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Ben Harper & The Innocent Criminals – Call It What It is

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Questo ritorno di Ben Harper con gli Innocent Criminals, gruppo col quale ha scritto le migliori pagine della sua carriera, è stato per me (ed immagino di non essere il solo) come un regalo ricevuto da un gruppo di vecchi amici ed una delle uscite, nel suo ambito, che più ho atteso in questo primo terzo di 2016. L’ultimo lavoro di Ben coi Criminals, risalente ad 8 anni fa, fu indubbiamente l’episodio meno riuscito del loro sodalizio ma le meravigliose pagine precedentemente pubblicate rimangono per il sottoscritto tra le più belle che una band ci abbia regalato negli ultimi vent’anni.
Ben coi Criminals (presenti, seppur non sempre con uguale formazione, anche nei dischi pubblicati a nome del solo Harper fino appunto a Lifeline) ha coniato quello che a tutti gli effetti possiamo considerare il suo linguaggio: una miscela di generi che trovano le proprie radici nel Blues ma che affiorano nelle più svariate forme in modo naturalissimo ma con grandi contaminazioni nonché con uno splendido dialogo tra i vari strumenti e le varie anime di una band che riesce a dare colore come essenzialità alle doti chitarristiche e canore del suo leader andando così a creare un sound che è un vero e proprio marchio di fabbrica.

E dunque, dopo l’inatteso e benvenuto tour di reunion dello scorso anno, ecco arrivare questo nuovo lavoro in studio.
Diciamo subito che i tempi del magico decennio ’94-’04 non sono raggiunti ma che sicuramente questo lavoro suona meglio della loro ultima fatica insieme, cosa non così scontata, e che volendo fare un paragone col passato questo nuovo disco potrebbe essere un Both Sides of the Gun riassunto in un unico disco (il magico decennio si era da poco concluso ma qualche buona cartuccia da sparare ancora c’era), emblematica è la bella ballata “Deeper and Deeper”, che pare uscire dal disco bianco del sopracitato lavoro.
Call It What It Is pur avendo passaggi un po’ scontati (il Blues in odor di Stones di “When Sex Was Dirty”), paraculi (il rock dall’incedere moderno e appiccicoso di “Pink Ballon”) e non del tutto convincenti (la title track che punta il dito contro gli omicidi della polizia sugli uomini di colore senza grande originalità di scrittura ma in modo comunque estremamente diretto e sincero) non manca di momenti assolutamente godibili. Sotto questo punto di vista da citare il Reggae di “Finding Our Way” (bel lavoro di Jason Yates all’Hammond e Juan Nelson al basso), che pur non avendo la struggente profondità della meravigliosa “Jah Work” o il calore (ed il colore) di “With My Own Two Hands”, ci mostra un uomo ed una band che quando toccano questo genere non deludono mai, impossibile dopo un paio di ascolti non immaginarsi a ballare e cantare questo pezzo sotto un sole caraibico con una collana di fiori al collo.
Altro ottimo momento è il Soul di “Bones” (perfetto per casa Strax), brano pulito, profondo, con l’ottima voce di Beniamino accompagnata da una bella sezione ritmica e da un buon lavoro dei Criminals tutti. Oltre alla già citata “Deeper and Deeper” sono presenti altre profonde ballads, meritano una citazione l’Afro Folk ricco di pathos di “How Dark is Gone” (dedicata ad un amico morto in prigione), “All That Has Grown”, malinconico Blues per sola slide che riporta molto indietro nel tempo garantendo un risultato indiscutibile, e la toccante “Goodbye to You” con la quale, nel più classico dei modi, si chiude il disco del ritorno a casa di Ben.

Questo Call it What It Is è dunque un lavoro che tutto sommato non delude ma che sicuramente ci propone una band ancora lontana dai suoi giorni migliori, una band che osa troppo poco pur muovendosi con invidiabile disinvoltura tra i soliti svariati generi. I ragazzi, che live sono una meraviglia, affronteranno insieme un nuovo tour (da noi a Milano il 7 Ottobre) che potrà dirci se questo ritorno di fiamma sia un fuoco di paglia o qualcosa di più grande; sperando nella seconda ipotesi credo che in futuro quella voglia e quella fantasia che in questo disco vengono un po’ meno, ma che i Nostri sicuramente non hanno ancora perso, si potranno ritrovare facendoci così scartare un regalo forse meno inatteso ma più vicino a quel buon sapore dei giorni andati, come ci si confà a buoni amici di vecchia data.

