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Divenere – Cities, Skies, Mountains, Seas And Other Useless Things

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Partono bene fin dal titolo, i Divenere: questo elenco di “cose inutili” così evocativo che si accompagna benissimo alla cover allucinata, dove una luna incontra montagne dietro uno zeppelin che sorvola una foresta stilizzata.

La musica del loro quarto disco sposa questo immaginario senza difficoltà. È Pop nell’anima ma è sognante, o forse, più che sognante, onirica: mari di riverberi e onde di delay che incrociano vibrazioni di percussioni in loop e voci eteree. È densa, piena anche se gentile, con qualche digressione più psichedelica inframmezzata alle strofe con batterie dritte e arpeggi di chitarra sospesi e liquidi. Il cantato, in inglese, non si fa notare troppo: linee melodiche morbide e familiari, che però compensano la mancanza di particolarità con la capacità di accompagnare puntualmente l’andamento strumentale, senza mai disturbare, ma conciliandone la permeabilità. L’ascoltatore è avvolto dal suono e non può fare altro che lasciarsene attrarre, anche in modo distratto, ma pur sempre inesorabile.

I cinque brani di Cities, Skies… si susseguono come un lungo volo verso un sole bianco, contro un cielo grigiazzurro. I Divenere pilotano lo zeppelin, questa imponderabile balena volante, con pochi scossoni, poche sorprese, ma qualche precisa, scintillante certezza: una traversata stabile che consente solo un lento rollio, un cullare rotondo. Quando ci sveglieremo saremo già arrivati.

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letlive. – If I’m the Devil…

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Se dovessi trovare un tema portante per il nuovo disco dei letlive. questo sarebbe senz’altro il coraggio. Il coraggio di cambiare pelle, di affrontare chi non capirà le loro decisioni, di fare buon viso a cattivo gioco anche davanti la possibile perdita dei fan più bacchettoni.

Già da “I’ve Learned to Love Myself” ci ritroviamo spiazzati davanti a una dose di malinconia talmente massiccia da massacrarci l’anima. Che fine ha fatto la band artefice di dischi rabbiosi come Fake History o del più recente The Blackest Beautiful? Mistero. C’è qualche avvisaglia del passato in “Good Mourning, America”, political song che affronta un argomento delicato come la discriminazione femminile. Però poi con la struggente “Who Are You Not” si percepisce ancora quel malessere che solo un cuore spezzato può comprendere. Sul loro sito capeggia la scritta a caratteri cubitali The Soul Punx Experience: di Punk ne è rimasto ben poco (“Elephant”), di Soul ne troviamo a bizzeffe in “A Weak Ago”, spaccato di un improbabile incontro tra i Nirvana e Michael Jackson. Paradossalmente l’episodio più claudicante è “Another Offensive Song”, sicuramente il pezzo che ricalca maggiormente le orme delle fatiche precedenti, ma che qui fa la figura becera del pesce fuor d’acqua. Pregevole però la scelta di piazzare la canzone più forte proprio prima delle due conclusive che sono l’apice della sensibilità di una band che si toglie di dosso ogni forma di acredine. “If I’m The Devil…” e “Copped Colored Quiet” mettono il punto a uno dei lavori meglio riusciti dell’anno in corso, dove ogni singola composizione resta impressa e riconoscibile anche a un ascolto poco attento.

Quando il rinnovamento coincide con il miglioramento c’è poco da fare. Ogni ulteriore parola spesa sarebbe superflua. Chapeau!

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Senhal – Parapendio

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #24.06.2016

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Vinicio Capossela – Canzoni Della Cupa

