Tornano i Duran Duran con il loro quattordicesimo disco in studio, Paper Gods, un disco in cui sono i sintetizzatori a fare da padroni ma in cui non mancano buoni spunti chitarristici (fra gli ospiti c’è anche John Frusciante, ex Red Hot Chili Peppers) e ritmi ballabili. Sì, perché questo è probabilmente l’album più Dance mai pubblicato sinora dal gruppo inglese, che alcuni giorni fa ha avuto anche l’onore di introdurre il nostro Giorgio Moroder premiato con l’Inspiration Award ai GQ Men of the Year Awards 2015. Tuttavia attenzione: Paper Gods non è una copia di nessuno dei suoi predecessori perché è sempre stato così in fondo. I Duran Duran preferiscono rinnovarsi, aprirsi a nuove sonorità e soprattutto sperimentare senza mai eccedere nell’eccentricità. Chissà che quegli Dei di carta non siano proprio loro che sono ormai sulla cresta dell’onda da quasi quarant’anni. Attraversare cinque decadi non deve certo essere stato facile, come non deve esserlo stato non cedere alle mode del momento quali il Grunge, ma i quattro di Birmingham hanno sempre tenuto duro, resistendo persino agli avvicendamenti in formazione. Oggi non hanno più un chitarrista “fisso” ma hanno in Dom Brown un valido collaboratore che li assiste ormai da dieci anni e che firma persino alcuni brani del disco. Già dalla copertina, in cui sono presenti i simboli di alcuni lavori passati, i Duran Duran hanno tenuto a indicare che Paper Gods è quasi una sorta di breviario del gruppo, utile a conquistare nuovi fan, ma che forse ha indispettito alcuni tra quelli più fedeli che dopo cinque anni di assenza dal mercato discografico (se non si considera il live A Diamond in the Mind) pretendevano qualcosa in più. Tuttavia Paper Gods suona come un disco “maturo”, perfetto per il 2015, un po’ meno se fosse stato prodotto negli anni Ottanta. La mano dei produttori (Mark Ronson, Mr. Hudson, Josh Blair e Nile Rodgers) è evidente e le collaborazioni di lusso non mancano; in una bonus track, presente solo nella deluxe edition, “Planet Roaring”, c’è persino Steve Jones dei Sex Pistols a dare un sentito apporto, ma le più “inusuali” sono certamente quelle di Lindsay Lohan che presta la sua voce per un parlato in “Danceophobia” e di Jonas Bjerre dei Mew in “Change the Skyline”. E poi ci sono anche Mr. Hudson, Davide Rossi (in passato già al fianco di Coldplay e Goldfrapp), Kiesza e Janelle Monáe che non fanno altro che dare un valore aggiunto al disco. Tuttavia l’album più che al passato e al presente guarda al futuro, quello dei suoni sintetici, che a volte hanno sì un sapore vintage ma che potrebbero essere di ostacolo al successo del disco. Manca un singolo di forte impatto dal ritmo inconfondibile e “Pressure Off” è forse troppo poco per scalare le classifiche. Tuttavia in Italia la canzone è già usata come sigla per la Serie A Tim e come sottofondo per gli spot Tim (proprio come accadde anni fa con “(Reach Up for the) Sunrise”) ed è facile prevedere che almeno nel nostro paese venderà molto bene (posizione massima raggiunta finora: #2). Altrettanto sta già facendo nel loro paese natio dove è già in cima alle classifiche di Amazon; rimane invece qualche perplessità per il mercato statunitense e per quello giapponese dove un sound più “heavy” avrebbe giovato molto. I Duran Duran però ci hanno abituato negli anni alle sorprese e quindi staremo a vedere cosa succederà. La prova definitiva sarà certamente quella del live, dove sarà difficile riprodurre certe atmosfere, ma anche lì forse le tecnologie moderne daranno una piccola mano. I punti di forza (o di ripartenza per un eventuale futuro) sono certamente da ricercare in “What Are the Chances?” e in “Garage Days”. Intanto provate a godervi questo Paper Gods che in fondo rispetto a quanto si sente in giro è un gradino più su.