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Ilaria Pastore – Il Faro la Tempesta la Quiete

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Ilaria Pastore arriva al secondo disco con delle cose da dire (e non da poco): si parla di maturità, amore, rispetto per se stessi, per il proprio tempo, per i propri dubbi. Ci arriva con le idee chiare, una voce pulitissima e leggera, scevra da ogni traccia di retorica, e un gusto per l’arrangiamento scaleno e obliquo (curato da Gipo Gurrado) che rende Il Faro la Tempesta la Quiete un’opera leggiadra, iridescente, sempre in movimento.

Il nucleo del disco è il binomio voce-chitarra, gestito sempre con una limpidezza esemplare, e con inserti misurati e accorti di batteria, basso, pianoforte, archi e fiati, che allargano il campo senza mai strafare, con una precisione di incastri di melodie e armonie che avvolge e distende.
Ilaria Pastore sa raccontare senza fronzoli dettagli minuti ma importanti: una foto della madre che sorride tra i panni stesi (“Polaroid”), il dubbio come luogo della mente da cui non bisogna per forza fuggire ma in cui si può, e forse si dovrebbe, anche sostare (“Il Dubbio”), e poi la vita di coppia, soprattutto nelle sue difficoltà e fragilità (“Buio Pesto”, “Tu Sbufferai”, “Va Tutto Bene”, “Decifrato”). Il racconto è semplice ma efficace; a volte inciampa nel ridicolo (“Compro Oro”), ma spesso riesce nell’impresa di far convivere una scrittura colloquiale e una pregnanza inaspettata: in questa passeggiata così breve / consideriamo tempo perso quello speso bene, da “Ricordi Migliori”; o forse sarebbe meglio trovare la volontà di dirsi / siamo in ritardo / abbiamo sprecato del tempo e del coraggio ed ora / siamo in ritardo, da “Va Tutto Bene”, che fotografa un certo sentimento che pare serpeggiante in una società basata sulla fretta e sulla competizione sfrenata, anche nel rapporto a due.

Il faro la tempesta la quiete rischia qui e là lo scivolone quando la semplicità dei testi, spesso gradevole, si avvicina pericolosamente all’ombra della sciatteria; per fortuna ciò non accade spesso, e Ilaria Pastore arriva alla fine con grazia e convinzione, merito soprattutto della sua voce sempre impeccabile e dal timbro così trasparente, fresco e intenso insieme. Con qualcosa in più sarebbe stato un album meraviglioso – si dovrà accontentare (si fa per dire…) d’essere un buonissimo disco.

