Dopo il debutto con Lontano da Tutto, la cantautrice marchigiana torna con un nuovo Lp per l’etichetta Nufrabic, con l’intento di non fossilizzarsi sotto la catalogazione musicale e cercando di riunire una certa poliedricità per creare un’opera di senso compiuto. Di Imperfezioni è dunque opera dalle mille facce, costruito in un lungo arco temporale, con la collaborazione di virtuosi musicisti e degli scrittori Luca Ragagnin e Francesco Ferracuti per la parte lirica. È anche un disco congegnato con cura e non è un caso che abbiano scritto brani per lei artisti come Ivano Fossati o Niccolò Fabi o che abbia duettato con Max Gazzè, con i quali e non solo con loro (vedi Perturbazione, Cristina Donà, Simone Cristicchi, ecc…) ha condiviso anche alcuni importanti palchi nazionali. Tutte considerazioni che lascerebbero protendere per un giudizio positivo ma non è per niente così; quella ricerca di unità nella varietà finisce per portare su territori pericolosi, con un sound banale a far da sfondo a qualche tentativo di eccentricità che molto sa di forzatura. Gli arrangiamenti, certo ben curati, sono paurosamente mediocri, poco coraggiosi, Pop se vogliamo, nel senso più commerciale del termine, ma incapaci di elevare le undici canzoni oltre la banalità del genere. La lingua italiana non è supportata da una voce in grado di mostrarsi superiore per tecnica e timbrica alle sue colleghe e l’idea generale che si costruisce ascolto dopo ascolto, è di un lavoro studiato a tavolino per provare inutilmente a ficcarsi nel plastico mondo del Pop da radio commerciale (ha partecipato a Sanremo Nuove Proposte nel 2011 e la cosa significa più di molte parole), con il problema che per imbucarsi in tali strade, conta saper toccare i tasti giusti delle persone giuste ma anche costruire canzoni che, se proprio non siamo memorabili sotto l’aspetto artistico, possano almeno essere orecchiabili, intuitive, d’immediato e sicuro impatto. I brani di Di Imperfezione non hanno nessuno di questi pregi ma anzi, a tratti infastidiscono per quanto lasciano trasparire certe intenzioni malsane. Il nuovo e secondo disco di Serena Abrami non è altro che un bel costruito esercizio di stile di qualcuno con non molto più talento delle centinaia di cantanti e musiciste che provano a scalare i muri di vetro che li dividono dalla fama. Non è certo di costoro che la musica italiana ha davvero bisogno come non ha bisogno di Sanremo o di altro Pop inutile e ridondante.
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Black Tape For A Blue Girl – These Fleeting Moments
Nuovo album, nato da una campagna di crowdfunding, per la creatura di Sam Rosenthal a ben 9 anni dal precedente 10 Neurotics. Il progetto ha quest’anno compiuto i trent’anni di attività e con questo nuovo lavoro (trattasi dell’undicesimo full length) li festeggia nel migliore dei modi.
Se il disco precedente poteva infatti aver fatto storcere il naso a qualche fan di questa band, un culto nel suo genere, con These Fleeting Moments ritroviamo i Black Tape For a Blue Girl che tutti noi più amiamo per quanto durante l’ascolto non manchi qualche sorpresa a rendere l’album più differenziato ma mai meno profondo, e non potrebbe che essere così visto tra l’altro il ritorno della più celebre voce della band: Oscar Herrera. Il tenore, presente nei primi 7 album del gruppo, rientra quindi dopo ben 17 anni alla corte di Rosenthal e lo fa, oltretutto, accompagnandosi alla figlia Danielle, nata poco prima dell’uscita di The Rope, prima fatica della formazione.
Il nuovo album è formato da 13 canzoni per 70 minuti di durata e riporta sin dalla bellissima traccia iniziale al freddo calore dei Black Tape anni Novanta con i 18 minuti di “The Vastness of Life”, brano etereo e malinconico che non sfigurerebbe nella loro perla Remnants of a Deeper Purity. La traccia, ricca di pathos, è suddivisa in più parti ed esplora i temi fondamentali dell’album facendosi domande sulle scelte della vita, sulla propria storia personale, su quanto e come sia possibile credere ad eventuali ideali ed agire seguendoli. Il brano è inizialmente un Goth/Neofolk assai cupo dove subito ritroveremo la considerevole solennità della voce di Oscar Herrera che tanto ci mancava, nel suo sviluppo incontreremo poi una parte Neoclassica evocativa e rarefatta dominata da un violino piangente prima che le tastiere di Sam introducano alla seconda metà del brano dove faremo conoscenza con la voce fortemente espressiva di Danielle Herrera; saranno i synth ad accompagnarci al finale, la parte più intimamente gotica di questa ottima apertura di disco, che impegnerà nuovamente al canto Oscar che la figlia Danielle accompagnerà dalle retrovie con la sua angelica voce.
Nel disco ogni traccia ha un suo valore, non troviamo riempitivi. Trovo personalmente da segnalare “One Promised Love”, dolcissimo brano con meraviglioso violino e chitarra acustica in primo piano, delicatezza che fa da contraltare al canto sì delicato ma estremamente denso di Herrera (padre); “Affinity” dove la voce sognante di Danielle emerge dolce e malinconica dal mesto tappeto di synth, o l’ancor più funerea “Please Don’t Go” strumentale di ottima fattura dove la malinconia delle tastiere e degli archi (Nick Shadow è indubbiamente un altro grande protagonista di questo album) scava nei vuoti dell’animo descrivendoli con perfetta desolazione.
