Le quattro tracce che mettono insieme World News sono il logico seguito degli studi dell’architetto Janek Schaefer circa la correlazione tra suono, spazio e luogo. Le sue opere, le sue performance, fanno il giro del mondo, dal Tate Moderne di Londra all’Opera di Sidney ed è dunque evidente che, un lavoro complesso come questo, non possa essere visto sotto l’apparenza di una lineare creazione musicale. La tracklist è composta di suoni captati, glitch, rumori di fondo e voci narranti che raccontano il mondo prendendo spunto da diversi quotidiani internazionali del periodo 03 maggio / 10 maggio 2014 generando una scultura multiforme fatta di collage concreti nell’estetica ma profondamente claustrofobica, raccolta e irregolare. Un modo di produrre Elettronica sperimentale staccandosi totalmente dal concetto stesso di Elettronica, smantellando la comune concezione di musica che qui diventa solo uno degli elementi di qualcosa più grande, il tutto, però, restando fortemente ancorati alla drammaticità del reale e non lavorando esclusivamente nell’astratto. È davvero complesso, per i meno attenti a questa scena fatta d’indagine estrema, godere appieno di un disco come World News e nello stesso tempo è difficile giudicare un album, anzi un’artista, che non fa certo del Lp il suo principale strumento di divulgazione delle proprie idee. Tuttavia, ci sono diversi fattori che mi aiutano a non collocare questa tra le migliori opere realizzate da Janek Schaefer, dalla durata ridotta del disco che non permette una corretta assimilazione dei concetti sofferenti racchiusi nello stesso, fino alla scelta dei suoni a tratti fin troppo piatti e monotoni. L’obiettivo apparente di questo World News può assimilarsi a quello di Alku Toinen, altra opera dello stesso genere e di un artista, Padna, della stessa etichetta (Rev Laboratories) ma la tensione nervosa suscitata da quest’ultimo era decisamente più convincente rispetto al disco che analizziamo oggi, il quale resta d’indubbio valore ma di certo indietro rispetto alle altre produzioni dello stesso Schafer. Il tutto con la consapevolezza che certe cose possano acquistare un pregio aggiunto, se diffuse in ambienti più dedicati e adatti rispetto alle quattro mura di casa.
Rev Laboratories Tag Archive
Padna – Alku Toinen (Disco del Mese)
Nat Hawks è un insegnante d’inglese trentottenne di Brooklyn. Il suo alter ego, Padna, è un eccelso compositore di Elettronica sperimentale che, con questo nuovo lavoro, Alku Toinen, uscito per le sempre più interessanti Aagoo Records e Rev Laboratoires, sceglie, già sotto l’aspetto grafico, un tema inquietante e tragico come quello della cronaca concernente diversi disastri internazionali.
Partendo da questo presupposto, quello che ci si sarebbe aspettati, è un insieme di tracce profondamente oscure, violente, crude e terrificanti. I sette brani proposti da Padna, invece, prendono una strada diversa, più sommessa, claustrofobica e introspettiva, volta a dipingere le note sofferenti che si espandono idealmente nell’attimo esatto in cui il disastro si rende concreto in tutta la sua brutalità, o ancora a evidenziare la luttuosa afflizione dei momenti seguenti all’accaduto. Sotto l’aspetto estetico, Alku Toinen, è una spettacolare miscela tutta strumentale di tradizione e avanguardia, con tratti dal sapore Glitch e Lo Fi, suoni sullo sfondo che presi singolarmente farebbero rabbrividire anche un fan di David Lynch (in “Threating Weather” pare di udire l’urlo di anime pronte a fare il loro ingresso nel regno degli inferi) ma chenello stesso tempo riesce a suonare gradevole senza mirare direttamente alla pura bellezza.
Gli oltre quarantaquattro minuti di Alku Toinen possono racchiudersi tutti nella loro ambivalenza sonica e concettuale, nell’alternarsi e intrecciarsi di note soavi e suoni terribili, nel suo evocare tanto la paura del presente, quanto la malinconia del poi. La catastrofe e il disastro come concetto base dell’opera sono qui raccontati non alla maniera Hollywoodiana di chi scruta da lontano, dall’esterno, pronto a godersi lo spettacolo dell’altrui paura e tribolazione ma dall’interno del cuore e dell’anima di chi è stato parte attiva, più o meno diretta, delle sciagure narrate.
Connect-icut – Crows & Kittiwakes & Come Again
L’uomo che si annida dietro lo pseudonimo Connect-icut altri non è che un produttore di musica elettronica di Vancouver, non nuovo ai cultori del genere più attenti alle uscite del sottobosco underground e poco devoti alle facilonerie del mainstream. L’artista canadese è una new entry in casa Rev Laboratories ma non è in ogni caso un esordiente, avendo già pubblicato, per vie diverse, Moss del 2005, poi LA (An Apology), They Showed Me the Secret Beaches e Fourier’s Algorithm, quest’ultimo tre anni fa. Se, come abbozzato, non è certo il pubblico ad aver sancito il successo di Connect-icut, non sono mancate lodi da parte del mondo Alternative, su tutte quelle di Thurston Moore dei Sonic Youth.
Cosa c’entra un produttore/compositore di musica elettronica con le guide spirituali del Noise Rock è presto detto. Se il punto di partenza e lo scheletro che poi sostengono tutto l’impianto sonico di Crows & Kittiwakes & Come Again è il Glitch, a metà tra Fennesz, Murcof e soprattutto Oval (“Imperial Alabaster”, “Port Shale”), queste deformità tecniche del suono sono talvolta esasperate in chiave rumoristica, quasi Noise appunto, ma con una naturalezza irreale, del tipo che, nel corso degli anni, abbiamo apprezzato ad esempio nello Shoegaze, specie strumentale, dei My Bloody Valentine (“Fading Twice”). Una mistura di brividi elettrici, rumore, vibrazioni, martellamenti, esplosioni soffuse che invece di plasmare suggestioni industriali e apocalittiche concepiscono un flusso naturale, suonando con la stessa genuinità dell’esistenza. Rumore ed elettricità che divengono sinonimo di paradisiache atmosfere eteree.
Certamente non scarseggiano passaggi di Minimal Synth e Ambient (“Carrion Pecking”) densi di tenebre, foschi, inquietanti, che tuttavia non fanno altro che dare ancor più vitalità all’opera, come fossero il fianco oscuro dell’esistenza, orribile ma inevitabile, e, allo stesso modo, Connect-icut utilizza gli strumenti della Drone Music (“Pratice Rot”) per squarciare l’impianto emozionale tirato su dall’ascolto della prima parte del disco. Tutti gli ingredienti sottolineati non devono tuttavia essere intesi come spaccature nette tra i brani, in quanto ogni materia che da forma alle canzoni è presente in ognuna di esse anche se in modo diverso, con difforme intensità. Ciascuno dei sei brani, compreso il conclusivo minimale “Again Now (For Matt)”, esalta l’impianto Glitch, le atmosfere Ambient e le pulsioni Noise, evocando apparati scenici irreali ed estatici su orizzonti neri e da incubo. Non c’è mai, in nessun momento di Crows & Kittiwakes & Come Again una precisa linea di demarcazione tra quello che è il bene, evocato dalle note più solerti, e quello che è il male ma tutto si confonde, si miscela, ora smascherandosi ora celandosi in una sonora ed estatica trasposizione occidentale dello yin e yang.
Un album inappuntabile per chi volesse immergersi totalmente nel fluire della propria coscienza, per chi cerca strumenti leciti e sani per valicare le barriere dei sensi. Un album ineguagliabile per chi volesse cimentarsi a dovere con un’elettronica da ascolto di spessore, ma non è mai riuscito ad andare in fondo ad un lavoro del precettore Oval o si annoia dopo cinque minuti di droni ronzanti nella testa. Un disco perfetto per iniziare ad ascoltare musica elettronica di qualità senza il timore di dover abbandonare per manifesta incapacità di ascolto.
Murcof & Philippe Petit – First Chapter
Questo primo capitolo è anche la prima collaborazione tra il barbuto genio (dell’Elettronica) di Tijuana Fernando Corona (in arte Murcof), dal 2001 in poi autore di alcune delle più luminose gemme Drone Music, Minimal/Ambient Techno e Glitch come Remembranza del 2005 e Philippe Petit, multistrumentista marsigliese, ex giornalista e Dj fortemente legato agli aspetti più sperimentali della musica Elettronica e Rock. L’opera è un trittico di brani, per una durata complessiva che raggiunge i quaranta minuti, che si rivela uno strumento di ricerca interiore attraverso l’esperienza meditativa. Lo stile utilizzato è quello consono ai due artisti e il più efficace per raggiungere il suddetto obiettivo. Si passa quindi dall’Elettronica Minimale alla Musica Cosmica, dall’Ambient alla Musica da Camera, passando per gli inserti elettronici Glitch tipici del messicano. Il pezzo d’apertura, “The Call of Circé” racchiude nella sua imponenza tutte le caratteristiche di quest’unione artistica, iniziando con una lieve, delicata, spaziale salita sonica che sfocia nei vocalizzi e nei cori barocchi del mezzo soprano Sarah Jouffroy. La manipolazione sonora di Murcof è già qui evidenziata e portata a livelli sublimi ma, nei passaggi successivi, riuscirà con prepotenza a mettersi in mostra, con vesti nuove, pur nella magniloquenza della multi strumentazione del francese.
Esempio di questa commistione tra struttura e aggraziato caos rumoristico è il secondo pezzo, “Pegasus”, nel quale è addirittura introdotta un’inquietante reminiscenza mediorientale nelle note di Philippe Petit coadiuvato dalla viola da gamba di Gabriel Grosbard. Se questi primi due lunghi momenti dell’opera prima del duo hanno rilevato la stilistica pura, nell’ultima traccia, “The Summoning of The Kraken” si concreta tutta la materia oscura accumulata in precedenza. Gli elementi d’angoscia e tensione sono sottolineati anche dalle puntuali pause mentre, a differenza della prima parte, sono ridotte all’osso le intelaiature più vicine alla realtà, preferendo scenari di stampo metafisico. Sono quindi gli iniziali circa venti minuti di “The Call of Circé” che danno a First Chapter tutta la sua forza espressiva. Sta tutto in quella cavalcata morbida; tutta la tecnica, il tocco magico e la natura psichica del duo che proprio in quel brano può trovare la propria strada eventuale futura, sviando da un semplicistico accostamento delle due forme espressive alla ricerca di una sommatoria che sia più della semplice addizione formale. I due passaggi successivi rivelano invece alcune sostanziali debolezze che vanno dall’eccessiva ostentazione manierata e convenzionale di “Pegasus”, al caos smodatamente deforme del brano di chiusura. Nessuna bocciatura, dunque, per questa coppia in prova che anche in quest’occasione si mostra un gradino sopra alla concorrenza ma solo l’esternazione di una speranza che ha sfavillato nella mia mente durante l’ascolto di “The Call of Circé” e che, per ora, resta tale. Una speranza.