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Deftones – Gore

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I Deftones sono uno dei pochi superstiti all’ondata Nu Metal che travolse la scena musicale americana e non nei primi anni del 2000, toccando anche la nostra nazione (vedi i vari Mas Ruido o Browbeat per citarne due a casaccio), grazie ad evoluzioni continue che ne hanno evitato un’apparente omologazione.  Gore è il loro ottavo lavoro in studio ed è stato caratterizzato, purtroppo, da alcuni rumors che vorrebbero il chitarrista Stephen Carpenter in procinto di lasciare la band a causa di contrasti interni.  Non hanno mai nascosto di essere influenzati dal Dream Pop, come si intuisce immediatamente con la prima traccia “Prayers/Triangles”, un serpente sonoro che si insinua nei meandri della nostra anima, delicato al tocco seppur letale nel morso. In “Doomed User” è proprio la chitarra di Stephen ad esaltarsi, partorendo un riff di una ruvidità Punk che non si sentiva dai tempi di Around The Fur. E’ come se si avesse l’impressione che in questa canzone il gruppo, e Chino Moreno in primis, gli avesse lasciato totale carta bianca. Dico così perché resterà, inspiegabilmente, un episodio isolato. Il romanticismo New-Wave è assoluto protagonista in “Hearts/Wires”: una lunga introduzione fa da preambolo a quella che sarà la composizione più tranquilla e, al contempo, una delle più riuscite del pacchetto, valorizzata da un chorus di una bellezza inebriante. Chiacchiere a parte, anche in “Pittura Infamante” (titolo che strizza l’occhio al nostro Paese?) è il dialogo funambolico tra la batteria secca e precisa di Abe e il consueto lavoro del chitarrista a ergersi addirittura sopra le linee vocali di Chino. Una sorta di riscatto del proletariato. Nella titletrack il singer, però, si riprende lo scettro di re supremo con una performance vocale sopra le righe, ritornando ai fasti del passato con uno stile screaming capace di far vacillare le fondamenta di un edificio, per poi creare un’atmosfera soffusa nel ritornello clean. L’ospitata di Jerry Cantrell  degli Alice In Chains in “Phantom Bride” pare avere più lo scopo di produrre clamore, rispetto all’utilità nella struttura della canzone stessa. Assistiamo praticamente ad un assolo Hard Rock in un brano dalle tinte Shoegaze. Perplessità a secchiate.

Gore è un gradino sopra il precedente Koi No Yokan, ma ci lascia comunque ancorati al terreno, non facendoci spiccare il volo, come pregustavamo dai fenicotteri in copertina. Parliamo sempre di una band simbolo che giunta all’ottavo disco crea tendenza e dipendenza. E dopo vent’anni non è per niente facile.

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Explosions in the Sky – The Wilderness

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Oltre quindici anni di carriera alle spalle, sette album all’attivo, quattro colonne sonore tra cinema e TV e la consacrazione nell’olimpo delle migliori band post rock di sempre. Cos’altro chiedere agli Explosions in the Sky dopo un lavoro eccellente come Take care, take care, take care, la cui apertura e rottura col passato aveva cominciato a scalfire l’unicità dei Mogwai? Ebbene, le vie del Post Rock sono infinite così come sembrano essere le frecce nella faretra di Hrasky e soci che, senza troppi fuochi d’artificio, dopo cinque anni dall’ultimo lavoro in studio sfornano The Wilderness.
Un titolo secco e preciso e una scelta non usuale per i quattro texani che apre le porte della nostra percezione su una landa selvaggia che però, a detta dello stesso Hrasky, non proviene da nessuna esperienza di vita à la Into the wild e si configura come mezzo per creare la sensazione di un viaggio dove le cose non vanno nel modo in cui ti saresti aspettato.
The Wilderness, seppur ben ancorato all’aspetto strumentale chitarristico e marchio di fabbrica della band, spesso riluttante ad un uso massiccio dell’elettronica, appare come un album innovativo. L’accoppiata “The Wilderness” – “The Ecstatics” racchiude il core sound dell’intero lavoro ed è qualcosa di sorprendente nel suo essere così lontano e allo stesso tempo così vicino alla loro tipica eleganza. Lungo le nove tracce di The Wilderness si possono apprezzare dei richiami vaporosi agli anni Settanta (“Logic Dream”) che ne dimostrano la profondità e l’accuratezza sonora. “Disintegration Anxiety”, che divide il tutto a metà, è una corsa contro il tempo in pieno stile EITS, “Colors in space” conclude la sua cavalcata trionfale in un’estasi mistica che apre alla splendida, finale e riflessiva “Landing Cliffs”.

Un sound positivo che conduce per mano tra luoghi, persone, ricordi, parole, voci e rende The Wilderness un disco satellite rispetto ad un ascoltatore ormai in continuo movimento.
Le parole di Michael James su John Congleton, storico produttore della band , ben fotografano la situazione della band e la gestazione di questo disco: “Ok John, sei stato un tipo strano per tutto questo tempo. Facciamolo ancora più strano.” E l’abbiamo fatto!.
Se il Post Rock è ancora un pasto digeribile è anche merito loro.