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Sugar for your Lips
Giovanissimi e carichi nella maniera giusta i quattro ragazzi di Cosenza hanno tutte le carte in regola per farci emozionare con il loro Alternative Rock (sporco alla maniera del Punk) influenzato dai mostri sacri Foo Fighters, Radiohead e tanti altri. Li ha intervistati per Rockambula Webzine il nostro capo redattore, Silvio “Don” Pizzica e quello che ne viene fuori è una chiacchierata onesta, interessante e che speriamo, tra qualche anno, si possa leggere come il preludio di una grande band. Tutto sta alla loro capacità di imparare dai propri stessi errori.
Ciao ragazzi. Sugar for your Lips; una formazione giovanissima e ancora tutta da scoprire. Iniziamo con le presentazioni. Chi sono gli Sugar for your Lips?
Ciao Silvio! Bene, come hai detto, siamo una formazione molto giovane che cerca di farsi strada in questo settore, anche se col passare del tempo stiamo anche noi collezionando le nostre piccole conquiste. Gli Sugar for your Lips sono Riccardo Monaco alla voce e alla chitarra ritmica, Antonio Belmonte alla chitarra solista e alle voci secondarie, Carlo Bilotta al basso e Niki Bellizzi alla batteria e alle percussioni.
Il vostro nome sembra già fornire diversi indizi. Una scelta da band Alt Rock anglofona e l’evocazione di atmosfere che, immaginiamo, artificialmente dolci ma forti. Tra qualche secondo pigerò il tasto play per verificare; nel frattempo, ditemi quanto ci sono andato vicino?
Hai azzeccato in pieno! La scelta del nostro nome è stata presa, appunto, per dare un tocco di dolce ad una band avente un sound relativamente aggressivo; beh, non resta che ascoltare!
Play appunto. Prima “Glass of Scotch” e poi “Resignation”. Nel primo brano è evidente l’aspetto Alt Rock, Nu metal quasi. Nel secondo si allentano le tensioni e viene fuori un inatteso Pop Rock, velato di romanticismo decadente. Due anime dello stesso corpo. Qual è quella che più vi rappresenta?
Beh, diciamo che il nostro sound si identifica più in Glass of Scotch (non per niente è stato il primo singolo estratto dal nostro EP). È appunto ciò che vogliamo trasmettere al pubblico, energia mista ad una vena di malinconia, con un finale esplosivo, quasi come se volessimo lasciare l’amaro in bocca ai nostri ascoltatori.
I due già citati sono i singoli del vostro Ep Be Sweet. Come è nato questo lavoro?
Il lavoro nasce innanzitutto dalla volontà comune, dopo tanto tempo passato in sala prove e tra piccoli e grandi palchi, di ufficializzare il nostro progetto. Grande merito per la (speriamo!) buona riuscita del lavoro dobbiamo darlo a Joe Santelli, voce e chitarra dei VioladiMarte, che ci ha seguiti e indirizzati verso la “diritta via” presso le Officine33giri.
Svestendo i panni dell’intervistatore curioso e indossando quelli del critico cinico, non posso negare di aver trovato diversi “problemi” nei vostri pezzi, dagli arrangiamenti non proprio perfetti, fino alla costruzione delle linee melodiche, spesso banali ma prive d’appeal. Senza scendere nei particolari, voi quanto siete soddisfatti di quanto fatto fino a questo punto? Ed in generale quanto siete critici nei vostri confronti?
Siamo abbastanza soddisfatti del lavoro svolto, anche grazie alle tante persone che hanno apprezzato la nostra musica. Ovviamente, per quante persone ti apprezzano, ce ne sono tante altre che ti criticano. Noi SFYL incitiamo sempre il nostro pubblico ad esprimere si, apprezzamenti, ma soprattutto critiche, in quanto sono le critiche a farti crescere musicalmente e personalmente (ovviamente se le critiche fatte sono sensate e non campate in aria).
Avete scelto di utilizzare la lingua inglese, guadagnando certo in musicalità ma, inevitabilmente, ponendovi dei paletti circa il pubblico raggiungibile dai vostri testi. Per non parlare delle difficoltà di pronuncia (avete mai pensato a come possa suonare il vostro cantato in inglese se ascoltato da un madrelingua?). La vostra è una decisione ponderata e valutata con cura o frutto di una naturale e personale inclinazione verso quella lingua?