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Canzoni Della Cupa è il decimo album in studio di Vinicio Capossela. Diviso in due parti per 28 brani e una durata di più di due ore, Canzoni Della Cupa è un atto d’amore e di testimonianza verso un tempo passato che ormai è fuori dal tempo, mitizzato nell’immagine brusca e insieme rasserenante di una società contadina, ruvida e sincera, in cui si vive e si canta della vita, e quindi dell’amore, carnale soprattutto, ma sempre giocoso, vinoso, anche quando è serio; della morte e delle creature della notte, degli spaventi nelle ombre dei fuochi e dei monti sotto la luna; dei campi, dei poveri, del sudore, del lavoro; dei primi treni, dei viaggiatori, delle verità scolpite nella pietra dei proverbi e della saggezza popolare.
Ineccepibile nella produzione e nella resa, il disco continua la parabola del mito, della rivisitazione della tradizione (o tradizioni) che Capossela sta portando avanti da Marinai, Profeti e Balene (con in mezzo Rebetiko Gymnastas) ma che è stata da sempre una sottotraccia di tutta la sua produzione, interessata fin dai primi dischi alla rielaborazione del popolare/tradizionale (ritmi sudamericani, armonie mediorientali, atmosfere mediterranee).

Questo disco è l’ideale proseguimento di quella parabola e insieme il suo compimento totalizzante e definitivo: il ritorno nella terra degli avi, l’archeologia sentimentale nei racconti e nelle leggende, nelle storie e nelle musiche che erano la colonna sonora di un affascinante tempo che fu, che qui vira seppia, come le foto, e diventa quasi un’età dell’oro, un mondo che, nei suoi dolori, suonava forse più diretto e vero, più libero, certo più povero e più stanco ma senza perdere la fame d’amore, di festa, di paura anche, quella un po’ superstiziosa che eccita e riunisce il gruppo intorno alle luci e ai canti dopo l’angoscia, il cuore affaticato e una spaventosa, fantastica storia da raccontare.
Non sorprende quindi scoprire che Canzoni Della Cupa fosse in cantiere da più di dieci anni: è una sempreverde voglia di mito a spingere Capossela verso la rielaborazione e la testimonianza per riportare al suo oggi delle tradizioni che, sotto la polvere e oltre l’ombra della memoria, appaiono estremamente vive, anche (e soprattutto) grazie alle sue doti di interprete e riscrittore eccelso, maestro del racconto, sciamano della voce e della parola.

La nota dolente, per i fan del cantautore, potrebbe però nascondersi qui attorno: scavando si trovano tesori, ma ci si ingobbisce; gli occhi si fanno miopi a guardare tanta terra smossa. Canzoni Della Cupa è un progetto ambizioso, pensato ed eseguito senza passi falsi o sbavature (non ci saremmo aspettati di meno); è un racconto mitico e preciso, immaginifico e appassionato, da godersi senza remore, scoprendo in ogni brano una storia affascinante, divertente, incredibilmente vicina. È perciò con una certa amara sorpresa che alla fine, quando rialzi gli occhi stanchi dalla terra e dai suoi tesori, ti accorgi di quanto sia ormai sfocato e nebbioso l’orizzonte: lontano più di quanto, forse, dovrebbe.

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Witches Of Doom – Deadlights

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Ebbene, anche i Witches Of Doom giungono al loro secondo album intitolato Deadlights. La band, che miscela lo stile di colossi come Type O Negative, Rob Zombie e Paradise Lost, torna in scena con un disco che li definisce una volta per tutte. Se con Obey, il disco d’esordio, hanno dato buona impressione, con questo nuovo lavoro danno la conferma d’esser, prima che dei buoni musicisti, dei bravi artisti.

Deadlights è un disco che spazia dal Doom, al Gothic con venature Stoner. Parliamo di un album che può essere ascoltato in svariati momenti, ma è anche un lavoro che vanta di tracce che potrebbero fare da colonna sonora a qualche film di Tarantino o dello stesso Rob ZombieDeadlights ispira sofferenza ma anche rabbia e carica, puoi trovarti in un periodo triste o in uno più movimentato, va bene lo stesso. In questo disco è interessante l’uso delle tastiere e degli effetti, questi ultimi sicuramente più utilizzati rispetto al precedente album. È chiaro che i Witches Of Doom con questo nuovo lavoro segnano la loro maturazione. Certo, non è un capolavoro ma è un disco che si difende abbastanza bene e si inserisce senza dubbio tra uno dei lavori più interessanti dell’anno.
“Lizard Tongue”, primo singolo, ti travolge con i suoi effetti creati dalle tastiere e con i mastodontici giri di chitarra di Venditti. “Run With The Wolf” con la sua composizione piano-forte è trascinante non solo per la buona melodia ma anche per il cantato di Piludu chiaramente inspirato da Peter Steele. Passiamo direttamente a “Winter Coming”, tetra ed oscura, anche qui c’è un buon gioco delle tastiere mescolate all’ottima voce di Piludu. “Homeless” e “Black Vodoo Girl” mettono in mostra la vena Stoner e Doom del gruppo. Chiudiamo citando “I Don’t want to be a Star”, la traccia più calma del platter, dal sound pulito e melodico, anche qui un ottima prova di Piludu.

