Samples tenuti in vita mentre breakbeats variano a suon di 2 Step e Garage con innesti di Techno. Beat-maker di professione. Il sequencer è un’utopia. Il crepuscolare si unisce al minimale, il risultato al primo EP sa un po’ di malinconico e un po’ di misterioso”. Insomma un Ep non invasivo e utile anche per immergersi in questo mondo per la prima volta.

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W-H-I-T-E – III

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Cory Thomas Hanson è l’artista e musicista di Los Angeles che si nasconde dietro il nome W-H-I-T-E. Già nel 2008, quando prendeva vita il suo percorso artistico, era chiaro che Hanson non avrebbe certo intrapreso la strada calma e pulita della melodia tradizionale e del cantautorato. Sceglie il nome d’arte W-H-I-T-E per esprimere fin da subito alcuni concetti fissi nella sua mente, per dare l’idea di quell’attrazione trascendentale che la luce bianca ha verso ogni creatura e la sua necessità di allietare e nello stesso tempo “bruciare” i sensi saranno una prerogativa di tutte le sue opere. I primi full lenght sono Sunna del 2009 e Twin Tigers di due anni più giovane. Dopo queste esperienze studio inizia una lunga traversata per il mondo, che lo porterà anche in Europa dove si esibirà con Mikal Cronin. Proprio durante queste scorrazzate soniche inizia a prendere vita III; W-H-I-T-E scrive e registra parzialmente i pezzi “on the road” (non vanno sottovalutate le soste parigine e il ritorno alla città natale) per quasi tre anni. III è una sorta di sunto, di raccolta di questo lungo tempo passato a registrare. Il risultato è qualcosa di prodigiosamente celestiale.

Se ”Intro” somiglia in modo imbarazzante al pezzo d’apertura di Palace degli Chapel Club non ci s’illuda e non si pensi che vi sia alcun tipo d’influenza Neo-Gaze. Ciò che accomuna III alla scena di cui fa parte la formazione britannica di Lewis Bowman e Michael Hibbert è solo una certa vena dreamy, celestiale, spirituale, incorporea. Un po’ la stessa che si respira in alcuni brani dei Radiohead (“I Wasn’t Afraid”), considerando anche che la voce di Cory Thomas Hanson, ricalca per timbrica la stessa proprio di Thom Yorke. Non mancano reminescenze di psichedelia sixties e folk barrettiano fatto di voci melodiose e note ossessive come incubi colorati e passaggi in cui il Dream-Pop acquista una vena bucolica (“Can’t Fight The Feeling”, “Friends”) e naturista. Nella seconda parte, prevale invece l’aspetto più duro, freddo e sintetico della proposta di W-H-I-T-E, che miscela le ritmiche tipiche dei Club anni ’90, il cantautorato statunitense di vecchia data e la storica scuola dei precursori dell’elettronica applicata alla New Age e all’Ambient (“Pretty Creatures”, “Lost”) con la musica cosmica in stile Tangerine Dream (“Deep Water”).

Assolutamente gradevoli anche i momenti più essenziali, legati indissolubilmente alla linea melodica e dalla forte ispirazione Radiohead dei momenti più intimi (“Demons”), cosi come riuscitissimo suona l’incontro tra psichedelia e Dream Pop in “Swim”. Nella parte conclusiva troviamo sperimentazioni che sembrano miscelare le basi irriverenti e Lo-Fi tanto care a Beck, altro genio di Los Angeles, con il Pop-Rock britannico (“Wet Jets”) mentre III si chiude con il pezzo più oscuro, freddo, ambiguo dell’opera di W-H-I-T-E, ricco com’è di ossessioni e speranza (“Building On”).

È lo stesso Cory Thomas Hanson a spiegare bene la sua opera. “Ho iniziato a scrivere con l’idea di John Lennon che fa una registrazione sulla luna con Cluster e Eno a fare da produttori. Il tutto remixato da Moby”. Io aggiungerei questo. Pensate a brani scritti da John Lennon, cantati da Thom Yorke e suonati dai Pink Floyd con i Tangerine Dream a gestire la parte sintetica, il tutto sotto la supervisione di Cluster ed Eno e mixato da Moby. Rende ancor meglio l’idea.