La scelta dell’inglese è stata una scelta ovviamente pensata, anche se è avvenuta con molta naturalezza, in quanto le influenze musicali di tutti noi sono per lo più derivanti da artisti che cantano in lingua inglese. Sappiamo che è una sorta di catena, in quanto in Italia ovviamente la gran parte del pubblico ascolta musica in italiano, ma sappiamo anche che puntiamo al massimo, e puntando al massimo vogliamo che la nostra musica sia compresa dalla maggior parte della popolazione e per questo abbiamo adottato una lingua internazionale.
Quanta importanza date, per restare in tema, alla parte testuale, alle tematiche affrontate, ai contenuti e ai soggetti? Le vostre liriche sono per lo più autobiografiche, rivolte alla musicalità delle locuzioni o prevalentemente narrative?
Per lo più i nostri testi narrano storie di vita, autobiografiche o rivolte alla gente normale che combatte quotidianamente contro i problemi della vita, i quali possono essere l’amore come l’incomprensione. Certamente non mancano i testi socialmente impegnati come in “Too Much Bad News”, altro brano presente nel nostro lavoro (precisiamo che per questo brano abbiamo adottato una “licenzina poetichina” in quanto il titolo della canzone è grammaticalmente scorretto ma più musicale).
Che differenza c’è nell’ascoltarvi dal vivo? Lavorate molto sul tipo di spettacolo da proporre o, per ora, vi limitate a suonare?
Noi tutti pensiamo che la vera musica, quella che trasmette veramente sentimenti, sia quella suonata dal vivo. Pensiamo che sentire un nostro live sia completamente diverso dall’ascoltare i nostri lavori in studio, in quanto dal vivo tiriamo fuori tutto ciò che le nostre canzoni vogliono esprimere. Dopo tre anni passati sui palchi abbiamo imparato che un live deve essere quasi uno spettacolo e cerchiamo di preparare l’esecuzione dal vivo al meglio in tutti i particolari.
Oggi più che mai sono sempre più le band interessate a farsi largo nel mondo indipendente. Gli strumenti sono importanti e quindi Social Network, live, passaparola, merchandising e quant’altro. Suonare non basta insomma. Come vi state muovendo in tal senso e cosa fate di diverso dagli altri?
Beh, a livello di social, come tutte le band abbiamo una pagina facebook, un canale youtube e siamo iscritti su svariati siti internet di promozione e pubblicità. Di diverso possiamo dire di essere inseriti in un circuito che ha come obbiettivi quelli di promuovere, organizzare serate e produrre le band e gli artisti presenti nel circuito, la Fallen Interlude Movement. Pensiamo che la collaborazione e il supporto tra le band sia alla base di una buona riuscita di un progetto. Uniti si può fare.
Sotto l’aspetto stilistico, come descrivereste la vostra musica? Quali sono i vostri punti di riferimento e cosa avete di diverso da chi vi ha influenzato e da chi vi circonda?
Quando ci pongono la domanda “che genere suonate?” siamo soliti rispondere “non abbiamo un genere, suoniamo la nostra musica”. Ovviamente ognuno di noi ha influenze musicali diverse, che possono variare da band come i Red Hot Chili Peppers a band come i Foo Fighters, i Radiohead fino ad arrivare ai System of a Down. Di diverso abbiamo tutto, ascoltare per credere.
Che approccio avete con la musica? Siete dalla parte del pubblico (che agisce spesso senza fermarsi troppo ad ascoltare, spesso osannando mediocrità assolute) o della critica (che a volte guarda troppo alla qualità allontanandosi dai gusti della gente)?
Ogni volta che suoniamo cerchiamo sempre di guardare il lato critico dell’esibizione, cercando di capire quali sono i punti da affinare per andare sempre migliorandoci. Il nostro obiettivo è quello di far apprezzare la nostra musica non solo ai patiti del genere, ma a tutto il pubblico, nessuno escluso. Vogliamo creare noi i gusti alla gente.
Ultima domanda. Diventare famosi in Italia è quasi impossibile e chi ci riesce, non è quasi mai il migliore e chi lo merita davvero. Vivere di musica, della propria musica è altrettanto improbabile; e allora perché lo fate?
Innanzitutto lo facciamo per passione e per amore verso la musica. I nostri obiettivi sono chiari, puntiamo ad arrivare il più su possibile, senza pensare ai rischi e alle complicazioni che questa strada ha. Crederci è il primo passo per raggiungere un obiettivo, e noi ci crediamo. Il resto del compito lo farà la nostra musica. Grazie per l’intervista, speriamo che le risposte siano state esaustive! Be Sweet; S.F.Y.L.