Deadlights è un disco onesto, nel senso che riesce ad omaggiare grandi nomi del Goth e del Doom ma con un evidente personalità.

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Clowns From Other Space – Zeng

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Disco d’esordio dell’ensemble abruzzese, Zeng è un frullatone di Rock distorto e melodia, immerso fino alle ginocchia negli anni ’90 soprattutto inglesi, dove batterie lineari ma con personalità si accompagnano a un intreccio di chitarre sempre ragionato, mai sciatto. I pezzi sono gonfi di suoni: c’è in Zeng un’attenzione lodevole all’insieme compatto e pieno degli strumenti, ma questo non va a inficiare la resa melodica del disco, che è un disco di canzoni. I brani riescono a distinguersi, a rendersi riconoscibili pur in un contesto uniforme e coeso.

La voce di Cesare Di Flaviano, strascicata, sghemba, che sembra quasi stonare senza mai risultare fuori luogo, è un accompagnamento melodico perfetto. Lo scazzo generale è molto british, ma non disturba particolarmente, anzi: rende i brani piacevolmente equilibrati, li fa giocosi, sospesi come sono in quella terra di nessuno che non è Rock duro, non è Grunge, non è Brit-Pop, ma è un po’ tutto questo insieme.

Alcune scelte di composizione sono forse troppo facili: arrivano subito, questo è vero; rimangono nelle orecchie, ma sorge il dubbio che sia così perché già sentite altrove, già sperimentate tante (troppe?) volte. Piccolo neo anche per quanto riguarda i testi: un inglese non eccelso, che non convince al 100%. Interessante l’idea di dare al disco un’architettura strutturata, con la prima parte più diretta e la seconda più misterica, criptica; una distinzione che però non si percepisce molto nei fatti e che magari poteva essere maggiormente sottolineata.
I Clowns From Other Space hanno costruito un disco godibile nella sua interezza, che non fa magari innamorare perdutamente ma regala quei quaranta minuti (per nove tracce) di piede battente e testa oscillante. Forse osare di più aiuterebbe, ma la direzione presa è buona e il passo non è casuale, e si sente.


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Coucou, Sèlavy! – Nequaquam Voodoo Wake

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“Senza profilo da offrire alle galassie, ululavo alle costellazioni che indossavo a buon mercato…”

Artista romano che risponde allo pseudonimo di Coucou, Selavy!, l’autore di questo Nequaquam Voodoo Wake (terza opera, prodotta in trenta copie) è anche uno dei ricercatori vocali più importanti di tutta la penisola, uno dei pochi artisti ancora in grado di abbattere le esigenze del mercato; non semplicemente ignorarle ma farle letteralmente a pezzi e proporre qualcosa che si fa beffe di tutto il mainstream e lo pseudo alternative in circolazione, mostrandoci completamente a nudo la vera anima dell’arte, fatta di sperimentazione, libertà, necessità espressiva e compositiva. La sua opera è un’incredibile miscela di Post Punk (“Orfeo, Banfi, Lino-Lillà”), Neo Folk (“All This World”), Folk Apocalittico, Gothic (“Precipices”), Dark Cabaret (“Nequaquam”) il tutto impreziosito da una sensibilità, un’ironia ed uno stile unico, tanto da rendere praticamente impossibile e inutile il rimando ad alcun artista e musicista specifico e con al centro una vocalità straordinaria, poliedrica, capace di alternare scream, growl, canto classico e poi lingua italiana, inglese, francese e tanto altro. Prendete tutto questo e piazzatelo davanti ad un palcoscenico dall’incredibile gusto classico e barocco al tempo stesso ed eccovi una delle migliori opere uscite in Italia quest’anno, una delle cose potenzialmente più interessanti di tutto il globo che pecca solo nella qualità della registrazione e nell’idea di immediatezza che lascia scivolare con l’ascolto e che suona quasi come incompiutezza, non sappiamo quanto voluta viste le scarsissime informazioni a riguardo.