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Il Terzo Istante – Forselandia

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Forse esiste ancora musica da conoscere. Forse gli orizzonti da esplorare non sono finiti. Forse la terra non è già tutta battuta e non c’è bisogno di riadattare il solito ed ormai arido paesaggio, sperando che i cambi di stagione conferiscano a lui una veste nuova. No, forse c’è ancora chi indossa una muta da esploratore in cerca di terre mai calpestate, con il rischio di rimanere impantanato in sabbie mobili. Forse è caparbio e impavido, o forse più semplicemente ha fortuna, in ogni caso quello che a noi interessa è che riesce ad ottenere un ottimo risultato con la magnifica naturalezza della musica pop.

Il secondo EP dei torinesi Il Terzo Istante ha dunque un titolo azzeccatissimo. “Forselandia” esprime al meglio la scoperta di un nuovo mondo, ma anche di nuove indecisioni, di vecchi vizi e nuovi desideri e (forse?) di una società che vuole cambiare, che trova in nuovi orizzonti nuove speranze ma (forse?) non ha nessuna intenzione e stimolo nel raggiungerle. Tutto ancora molto vago e per questo tremendamente affascinante. Certo che se l’analisi si ferma al suono, la band suona terribilmente nuova e moderna e non solo perché sfrutta tutte le nuove diavolerie del caso (leggete la loro intervista a Rockambula sul crowdfunding e capirete come sono all’avanguardia i ragazzi) ma perché, a partire dallo strampalato combo batteria-chitarra-tastiera, il loro sound è molto semplicemente fresco e spiazzante.

Le quattro tracce dell’EP spaziano tra la psichedelia (sempre ben dosata e tenuta al guinzaglio), il rock più viscerale e la melodia dei classici italiani, mai ripudiati o intrappolati nel muro di suono. La voce di Lorenzo De Masi (anche alle tastiere) graffia la schiena già nel ballo storto de “Il Primo Difetto”, pezzo molto intelligente e dedicato al vizio del fumo. Il ritmo non si smorza e si continua con la danza tetra di “C’è Chi Non Muore”, a graffiare qui ci si mettono anche le strisciate sulla chitarra taglientissima di Fabio Casalegno, a dire il vero spesso fin troppo tagliente nell’economia del suono. Anche la mancanza del basso a volte lascia un po’ la bocca impastata, marcando una leggera mancanza di amalgama e di pasta sonora. “Ogni cosa è di Tutti” è spietata e cinica ma non scade nelle solite banalità da giovane disilluso. Le ritmiche storpie di Carlo Bellavia aumentano il senso di angoscia e ci portano barcollanti ad una frase epica: “di una cosa sei certo, nel 70 il rock’n’roll era già morto”. Certo che ascoltando questo pezzo mi viene da pensare che non sia proprio così.

L’EP si chiude con la ballata “Forselandia”. L’equilibrio è più che mai precario e l’idea geniale dello xilofono a questo punto del disco sembra quasi naturale. Spunta l’ombra malefica degli abusatissimi Radiohead, ma Il Terzo Istante paga il suo scomodo tributo e supera il pesante paragone facendo vincere la propria entità in un finale ricco di delay, suoni lontani e un crescendo che ci lascia sospesi in questo nuovo mondo. Attendiamo ancora qualche altra cronaca da questi abili e astuti esploratori. Abbiamo trovato qualcosa di nuovo all’orizzonte. Forse.

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Spiral69 – Ghost in my Eyes

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E’ il tocco raffinatamente bluastro della wave targata duemila quella che fluidifica la tracklist del nuovo disco degli Spiral69, Ghost in my Eyes, il contenitore delle melodie travolgenti alle quali questa straordinaria formazione  ci ha abituato sin dal primo album,  un sound reiterato e approfondito dalle suggestioni e sonorità che si tingono di ossessione e Gothic-Folk per sedurre moderni flàneur tra un sorso di Assenzio e un morso di lussuria notturna.