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Bruuno – Belva

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Tra screamo e post-hc, la band esordisce con l’EP su etichetta V4V.
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Niagara – Hyperocean

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“Musica dell’altro mondo”, come si suol dire, perifrasi entusiastica di cui spesso si abusa, a voler condensare in poche parole la sensazione tonificante di star ascoltando qualcosa di inedito. Giunti al terzo album in studio i Niagara ci mettono in condizione di poter usare l’espressione senza risultare poi così esagerati.
Non che nelle puntate precedenti Davide Tomat e Gabriele Ottino abbiano mancato di sorprenderci piacevolmente, ma c’è uno scarto sostanzioso tra le intuizioni del passato e l’ambizione con cui Hyperocean è nato, come luogo ancor prima che come disco, perchè questo terzo atto ha davvero la pretesa di essere musica dell’altro mondo, colonna sonora di un pianeta immaginario e immaginifico: brano dopo brano, le sue undici tracce modellano le fattezze di un universo che non contempla terre emerse, in cui apprendere l’arte dell’ascolto in apnea è condizione necessaria per la sopravvivenza.
L’attrazione dei Niagara per lo stato liquido, che pure era tangibile nei suoni immersi nel fluido elettrico di Don’t Take it Personally, si spinge fino a diventare principio ispiratore di una dimensione parallela governata da logiche compositive ancora da scoprire, in cui l’acqua è elemento imprescindibile, che lasciato a reagire con le strutture melodiche le disgrega e ne disperde il senso.

Il duo cementa il sodalizio con la londinese Monotreme Records e conferma la necessità di guardare oltre i confini della Penisola nel caso in cui ci si voglia sforzare a collocarli entro correnti e tendenze: le arguzie compositive di producer come Arca e Lapalux, le perturbazioni ovattate di Oneohtrix Point Never, l’ossessività degli Animal Collective. Nelle liriche sommerse dei Niagara trova spazio un nuovo modo di fare cantautorato, che rifugge i costrutti collaudati eppure mantiene la vocazione Pop, scegliendo la musicalità della lingua inglese che si confà al suo ruolo, perchè il cantato ha lo stesso peso degli altri layer sonori.
L’analogico è ridotto all’osso, percussioni e acqua, catturata da idrofoni in ogni condizione e stato, dagli abissi marini al ghiaccio in una bacinella. Il resto è lavoro in digitale di sovrapposizione strato per strato di anomalie e pulsioni emotive. Sui gorgheggi metallici dell’opener “Mizu” si incastra una voce femminile robotica, sopraffatta poi dal crescendo dei synth.  Materia sonora di ogni tipo confluisce nei brani e ne esce snaturata: orchestre di archi acidi che suonano come vetri rotti in “Escher’s Surfers”, molecole di nebbia elettrica che sibilano in “Fogdrops”, abrasioni regolari a cadenzare linee vocali e riverberi Psych plastificati di “Blackpool”. Nell’accumulo di elementi sonori, sono piccoli escamotage quelli che innescano la detonazione, come ad esempio un lieve sfasamento, quello tra i sample che si rincorrono nella title track, o quello tra i singhiozzi sintetici e i loop vocali di “Solar Valley”.
L’impasto è artefatto ma suona vivo e pulsante, dall’inizio al finale incompiuto di “Alfa 11”, una nenia disturbante che degenera dilatandosi in sferzate apocalittiche per oltre dieci minuti, fino a placarsi in una calma che ha tutta l’aria di essere solo apparente.

Al termine del viaggio le linee guida del sound dell’altro mondo sono ben delineate, e il disco che ne porta il nome suona organico, più oscuro e inquieto del suo predecessore. Quelli esotici e tecnologici di Don’t Take it Personally sono stati luoghi affascinanti, ma pur sempre parte del nostro pianeta e confinati in quel limbo che è il presente, mentre Hyperocean ha le ispirazioni giuste e l’audacia sufficiente per inventarsi un possibile futuro post-elettronico.