Come detto, è la voce di Coucou, Selavy! a mettersi al centro del palco ed è su questa che la nostra attenzione finisce per perdersi, alla ricerca di esperienze passate e future, di reminiscenze ottocentesche, di incursioni teatrali (“Incipit”), di spasmi avanguardistici, di sferzate ironiche e decadenti, demoniache e insane eppure godendo di capacità tecniche fuori dal comune e comunque lontane da quello cui siamo abituati (“L’Entropico Squallore”, “To the Center (of the Earth, of the Heart)”).

A chiudere la tracklist, l’incredibile ghost track, assurda reinterpretazione della nota “24000 Baci”, in una rilettura che confonde ogni nostra certezza e ci ricorda anche il passato dell’artista, già autore di tante cover di pezzi in assoluta contrapposizione agli originali. Non sappiamo cosa sarebbe potuto essere questo Nequaquam Voodoo Wake, non sappiamo perché un nome come quello del romano sia stato per tanto tempo nascosto ai più, non sappiamo se potremo godere anche in futuro delle sue qualità inumane e se un briciolo di notorietà in più saremo in grado di regalargli; quello che possiamo fare ora è mettere da parte ciò che non è o magari non sarà, dimenticare ogni illusione prospettica e godere dell’attimo presente in cui la sua musica ci scorre nelle vene.

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Recensioni | Giugno 2016

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Never Trust – The Line (Alternative Rock) 6,5/10
Energico Punk’n’Roll influenzato dai Paramore degli inizi e dalla melodia acida dei Guano Apes. Il timbro camaleontico di Elisa Galli conferisce ai brani una marcia in più. In “Turmoil” aleggia lo spettro dei Lacuna Coil, aprendo le porte ad influenze Gothic che hanno un senso compiuto nel contesto del brano. Peccato che le cartucce più spinte vengano sparate tutte nell’arco dei primi pezzi, ammorbidendo troppo il sound col passare dei minuti.

[ ascolta “A.I.M.B.” ]

Anadarko – Tropicalipto (Post Rock, Noise) 4/10
Gli Anadarko sono un trio di Trieste e propongono un Post Rock molto spigoloso, fatto da riff netti e decisi ripetuti in loop, vitalizzati ogni tanto da influenze Jazz. Quasi tutti i brani hanno lunghi momenti di ripetizione, ma risultano monotoni non avendo molte stratificazioni sonore e cambi di ritmo. Questo fa si che non si riesca mai a catturare l’ascoltatore e trasportarlo nel mondo raccontato. La ripetizione non genera ossessione, i suoni non ti lanciano nel cosmo o ti rinchiudono in un quadro post apocalittico. La sensazione e che ci si trovi davanti a brani figli di sessioni di improvvisazione piuttosto che a lavori rifiniti e cesellati da sofisticati incastri sonori. Le basi ci sono ma andrebbero esplorate e ampliate.

[ ascolta “Aterfobia” ]

Hoax Hoax – Shot Revolver (Post Rock, Noise) 4/10
L’ambizione di questo progetto è strettamente legata alla dimensione live, perchè è quella di creare un palcoscenico globale dove ciò che viene offerto per l’esperienza è al punto di incontro tra la musica degli Hoax Hoax, le video proiezioni e la luce. Nel loro Post Rock ci sono tanti sconfinamenti, come col Noise di “Huacos”, ma talvolta nettamente fuori contesto. Nel complesso quello che manca non è un senso logico ed organico, ma è un lavoro che senza il contesto multimediale non può essere apprezzato a pieno.