Nella seconda metà del disco troviamo l’intensità Tribal-Psych Rock di “Zug Köln” che ci porta ad incontrare la chitarra di Erik Wøllo (artista prodotto dalla Projekt di Sam Rosenthal) co-autore del brano, per poi trovare sentori di Dead Can Dance nei 10 minuti di bellezza ipnotica e ancestrale di “Meditation on the Skeleton” e nella dolce nenia più Folk-Pop “Desert Rat-Kangaroo” con le sue eleganti trame di pianoforte. Sarà dunque il momento di “She’s Gone” brano che mette in risalto la grazia della voce di Danielle che qui, vulnerabile, ci racconta di un amore perduto, il pezzo, triste e dolce, scandito da una chitarra pizzicata con gran delicatezza, nella parte finale va a sposarsi meravigliosamente con l’intensità portata da percussioni, violino e chitarra elettrica che forniscono l’ideale trampolino per il tuffo negli umori Shoegaze/Post Rock delle fragili e vigorose note dell’ottima “She Ran So Far Away That She Can No Longer Be Found”. Nella conclusiva “You’re Inside Me” un Oscar Herrera in gran spolvero si congederà su una base elettronica di pregevole fattura al quale il violino di Shadow andrà ad aggiungere nella parte conclusiva del brano la giusta tensione.
Un disco che offre 70 minuti di seducente malinconia in un riuscito incontro di ricchezza di nuovi spunti e magico stile datato capace di scorrere piuttosto fluidamente nonostante lo spessore (nella durata come in buona parte delle musiche e dei messaggi) che lo contraddistingue. L’opera che aspettavamo, l’atmosfera che aspettavamo, perfettamente descritta dalla copertina dell’album dove troviamo una donna rannicchiata all’interno di un violoncello fracassato all’ingresso di un bosco. Dedicategli il tempo che merita. Sam Rosenthal ed il suo romanticismo filosofico hanno ancora molto da darci.
Cadaveria/Necrodeath – Mondoscuro
Unire due leggende non capita spesso e quella volta che si verifica l’occasione, chiaramente, non bisogna farsela sfuggire. Ebbene, Cadaveria e i Necrodeath, che sono due pilastri della musica estrema tricolore, uniscono le forze per creare uno split album davvero avvincente: Mondoscuro. Iniziamo col dire che i due gruppi sono prima di tutto grandi amici, infatti, Flegias, singer dei Necrodeath, è anche il batterista dei Cadaveria e con quest’ultima, fino a poco tempo fa ha fatto parte anche Killer Bob che a sua volta proveniva dai Necrodeath. Come dicevamo, vediamo i due pilastri italiani uniti per un mini disco che vede tracce inedite e cover, la particolarità è sentire pezzi di un gruppo cantato e suonato dall’altro. Uno scambio di stile o la sperimentazione di ascoltare il proprio pezzo sotto un altro aspetto? Dipende dai punti di vista, fatto sta che ascoltare “Mater Tenebrarum” (dei Necrodeath dal disco Into The Macabre de 1987) in chiave Cadaveria è un qualcosa di favoloso, la traccia assume un aspetto oscuro, quasi demoniaco. “Spell” (di Cadaveria dal disco The Shadows’ Madame del 2002) invece, suonata dai Necrodeath, cambia un po’ forma, nel senso che la velocità del gruppo e i giri di chitarra la rendono davvero alternativa. Insomma, questo primo step di scambi è riuscito alla grande da entrambi le parti. Veniamo adesso ai pezzi inediti. La prima che ascoltiamo è “Dominion Of Pain” di Cadaveria. Cominciamo a dire che la nostra dama oscura ha la capacità di saper mutare, nel senso, che riesce sempre a ad evolvere il suo sound, lo ha fatto con i suoi dischi e lo ha fatto anche in questa traccia, deliziandoci con un cantato aggressivo che si sovrappone ad uno più tetro, il tutto su una base Thrash Metal. “Rise Above” dei Necrodeath va un po’ fuori dai canoni della band, troviamo innanzitutto un duetto con Cadaveria ed è infine un pezzo cantato sia in inglese che in italiano, ad ogni modo anche qui parliamo di una traccia ben riuscita. La piccola operetta si chiude con due cover: la prima è “Christian Woman” dei Type O Negative eseguita da Cadaveria. Il fascino della traccia sta nel cantato della caparbia artista, la sua voce che va dal cupo al demoniaco da un valore in più al pezzo che già di suo è spettacolare. Chiudiamo lo split con una grande prova artistica eseguita dai Necrodeath. La band infatti, chiude in bellezza presentando una particolare versione di “Helter Skelter” dei Beatles. Con questo pezzo la band si supera decisamente, propone una versione decisamente alternativa che a dirla tutta con il loro stile acquista un altro tipo di fascino. Insomma, Mondoscuro è un lavoro decisamente ben riuscito e onestamente, era scontato perche’ a suonare e a mettersi in gioco sono due pilastri italiani che hanno davvero l’ arte nel sangue.