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Recensioni | maggio 2016

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Jenny Penny Full – Eos (Dream Pop, Folk, Psych) 7/10
Misurati e cullanti come la migliore delle ninne-nanne. Un’incantevole voce femminile e tappeti sonori che stregano senza mai eccedere, forse peccando, qui e là, di troppa linearità, ma recuperando altrove in piccole fughe eteree, fumose ascensioni improvvise. Prodotto dalla Vaggimal dei C+C=Maxigross, Eos è un debutto sussurrato, ma convincente.

[ ascolta “Far Continents” ]

Echoes of the Moon – Entropy (Doom Metal, Ambient, Post Rock) 4,5/10
Prolisso e noiosetto concentrato di batterie finte, distorsioni acide, urla distanti e cupezza senza fine. Troppo immerso nei cliché per poter sostenere brani da 10 minuti senza evocare sbadigli o prurito al tasto “skip”. Solo per fan del genere, sfegatati al punto da sfiorare il masochismo (ce ne sono).

[ ascolta “Entropy” ]

Foxhound – Camera Obscura (Alt Pop, Funk) 7/10
L’ex quartetto torinese sembra muoversi con più disinvoltura in questo EP, che in cabina di regia ospita Mario Conte (Meg, Colapesce). Rimasti in tre, i Foxhound continuano a muoversi in territori Funk ma si lasciano andare a sperimentazioni analogiche che li rendono soffici e gradevolmente retrò. Ora che la nuova rotta è fissata e funziona attendiamo la prova in long-playing.

[ ascolta “My Oh My” ]

Blackmail Of Murder – Giants’ Inheritance (Metalcore) 6/10
I bresciani, freschi di contratto con la label Indiebox, ci presentano il loro secondo disco: Metalcore indiavolato come da tradizione Killswitch Engage, Caliban e compagnia bella. Il confronto con i mostri sacri del genere regge bene, compresa la ballata “Whisper”, unica variante di un lavoro che ha come punto debole la troppa somiglianza tra i singoli pezzi, risultando, alla fine, impossibile distinguerne uno dall’altro.

[ ascolta “Never Enough” ]

Oaken – King Beast (Dark Ambient, Post Hardcore) 5,5/10
Gli Oaken da Budapest hanno il coraggio di osare, influenzando il Death Metal con una massiccia dose di Dark Ambient e degli inserti Melodic Hardcore. Immaginatevi dei Converge fatti andare a briglia sciolta e calmati con forti scosse elettriche. I brani sono solo quattro ma durano un’eternità, allungati da contaminazioni a profusione. Si salva la voce femminile che impreziosisce “The Hyena” e poco altro.

[ ascolta “The Hyena” ]

Kai Reznik – Scary Sleep Paralysis (Elettronica, Ambient) 4,5/10
Dalla Francia, un’elettronica cupa e retrò che non stupisce per ricerca sonora né per maestria compositiva, tra arpeggiatori ossessivi e synth poco a fuoco. Un poco più interessanti le voci di Sasha Andrès degli Heliogabale su “Post” e “Nails & Crosses”. Se le atmosfere claustrofobiche sono volute, ci sarebbe da lavorare sui suoni per renderle masticabili e non distrarci troppo con gli spigoli grossolani dell’impianto strumentale.
[ ascolta “Post” ]

HUTA – How To Understand Animals (Alternative, Post-Grunge, Shoegaze) 6/10
Un mix saporito di sporcizia echeggiante attitudine Grunge e tappeti sonori e rumoristici da trip oscuro e nervoso. Il trio di Cuneo sforna un album che non delude dal punto di vista strumentale, abbastanza muscolare e ipnotico da convincere nonostante la voce non eccelsa e i suoni a cavalcioni del confine tra frizzone Noise controllato e amalgama poco riuscito, ribelle, fastidioso. Un equilibrio in bilico che mette in luce una qualche potenzialità senza però esplicitarla compiutamente.

[ ascolta “Hone” ]

Guns Love Stories – The Beauty of Irony (Alt Rock) 6/10
Unite il cantante degli Hardcore Superstar ad una qualsiasi band del filone Emocore stile Silverstein o Emery, per fare due nomi a caso, e avrete ben presente come suonano gli svizzeri Guns Love Stories. L’album gode di una produzione ottima che tira a lucido dieci canzoni ad alto tasso di infiammabilità. Eppure, nonostante ciò, il senso di incompiuto è perennemente dietro l’angolo.