[ ascolta “Ablution” ]

Light Lead – Randomness (Dream Pop) 6/10
I bresciani Davide Panada, Beppe Mondini e, soprattutto, la voce di Michael Israeli confezionano questo Ep d’esordio dal sapore vagamente Beach House, anche nello stile vocale molto simile a quello di Victoria Legrand, ma con una maggiore semplicità e, purtroppo, decisamente meno talento. Eppure le cinque tracce di Randomness rapiscono già ai primi ascolti, grazie a suoni incastonati alla perfezione tra i vuoti delle corde vocali e a melodie eteree e rilassanti. Assolutamente da rivedere sulla lunga distanza, partendo dalla straordinaria opening “We Won’t Get Lost”.

[ ascolta “We Won’t Get Lost” ]

Rufus Party – Connections (Alternative Rock) 3/10
Gli emiliani Rufus Party gonfiano il proprio ego ri-presentandosi con un’opera che vuole essere una sorta di concept sul collegamento che intercorre tra gli uomini e la realtà attuale, sulla saldezza dei rapporti e delle relazioni che si instaurano tra i diversi attori che solcano il palco della vita. Una sorta di concept che però concept non è e che, dal punto di vista musicale, miscela Blues, Soul, Grunge in un miscuglio informe, banale, mal costruito e dal sound che oscilla tra inutilità e mediocrità. Cantato interamente in inglese, Connections è tutto quello di cui non avevamo bisogno, gradevole come una rassegna di band locali a costo zero alla sagra della birra di un paesino di provincia.

[ ascolta “Mothership Connections” ]

Mandela – Paint-sweating Hands (Alt Jazz) 7/10
Ottimo e purtroppo breve concentrato di Alt Jazz sinuoso e avvolgente come le spire di un grosso, lucido serpente. I cinque Mandela ci trasportano sul fondo di un oceano che si agita maestosamente e con placida grazia, tra il torrido di richiami esotici e il rarefatto di atmosfere nebbiose. Tastiere e synth mai fuori luogo, batterie che sanno venire in primo piano per poi arretrare, chitarre frizzanti e inserti di fiati che pennellano sapienti. Più cool di così si gela.
[ ascolta “Massive” ]

Weird Black – Hy Brazil (Psych Pop) 7/10
Italianissima formazione dedita a esperimenti lisergici ma senza prendersi troppo sul serio, che alla lezione Neo Psych dei C+C=Maxigross applica l’approccio scanzonato e Lo Fi di Mac DeMarco e una mollezza Folk da menestrelli d’altri tempi, elettrificata nei momenti opportuni, ad aprire parentesi sinistre (“In The Grave Of Lord”) oppure semplicemente a ricondurci nel presente, evitando abilmente di cadere in mere citazioni.
[ ascolta “Despite The Gloom” ]

Leave The Planet – Nowhere (Dream Pop, Synth Pop, Nu Gaze) 6,5/10
Duo londinese dalle origini italiche, i Leave the Planet sono Jack ai riverberi e Nathalie ai sussurri Shoegaze. Il Dream Pop del loro EP di esordio cavalca l’onda sintetica revivalista à la Slowdive, per sei gradevolissime tracce fatte di molti layer, soffici e giustapposti. L’assaggio stuzzica il palato, non resta che augurarsi che alla prova in full-length i due arrivino con qualche elemento in più a personalizzare la propria cifra stilistica.  
[ ascolta “Forever” ]

Femme – Debutante (Pop, Dance, EDM) 6,5/10
Un pixie cut rosa candy che campeggia sulla copertina del suo debut, ritmi easy da dancefloor sempre al limite del pacchiano e voce squillante e zuccherosa che ogni volta salva il tutto, specie quando si placa nelle ballad: è questa la formula di Femme, che si va a collocare nel folto esercito delle eroine del Pop danzereccio internazionale, per portarci una manciata di singoli appiccicosissimi, un’estetica accattivante e una buona dose di ironia.
[ ascolta “Light Me Up” ]