Riccardo Sabetti, focus, fulcro e attore sonico principale del logos Spiral69, qui con la produzione artistica di Steven Hewitt (drummer e co-autore dei Placebo) e la consolle di Paul Corkett (The Cure, Cave, Radiohead, ecc), introduce un clima suadente ed epico che padroneggia la materia dell’atmosferizzazione, lontano dai geli cattedratici della primarietà di genere e assai vicino all’hook radiofonico, quella melodia catchy che lentamente entra sottopelle e freme di uscire dai pori, l’epidermidità assoluta di un sound generale nato per far vibrare e contrastare le sovrapposizioni modaiole last minute; tracce come istantanee, brani come Kodak tornate fuori da cassetti insospettabili, sogni e ombre che si contengono lo spazio vitale di una emozione da vivere per una manciata di minuti, per quella sacrificalità presente nelle ascensionalità epiche di “Waves”, al dettaglio netto del romanticismo riflessivo “No Heart” oppure nei davanzali della solitudine che sbottano nel mid-.fragore Rock di stampo Depeche Mode “Dirty” e Cure “Please”.

Piano, sinth, archi, effusioni e strizzate di cuore fanno parte dell’architettura generale, l’originale equilibrio tra riferimenti storici e avanguardia contemporanea, il complemento ideale per chi fosse esclusivamente alla ricerca di forti emozioni e parentesi fumè, oppure alla cerca di un fuoco suggestivo di amalgame senza fondo.

Disco di riferimento,  consigliato.

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Atoms for Peace – Amok

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Su questo disco è già stato detto di tutto. Lanciato come se fosse l’araba fenice dei Radiohead o la fatica di un matrimonio artistico tra grandi nomi della storia della musica più recente che manco i Them Crooked Voltures, Amok è stato osannato o crudamente bocciato, tanto da tutta la stampa quanto dai fans di Yorke. O piace o non piace, insomma. L’unica certezza è che fa discutere, mettendo in campo tutta una serie di riflessioni che non sono assolutamente sterili e neppure troppo sottintese. Anzitutto viene da chiedersi quanto possa essere originale un progetto parallelo con un leader tanto carismatico e dall’immediata riconoscibilità stilistica come quella di  Yorke. Tra lui e Flea, ad esempio, è indubbiamente il primo a farla da padrone indiscusso, se si considera che l’autorialità di Flea emerge con chiarezza solo nell’intro e in alcuni incisi melodici di “Stuck Together in Pieces” e in “Reverse Running”, passando praticamente inosservata nelle altre tracce di Amok. Non è solo questione esecutiva, per cui la voce di Yorke toglie ogni dubbio e rimanda per direttissima ai Radiohead, come nella title-track “Amok” e in “Default” (solo per citare i casi estremi perché questa caratteristica permea in realtà tutti i brani del disco), ma è proprio una faccenda  interpretativa ed esecutiva: il cantato a bocca appena aperta, la strutturazione della forma canzone e gli arrangiamenti ricalcano moltissimo gli ultimi Radiohead – che, personalmente, mi sono sempre sembrati più gratuitamente sperimentali e asettici che geniali – e solo una virata elettronica massiccia separa gli Atoms For Peace dal passato progetto di Yorke. E qui entrano in gioco un altro paio di questioni. Anzitutto, l’unico leitmotiv del disco sembra essere un tappeto ritmico elettro-dance scandito con una chiarezza volumetrica che spesso è al pari di quella della linea melodica vocale (come in “Before Your Eyes” e nella già citata “Reverse Running”), in una sorta di ideale richiamo costante al trip-hop ma con le sonorità cupe della new wave (“Ingenue”) e accenni afro-beat inconsciamente pulsionali (“Unless”); in secondo luogo, poi, è difficilissimo distinguere dove finisca l’uomo e inizi la macchina e viceversa. E per quanto lo strumento elettronico e l’artificio possano essere usati con maestria e competenza, sì da fare emergere il lato umano del compositore, è quasi impossibile in Amok, capire cosa sia naturalmente prodotto e cosa no, sacrificando, involontariamente, ancora una volta gli strumentisti per esaltare la figura di Yorke come primigenio artista-uomo che convoglia il significato poetico-musicale della canzone.