[ ascolta “Predigested Hollywood” ]

Xayra – Resilience Blues (Pop) 5,5/10
Se questo disco fosse stato pubblicato più o meno vent’anni fa si sarebbe potuto tranquillamente gridare al miracolo: sarebbe stato un mix perfetto fra Silencers, Smashing Pumpkins, Ellis, Beggs and Howard e il primo Brit Pop. 
Tuttavia la musica negli anni si è evoluta ed è forse giunto il momento per gli Xayra di aggiornarsi e di adeguarsi ai giorni nostri. Certamente un bel lavoro ma fuori tempo massimo.
[ ascolta “Worries+Faults” ]

Filippo Dr Panico – Tu Sei Pazza (Punk, Cantautorato) 6,5/10
Si può descrivere il rapporto di coppia in musica senza mai delineare troppo il confine tra Punk e Cantautorato? Per Filippo Dr Panico è impresa fin troppo facile. Il suo valore lo aveva già dimostrato con il precedente lavoro, ora però ascoltatevi con attenzione “Bravo a Parole” e la title track meditando sui testi, chissà che non vi identifichiate nelle medesime situazioni. Da segnalare inoltre “Ci Vorrebbe Una Notte”, scritta assieme a Calcutta.

[ ascolta “Ogni volta che te ne vai” ]

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Tim Hecker – Love Streams

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Un’amorevole e malinconica riflessione sulla condizione umana di un artista che si rinnova senza snaturarsi.
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Uli – Black and Green

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Uli gioca all’ombra della schiena di Nina Simone a rincorrere i fantasmi di Bill Hicks, ma in realtà è una italianissima cantautrice e ha le idee piuttosto chiare per essere una che è appena al suo album di esordio. Al secolo Alice Protto, la Uli di Black and Green riparte dai tre brani dell’EP dello scorso anno e sceglie i colori con cui tingere la devozione nostalgica al sound atemporale del Folk e del Blues americani che già allora aveva confessato.

Eloquente nel chiarire il processo compositivo è ciò che accade all R’n’B delle liriche di “Nina Simone’s Back”, riarrangiata ora in chiave Psych su un fondale di elettronica discreta dai toni scuri, con la voce effettata che rimbalza nelle cavità profonde delle percussioni. Il nero intramontabile è quello di una Nancy Sinatra nell’intro di “Hicks Y Z” che occhieggia alle tonalità di “Bang Bang” e si destreggia sapientemente tra pieni e vuoti. Il verde lisergico è il Folk scanzonato di una KT Tunstall nell’incalzante “Martial Hearts”.
A confermare la bontà dell’intuizione c’è il fatto che i momenti migliori sono quelli in cui le cromie si mescolano a dovere: nell’incedere della marcia di “Dry River” col cantato di Uli che avvolto nel sax rimane sospeso nel tempo, negli accenni sintetici di una ballad ritmata come “Emerald Dance”.

La formula di Black and Green è semplice ma è declinata in maniera suggestiva, narrata da un timbro Neo Soul immediato come quello di Gabriella Cilmi ma immersa in un liquido amniotico à la Daughter che le dona il magnetismo giusto per distinguersi dal mero Pop. C’è più di uno spunto valido da coltivare in futuro.