23 and Beyond the Infinite – Loath: Insane Mind Festival (Noise, Psych) 5,5/10
Quella della formazione beneventana è una psichedelia che deve molto alle origini del genere, chitarre distorte che si afflosciano narcotizzate, le liriche in inglese del cantato allucinato, esotismo quanto basta per catapultarsi nei mitologici 60’s. “From The Future to You” si sbilancia verso un Garage Rock oppiaceo ma è una promessa ingannevole: ci si gode il trip ma si resta insoddisfatti quando al termine dell’album appare chiaro che il viaggio è verso il passato, ed è di sola andata.
[ ascolta “From The Future to You” ]

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La violenza primitiva dei Ban-Off al Garbage Live Club

Written by Eventi

Giovanissima band teramana i Ban-Off nascono sul finire del 2013 miscelando sonorità Proto Punk con la violenza dell’Hardcore e le melodie del Post Punk e della New Wave . Dopo aver condiviso il palco con gruppi quali The Hussy, The Ar-Kaics, Wild Weekend, The Provincials, Plutonium Baby, Thee Rathskellers, Human Race, Wide Hips 69, A Minor Place, Two Guys One Cup, Zarr ed altri, saranno i protagonisti assoluti dell’ultima serata al coperto della stagione al Garbage Live Club (SABATO 4 GIUGNO ORE 22:30) di Pratola Peligna che, invece, aprirà la stagione degli eventi a “cielo aperto” sabato 11 giugno con i Coconuts Killer Band.

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5 artisti emergenti da tenere d’occhio

Written by Novità

Ci sentiamo tra qualche anno e scommettiamo che queste cinque band ne avranno fatta di strada?

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Cronauta – The Bullring

Written by Recensioni

Ci vuole una buona preparazione fisica e psicologica per far fronte all’onda anomala che da Finale Emilia travolgerà le vostre case, spazzerà via tutto, lasciando solo detriti. The Bullring è il primo disco edito dall’etichetta danese 5Feet Under Records per gli Hardcore heroes Cronauta ed è tranquillamente riassumibile come il suono della frantumazione. Nevrotici come i These Arms Are Snakes, inclassificabili come i Melvins, in Italia solo i Die Abete reggono il confronto per il livello eccessivo di pazzia espressa. “We Knew Well a Lip-Service Payment Would Have Followed the Statement” ed il singolo “Harangue” danno il via alle danze e subito la voce di Nicolò si scatena, senza dare respiro nemmeno per un secondo a uno sprazzo di melodia. C’è solo qualche spiraglio Experimental Jazz a intervallare l’incedere furioso, ma è davvero poca cosa. Così le parole incomprensibili ruggite fuori dall’ugola del cantante finiscono per fare da sfondo a un tappeto Mathcore tessuto dai tempi dispari della sezione ritmica. È però un qualcosa che metti in conto se ti avventuri in un ascolto simile. “Gentlemen’s Agreement” è un brano beffardo: in quattro minuti di canzone, uno di questi è dedicato a un intro rilassante che non lascia presagire a come sarà il seguito. Dobbiamo essere furbi noi ad essere impreparati, ma non troppo. “Mancuerda” ci regala la prima sorpresa con un giro di chitarra Noise inaspettato che molto deve a Duane Denison dei Jesus Lizard. Un assalto all’arma bianca che soddisfa un bisogno primordiale di smorzare i ritmi altamente schizzati dell’album. “Arizona Law in Northern Italy” mi ha ricordato tantissimo il sound degli Snapcase, soprattutto dal punto di vista vocale, anche se con i Cronauta nulla è circoscritto ed è lecito uscire dal recinto della prevedibilità. La chitarra di Niccolò cambia continuamente forma, passando dal caos a un riff quadrato e ragionato, trovando un riscontro perfetto nel resto dei compagni d’armi, impeccabili e facenti sfoggio di una padronanza strumentale eccelsa. The Bullring è un disco potente e prepotente, non adatto ai deboli di cuore e a chi vive la musica come una fonte di relax. Tutti gli altri non abbiano paura di dare una chance a questi camionisti, anche perché “87% of the Homicides Are Committed by Truck Drivers”.

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