Lungi da me porre una soluzione univoca a questi quesiti, il gusto personale credo che in questi casi abbatta qualsiasi questione etico-stilistica-estetica. Per me è il primo, buon lavoro di un progetto parallelo che spende a piene mani l’eredità del suo antecedente, nulla più.

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Aedi – Ha Ta Ka Pa

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Una delle più promettenti e deliziose realtà della penisola viene da San Severino Marche e risponde al nome di Aedi. A distanza di circa tre anni dall’opera prima Aedi Met Heidi, esce proprio nel 2013 il loro lavoro più ambizioso, Ha Ta Ka Pa, realizzato sotto l’ala protettrice di Alexander Hacke, basso, chitarra e voce nei mitici Einsturzende Neubauten. Tale sodalizio, si mostrerà evidente nell’evoluzione del sound della band che, messe da parte le atmosfere pastorali degli esordi, acquista un’energia e una forza eccezionale, rispetto al recente passato.
Ritmiche quasi Math si alternano a sferzate chitarristiche stile Built To Spill nel brano d’apertura “Animale”, certamente uno dei punti più alti dell’opera nel suo miscelare quel Rock alternativo anni 90 a potenza quasi crossover senza disdegnare momenti Punk Cabaret alla Dresden Dolls (vedi anche la parte che anticipa la chiusura di “Fohn”) quando il piano delirante insegue la chitarra, sullo sfondo di una voce angelica e demoniaca allo stesso tempo.

La voce di Celeste Carboni, melodiosa, anche quando alza i toni in vocalizzi mefistofelici che ricordano Diamanda Galas (“Animale”, “Idea”) riesce a essere leggera, morbida ed eterea mostrando non solo la sua timbrica affascinante ma anche discrete capacità e qualità canore.
L’importanza di Alexander Hacke, nello sviluppo del suono nuovo degli Aedi diventa palese negli episodi in cui le ritmiche si fanno tribali e assillanti e le chitarre distorte, sferzanti e taglienti (“Idea”).
I legami col recente passato, fatto di avanguardie folk e rock minimale, della band marchigiana non mancano (“Rabbit On The Road”), cosi come si possono intravedere strizzate d’occhio alla scena Indie più attuale (di scuola Arcade Fire) in pezzi come “Fohn”, brano gradevole, vertiginoso e trascinante all’ascolto ma senza il piglio innovativo che ci ha fatto apprezzare gli Aedi passati. Certamente, se preso come un intramezzo necessario per dare slancio a Ha Ta Ka Pa, è un pezzo più che riuscito, ma le cose migliori sono altre. Discorso simile per “Nero” che invece sembra riprendere le sonorità cupe e introspettive, specie nella sezione ritmica, degli ultimi Radiohead e per “Prayer Of Wind”, che tuttavia ricalca stilemi più vicini al Dream Pop (anche se la parte corale nel finale non può non far pensare ai canadesi già citati) mantenendo intatta quella vena ancestrale che pare fare la fortuna dei marchigiani. Non è quindi un semplice divertissement quest’avvicinamento alla scena Indie ma lascia lo spiraglio per una futura possibile nuova evoluzione, fortemente rischiosa da un punto di vista artistico ma che può certamente aiutare ad ampliare la fetta di pubblico interessata al sound Aedi. C’è da dire che, soprattutto grazie allo stile canoro bucolico di Celeste Carboni, la popolarizzazione del loro sound non sembra possa mai trasformarsi in mera banalizzazione, ma sarà tuttavia il futuro a darci tutte le risposte in merito.