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Kay Alis – Hidden

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L’album d’esordio del quartetto ternano capitanato dalla voce di Alessandra Rossi è il punto d’arrivo e insieme di rinnovata partenza di un percorso iniziato nel 2008 quando la band umbra scandagliava il passato Electro Wave anni Ottanta in cerca della propria dimensione. Hidden è un punto d’arrivo, perché muovendo da quelle ricerche sonore che non disdegnavano di addentrarsi tanto nella New Wave e nell’Elettronica, quanto nel Trip Hop e l’Industrial, sono giunti a un suono distinto, caratteristico, peculiare pur non facendo dell’originalità il punto di forza. Hidden è, però, anche un punto di partenza perché proprio il conseguimento di questo sound specifico pone le basi, vista la buona qualità espressa, di un futuro avvincente sotto diversi punti di vista. Prendendo il via da un banalissimo tema quale l’amore, i Kay Alis (prima moniker della sola Rossi, ora nome della band a tutti gli effetti) ne indagano gli aspetti più felicemente corrotti e inverosimili grazie a voce e testi proprio di Alessandra Rossi, riuscendo a non essere mai insipidi, almeno sotto l’aspetto lirico. Sotto quello squisitamente strumentale, invece, restano le scie nostalgiche di certe sonorità Trip Hop, New Wave e Industrial, specie nella sezione ritmica curata da Samuele Rosati (basso) e Daniele Cruccolini (batteria) ma il lavoro di Giorgio Speranza a synth e programming plasma un sound molto discorde, che convenzionalmente si riduce a eredità ovvia di Kraftwerk e Depeche Mode ma nel concreto sembra un parallelo dalle distanze pericolosamente ridotte dei britannici Ladytron (il legame è rafforzato dalla comune voce femminile alla guida) da un lato e dei canadesi Junior Boys dall’altro. A guardare bene, vista la linearità della proposta dei Kay Alis, i paragoni scomodi potrebbero essere davvero tanti ma la cosa non sarebbe altro che un’inutile distrazione dall’ascolto di un prodotto intrigante almeno per le evidenziate potenzialità. La voce di Alessandra Rossi è croce e delizia; tenue, soffusa, dalla timbrica accattivante e capace di fare da perfetto amalgama tra l’anima Electro e l’urgenza Pop ma, nello stesso tempo, un limite per il futuro se quanto messo sul piatto dovesse essere il massimo manifestabile.

Accurata ma non troppo convincente la ricerca melodica; le linee gravi a farne da cornice e la globalità di quanto ascoltato forniscono diversi elementi per ben sperare ma c’è da rilevare che la semplicità mostrata rischia di diventare una debolezza e un handicap per i nostri italiani, specie se contrapposti ai colleghi lingua madre. Per andare oltre ed ergersi prima nel panorama tricolore e poi, magari, in quello oltre confine serve uno sforzo in più, possibile ma difficile da parte della Rossi, ben più alla portata dei restanti musicisti. Hidden è un buon lavoro che rischia di restare anonimo per mancanza di coraggio in fase compositiva e che potrebbe diventare il via di una bellissima realtà nostrana se solo musica e voce riuscissero a superare i propri limiti.

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Arturocontromano – Pastis

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Questa band calca le scene torinesi da più di 15 anni, come un fiume in piena tra Ska, Reggae, Folk nostrano, Funky e cantato in italiano mai banale e fuori dal tempo. Anche questo nuovissimo Pastis è fresco e concreto. A cavallo tra la maturità e la poca voglia di crescere, restare sognatori incalliti con i piedi per terra. L’inizio di “E la Sera” è festa, con quelle voci sotto che sanno di vino rosso versato in bicchieri da piola. Il contrabbasso e la batteria swingata sono gioia pura, perfetto poi l’incastro con il piano wester e con il sax. Un suono che ammette miriadi di sfumature, “Fermo a Carnevale” è sarcastica, contro ogni tipo di moda, sbilenca con quella tromba e quella ballata in levare. Sembra il gioco di un equilibrista che si destreggia con una gamba sola, il senso di caduta costante aumenta il divertimento. Il tutto poi impreziosito dalla collaborazione con gli Eugenio in Via di Gioia, tra i migliori gruppi in circolazione oggi a Torino.