Highway Dream – Wonderful Race
La fiera del clichè. Purtroppo questo e poco di più ci lascia questo disco dei cremonesi Highway Dream. Una grande esplosione di tecnica, di suoni pomposi, di brani troppo fini a se stessi. L’impressione di una band molto determinata, ma poco coesa e poco permeabile. Il gruppo, nato nel 2008, piazza un macchinone in copertina e sfodera un titolo a dir poco prevedibile. Wonderful Race è un mix tra Hard Rock di matrice anni 80 (Europe, Scorpions su tutti) con parecchie influenze che strizzano l’occhio al Metal più classico (il confine poi è davvero sottile). Insomma nessun rischio, nessuna aria nuova, ma anche nessuna frizzantezza nel puro revival. Il disco rimane incastonato in un non preciso periodo e si perde in fretta in architetture complicate e poco efficaci. La voce di Isabella Gorni è potente e precisa, ma non ha la cattiveria e l’arroganza dell’Hard Rock. I chitarroni pesanti fanno da padroni già in “Unbelivable”, riff con basso bello pompato che ricorda vagamente i fasti dei primi Van Halen. La melodia però è povera nel ritornello per nulla memorabile e con un raddoppio di batteria alquanto discutibile (ad onor del vero la mia allergia al doppio pedale non mi aiuta per niente!). La stessa formula si ripete pressochè immutata in “Don’t Let You Die”, il tutto si disperde di nuovo in parti strumentali ipercomplicate: assoli velocissimi, incastri basso e batteria poco direzionati al nudo e crudo groove. In “Highway Dream” c’è almeno un’aria 80’s che dona un po’ di senso al suono tamarro della sei corde e ai suoi incessanti assolazzi (spesso anche ben studiati e melodici in mezzo al mare di note). Lasciamo stare poi “Many Reason” dove oltre al mio “amico” doppio pedale intervengono anche sbrodolature di basso. La sensazione è che la grintosa Isabella arranchi, in un disco ricco di brani non propriamente adatti alle sue corde vocali poco rudi.
Anche le scelte sonore sono poco convincenti, poco graffianti e penalizzate dalla scarsa amalgama, la cura nel mix non sembra essere stata minuziosa. In ogni caso gli Highway Dream suonano obiettivamente bene e in alcuni frangenti sembrano avere i numeri per fare molto di più. Lo si sente nella tanto aspettata ballata “Let Me Be Your Breath”, dove ci attende un bell’arpeggio che ricorda “Californication” dei Red Hot Chili Peppers. E finalmente almeno sentiamo qualche atmosfera diversa, più aperta, ma comunque ancora troppo disgiunta e vaga, la tecnica e l’intenzione di volare ci sono ma sono frenate dal songwriting sempre troppo ancorato a terra e da idee che paiono rinchiuse in schemi scolastici. L’ultimo pezzo la dice lunga già dal titolo: “Born to Be a Rockstar” presenta solo un bello stacco alla Black Sabbath, sotterrato dal contorno piatto e insipido. La “fantastica gara” finisce qui e, ad essere onesto, mi sembra solo un gran luccicare di una bella auto con il motore pompato. Per dare spettacolo servirebbero forse qualche ammaccatura in più e dei guidatori ben più spericolati. Il motore c’è, speriamo che al prossimo giro venga fatto fumare come si deve.
Seymour Hoffman, storia di una stella ai margini (e un saluto a “Freak” che ci ha lasciato troppo in fretta).