Dopo le note leggere e dreamy di “Tomasz” arriviamo alla parte più interessante dell’album, che inizia con la spettacolare “Yaca”, fatta di chitarre acidissime, tribalismi martellanti e atmosfere lisergiche anni sessanta/settanta. La voce lucente di Celeste vibra in un’apparente monotonia ipnotica, quasi a ricordare Grace Slick e i Jefferson Airplane di “White Rabbit”. La chiusura è affidata a “The Sound of Death”, litania languida in crescendo di quasi solo voci (in questo caso Celeste non è sola), con accompagnamento chitarristico Slow/Sadcore e velatamente folkeggiante che diventa sempre più folle, distorto, pazzoide e frastornante a mano a mano che l’enfasi vocale aumenta la sua intensità. Il modo migliore per chiudere un disco che mantiene le promesse fatte cinque anni fa e che lascia nuove speranze per i talenti del nostro paese. Un disco assolutamente da ascoltare e una band da non lasciarsi sfuggire.

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Droning Maud – Our Secret Code

Written by Recensioni

C’è voluto del tempo, c’è voluto il tempo necessario, i Droning Maud registrano ufficialmente il loro disco d’esordio Our Secret Code. Se ricordate le loro precedenti produzioni  Promo (2007) e The World of  Make Believe (2008) cercate di dimenticarle, non vi serviranno assolutamente da esca per l’ attuale lavoro in promozione, negli anni ci sono stati cambiamenti di line up, sperimentazioni sonore e fortunati incontri artistici che hanno dato vita ad una band completamente rigenerata nel sound e nella mente. Adesso è il tempo di Our Secret Code, è tempo di una nuova vita. Hanno conservato quella vena New Wave Post Rock di matrice nettamente britannica, i toni si abbassano e la produzione dei Dronig Maud prende strade Shoegaze con punte avvelenate di elettronica. Poi lo zampino dell’ormai sempre presente Amaury Cambuzat impreziosisce e di molto l’importanza del disco ( prima di questo vengo dall’ascolto di Oslo Tapes quindi le affinità riesco a sentirle tutte nonostante il risultato prenda strade diverse), le soluzioni sanno di freddi paesaggi incontaminati come la musica dei Sigur Ròs se proprio dobbiamo cercare un paragone (e che paragone) plausibilmente valido e preciso, senza dubbio dobbiamo lasciare da parte la musica italiana per entrare a stretto contatto con Our Secret Code. Le chitarre viaggiano incontrastate verso l’ignoto manipolando le menti di chi vorrebbe seguire l’esecuzione con attenzione, le ritmiche (senza basso) dettano tempi degni degli ultimi Radiohead, un continuo picchiare dritto e lineare con improvvise sterzate. La voce si amalgama al tutto giocando molto di squadra, intuizioni elettroniche non fanno mai sentire il vuoto sotto la struttura. Un disco pieno e deciso quello arrangiato dai Droning Maud, la volontà di avere tra le mani un prodotto esclusivo di cui andare fieri senza strani pensieri per la testa.

Un album pulito nei suoni con forti dosi di rock all’avanguardia, pezzi come “Nimbus” rendono molto bene l’idea di un lavoro comunque sia molto variegato nelle soluzioni sonore, uno studio valido e l’esperienza non fanno arrancare mai a fatica i Droning Maud lanciati a tutta velocità. Poi ci sono pezzi come “Ghost” che rendono leggera l’aria intorno, le chitarre girano e rigirano come fossero maledette da una profezia, l’intenzione surreale de Our Secret Code è subito chiara, non lasciare la ragione a chi si dedica all’ascolto del disco. Anche questa volta mi trovo a elogiare una band dai suoni nettamente nord europei, quasi come fossimo a corto di un identità italiana, come se non fossimo in grado di permetterci una propria e definita personalità al di fuori del cantautorato. I Droning Maud conoscono la ricetta della felicità artistica e registrano un album sopra le righe della decenza, maturo e completamente godibile in ogni sua sfumatura. Dieci pezzi che non mi metto qui a citare tutti sullo stesso livello compositivo, voglio invitare all’ascolto ripetuto de Our Secret Code per far cogliere le infinite scelte presenti, più si ascolta e più vengono fuori cose nuove e maledettamente belle. Una band che trova la propria maturità artistica non perdendo comunque l’entusiasmo della prima volta. Un disco che sinceramente ci voleva proprio.

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