La canzone più bella arriva con “Il Cassetto”, vecchia fotografia impolverata. Semplice, uno schiaffo in faccia di nostalgia e i rimpianti di una fredda divisione. Ma ci pensa il gruppo a creare un suono magico su un tema alquanto scontato, potere sopraffino del Pop. Il resto del disco scorre come acqua tra le dita in una calda notte d’estate, fresca e dissetante (anche se la bevanda più adatta a rappresentare un disco che si chiama “Pastis” di certo non è l’acqua!). Non mancano però temi più caldi che le mani le bruciano. “Il Senso Del Non Senso” galleggia su un substrato ballabile e latino, le parole sono però le più impegnate del disco e si collocano nel bel mezzo della striscia di Gaza. “Pastis” è eterogeneo, multiculturale ma ha il suo filo logico che lega una canzone all’altra e ogni brano ha in sé qualcosa che merita un commento. “La Mia Esplosione” e “Sospiro” dimostrano come gli Arturocontromano giochino col Jazz, avvicinandosi a Vinicio Capossela ma anche al maestro Paolo Conte. Il sax domina la scena in questi due pezzi stradaioli. “Vorrei Adesso” e “Dall’Altra Parte dell’Oceano” sono scanzonate e studiate a puntino per scatenare il pubblico di un concerto. Senza dimenticare mai quel senso di nostalgia e di consapevolezza che racchiude tutto il Pastis. Il titolo descrive tutto per bene, questo è un album da bere: per dimenticare le brutte batoste, per ricordare i bei tempi, per un brindisi tra vecchi amici o semplicemente per sciogliere più le gambe e fare baldoria.

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Luca Di Maio – Letiana

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Con Letiana, esordio solista di Luca Di Maio, parto dalla fine: non perdetevi questo gioiellino di disco se appena appena vi interessa il futuro del cantautorato nel nostro Paese. Perché? Senza farla lunga: ci sono elementi, in Letiana, di una classicità senza tempo, eppure non c’è polvere, non c’è il maleodorante olezzo di putrefazione che spesso aleggia sul Cantautorato che si rifà alla santa, elementare trinità (testi curati, chitarra acustica e temi forti).

Luca Di Maio canta di migranti, di morti sul lavoro, di violenza sulle donne, ma anche di amore, di perdita, di addii, di sconfitte, con una delicatezza e una grazia assai rare. I testi sono centratissimi nel loro ossimorico affrontare a testa bassa il mondo ma di sbieco, per risonanza: “Sabbia”, da questo punto di vista, è un capolavoro. E anche nel resto del disco non si scherza.
Il reparto musicale, poi, completa il cerchio: una cura negli arrangiamenti e nella produzione (il cui lato artistico è affidato a Marco Parente) che rende ogni brano un piccolo, flebile – ma sapiente – canto religioso (la title-track è una fuga precipitosa, circolare e in salita verso altri, sacri mondi). Poche percussioni, ambientazioni sonore aperte e spaziose, chitarre sinuose, violini, pianoforti, cori, e poi theremin, dulcimer, wurlitzer… una ricerca sonora che rinfresca e disseta, misuratissima, calibrata al millimetro.

La ciliegia sulla torta è la voce di Di Maio: come mi è già capitato di dire, spesso la voce viene lasciata in secondo piano là dove il focus può essere sul testo, sui contenuti. Letiana è la prova di come invece la voce – e il suo timbro, il suono, il registro – sia una componente fondamentale di un progetto cantautorale. Quella di Di Maio è sottile ma ruvida, delicata ma con una sfrontatezza di fondo, una passività, una trasparenza filigranata, si potrebbe dire, che aumenta la forza diagonale dei temi trattati invece di diminuirla, e allo stesso tempo la piega e la distorce, così da evitare (in sinergia con lo stile di scrittura, com’è ovvio) ogni effetto retorico che argomenti caldi come la violenza sulle donne (“La Normalità”), le morti bianche (“Impalcature”), le migrazioni (“Migrare”) potrebbero trascinarsi dietro. E anche dove ci si intenerisce (penso a “Canzona per il Mio Piccolo Cuoro”, a “Buonanotte Irene”) non si rischia mai di appiccicarsi al miele, ma si rimane come sospesi a levitare sopra ciò che accade, a guardarlo passare, partecipando emotivamente, sì, ma senza lasciarsi spazzare via.
Letiana ha qualche difetto nell’essere un lavoro forse incompiuto: con nove brani per 32 minuti vorresti durasse molto di più. Ti rimane la curiosità di vedere con gli occhi del suo autore altre, diverse cose, e speri non manchi molto per verificarne la tenuta nella prossima, ci auguriamo altrettanto convincente, avventura.

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