Prendo spunto dal recente lutto nel mondo del cinema, la morte di Seymour Hoffman, premio oscar come miglior attore in A Sangue Freddo, trovato cadavere nel suo appartamento per un sovradosaggio di eroina tagliata male. La malattia della tossicodipendenza non fa distinzioni e porta via un grande del cinema, un padre, un immenso uomo. Nonostante l’eroina sia stata sdoganata negli anni 60 dalle più grandi rockstar, e qui un ricordo va al grande Mr. Lou Reed deceduto poco tempo fa, la roba continua a fare vittime e non solo tra gli emarginati. La storia del Rock è piena di junkies, non è un mistero; a molti rocker piace sballarsi. A volte anche a costo della vita, nonostante essa sia superficialmente grandiosa, abbagliante e luminosa. A dispetto di tutta la fama e i dischi venduti, di tutti gli affetti e le passioni c’è un sussurro nel cervello di un tossico, stella o stalla che tu sia, quel sussurro che ti vuole sepolto. La lista è lunghissima e qualcuno che ci ha lasciato le penne merita di essere ricordato; siano questi buoni o cattivi hanno lasciato un segno nella storia della Rock. Un pensiero a Kurt Cobain, Janis Joplin, Layne Staley, Sid Vicious, Tim Buckley, Jhon Baker Saunders, Dee Dee Ramone, tutti morti strafatti, mentre alcuni hanno dichiarato di utilizzarla o palesemente la utilizzano come Iggy Pop, Lou Reed, Dave Navarro, in pratica tutti i Red Hot Chili Peppers e anche John Lennon. Un’infinità di personalità dello spettacolo.
Forse uno dei motivi è che i rocker anni 60 ammiravano i musicisti Blues & Jazz venuti prima di loro e che usavano eroina. Le generazioni successive ammiravano quelle precedenti che a loro volta… Alla fine si è creato una sorta di gatto che si morde la coda, chi lo può dire. Oppure è solo tutto lo stress dovuto ai tour, agli spostamenti, le radio e televisioni sempre puntati addosso e per un rocker non c’è nulla di meglio che apparire come un cattivo ragazzo. Alcuni sostengono anche che aiuti la creatività e da questo la leggenda vuole che nacquero i Doors: “Se le porte della percezione venissero sgombrate / tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è, infinito.” W. Blake. Qualunque sia il motivo, la dipendenza è una malattia intorno alla quale si fa molta confusione, aggravata dalle leggi che criminalizzano chi fa uso di sostanze. Io personalmente non penso che tutti questi attori e musicisti siano dei criminali e sto parlando solo di loro perché sono quelli che hanno un’ampia vita pubblica che a volte e ben volentieri sfocia nel privato. Criminalizzando non facciamo altro che allontanarci da loro. Siamo in un momento in cui i paesi più civilizzati si stanno rendendo conto che i divieti non funzionano e forse, in un certo senso, amplificano il fenomeno, perché producono criminalità organizzata, scarsa igiene, emarginazione, facendo piombare queste persone nelle peggiori condizioni immaginabili per cercare di opporre rimedio. Non c’è divieto che tenga a un tossico che si gratta la schiena.
La morte di Hoffman ci ricorda ancora una volta che la tossicodipendenza è una lama trasversale che indistintamente colpisce chi è stato emarginato a causa di una malattia, di un culto insano, di un vizio inutile. È stato trovato da solo nel suo appartamento, non un criminale ma uno dei migliori attori in circolazione, con la siringa nel braccio e la sua dose tagliata da un pusher senza scrupoli. La storia del Rock è piena di decessi causati da eccessi, dalla sensazione di solitudine prodotta dalla fama, dalla voglia di oltrepassare i limiti, dalla necessità di fuggire dalla realtà. Molti dei più grandi artisti, e non solo, del secolo scorso se ne sono andati per questi motivi lasciandoci la loro grande musica e parte dell’opinione pubblica li ha trattati da criminali, da fuorilegge. Nonostante non tutti avessero la forza di denunciare la propria degenerazione e chiedere aiuto. Il mondo, oggi, è a un punto di svolta contro la proibizione e ora tocca perdonarli tutti perché in fondo quello che abbiamo fatto è emarginare un problema che andava risolto.
Bruno Mars e RHCP insieme al Super Bowl
Spettacolare lo show che questa notte, intorno all’una e mezza, ora italiana, è andato in onda in occasione dell’Halftime del Super Bowl 2014. Bruno Mars con la sua band di otto elementi, The Hooligans, è salita sul palco e ha iniziato una energica versione di “Locked Out of Heaven” a cui ha fatto seguito, a gran sorpresa, “Give it Away” dei Red Hot Chili Peppers che, in formazione completa, hanno raggiunto Mars e i suoi per esibirsi fianco a fianco. E al di là dell’abbigliamento di Kiedis che, negli anni, ci ha abituato anche a peggio, è già polemica per la mancanza di elettrificazione al basso di Flea, chiaramente scollegato da qualsiasi forma di amplificatore. Giudicate voi: