Fate un esperimento. Andate sulla loro pagina Fecebook e leggete come si descrivono. Poi andate a cercare e sentire la loro musica sul bandcamp dove hanno messo a disposizione gratuitamente il loro disco, Tutto. Troverete che si descrivono come un Power Trio che fa nuovo Punk italiano. Si collocano tra i Nirvana e Rino Gaetano, ma è ovvio andare a pensare ai Verdena quando il lettore inizia a macinare note. Fabrizio (chitarra e voce), Enrico (batteria) e Cristiano (basso) sono Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere, e vengono da Piacenza. Applicano l’italiano a un Rock dal sapore internazionale. Quattro versi (i testi sono a disposizione sul bandcamp) ripetuti in un loop straniante, ma non ossessivo. Non perché “così che ci vuole a scrivere canzoni?”, ma perché in quattro frasi si può racchiudere l’essenza del racconto, l’immagine o la sensazione che si vuole trasmettere. Punk in questo, (inevitabile, per certi versi, andare a pensare ai Tre Allegri Ragazzi Morti) essenziali fino al midollo, ma non banali. Fabrizio canta con voce graffiata su un giro che è pronto ad esplodere. Come se si dovesse trattenere, perché è la musica a dare l’intensità adeguata al messaggio. Da sentire e risentire, senza lasciarsi fregare dal primo ascolto. Se non vi colpiscono subito, non vi fidate della prima impressione, del resto ceci n’est pas une musique commerciale. Parola di Sacerdotesse.
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Aemaet
Aemaet. Quattro ragazzi che hanno deciso di dire la loro nel fitto mondo del Rock Alternativo. Cosa avete da dire che non sia stato già detto?
CC: Si parla già molto, forse troppo. Quel che dobbiamo dire lo diciamo con la nostra musica.
La vostra è una formazione evidentemente giovane. Il primo Ep, Muse of Lust, risale a soli tre anni orsono mentre poco più di un anno è passato dall’esordio full length Human Quasar. Cosa è cambiato nel vostro stile e nel vostro approccio alla musica?
CS: Molte cose, a partire dalla formazione. Ora c’è la sola chitarra di Giovanni, e il sound si è aperto alla tastiera:è più complesso e stratificato.
GI: La nostra musica è in continua evoluzione, nei contenuti e nella forma.Il vero cambiamento sta nell’approccio alla scrittura. Io parto da un sentimento, un’emozione, per poi lasciare libero sfogo alle sensazioni che le frequenze smuovono dentro.
Da dove vengono gli Aemaet e dove vorrebbero arrivare se potessero sognare senza freni? Tornando con i piedi per terra, dove potrete realmente giungere, considerando il periodo non certo florido per la musica emergente e indipendente?
GI: veniamo da diverse esperienze musicali ed ognuno di noi ha i suoi gusti. Noi cerchiamo una “potenza musicale”, e mi piacerebbe che l’ascoltatore provasse le stesse sensazioni che avvertiamo durante la composizione. Tornando con i piedi per terra, lo scopriremo solo vivendo dove potremo arrivare: noi ci mettiamo l’anima in quello che facciamo.
La vostra musica miscela con eleganza Alt Rock, Grunge e Wave e pare quasi naturale che abbiate scelto di usare l’inglese per le vostre liriche. In tal senso, quanta importanza date ai testi e quanta alla musicalità dei termini?
CC: Entrambi gli aspetti sono importanti. Quel che conta è però la musica: i suoni offrono quindi un vincolo. Le parole, dal canto loro, sono molte, e troveremo loro sempre uno spazio di senso nella forma sonora.
CS: Concordo. Poi molto dipende dall’atmosfera del pezzo. La scelta della lingua inglese è ovvia, hai ragione: l’italiano c’entra poco con il nostro genere, a mio parere. La musicalità nel testo è di per sé imprescindibile, lo diceva Poe, ma anche i Bluvertigo: “il suono ha vinto sul significato”.
Siete consapevoli che cantando in inglese si riducono le possibilità di essere apprezzati dal pigro pubblico italiano? Siete sicuri che all’estero potrebbero apprezzare le vostre parole?
SDR: Sicuramente cantare in inglese rende più difficile l’essere apprezzati dal pubblico italiano, anche a causa della diffusa abitudine di andare alla ricerca dei testi; allo stesso tempo però permette di raggiungere un pubblico più vasto, che poi è quello che ci auguriamo.
So che recentemente avete suonato al Contest del Rock in Roma. Raccontateci di che si tratta e come è andata.
CC: è andata come solo agli Aemaet può andare. Problemi tecnici al limite dell’inverosimile, non dipendenti da noi, che hanno in parte compromesso la performance. Ma nel breve tempo a nostra disposizione siamo riusciti a smuovere qualcosa. Vedi, a noi interessa poco il contest. Ci interessava solo suonare davanti ad un pubblico numeroso che crediamo affine al nostro. E la nostra intuizione è stata giusta: abbiamo ricevuto molti feedback positivi.
Avete mai realmente idolatrato qualcuno? Ha senso ancora fidarsi dei musicisti piuttosto che delle canzoni?
CS: L’idolatria è un refuso adolescenziale, quando si scoprivano icone come Morrison, Curtis o Smith. Col tempo l’idolatria cede il posto all’ammirazione. I musicisti, come tutti, possono deludere, con atteggiamenti o svolte musicali che non apprezziamo: per questo li sentiamo “inaffidabili”. Eppure un’ottima canzone resta sempre tale, anche col passare del tempo: se non ti puoi fidare dell’artista, puoi sempre fidarti della sua arte.
SDR: Personalmente sì, ho avuto degli idoli che in parte resistono ancora oggi. Si tratta per lo più di personaggi molto noti nell’ambito musicale. Resta comunque difficile rimanere legati ai propri “idoli”, soprattutto perché con il tempo cambiano i propri gusti e le produzioni musicali.
Ascoltando le canzoni contenute in Human Quasar si può notare una certa altalena di emozioni. Sareste più felici di smuovere le coscienze o commuovere profondamente?
CS: Ognuno di noi ha una sua personale visione della realtà. Ciò significa che quel che commuove una persona può lasciare indifferente un’altra, e viceversa. Io voglio suscitare un’emozione, indurre chi ascolta ad un’opinione; meglio se diverse tra loro. Questa è forse la prova che si è riusciti a creare un’opera valida.
GI: Io preferisco muovere le coscienze nel profondo.
Parlateci di Human Quasar. Come descrivereste il vostro esordio senza usare parole da critici e definizioni da ufficio stampa?
CC: La parola esordio spiega già molto: Human Quasar è una commistione di inesperienza e sprovvedutezza, non necessariamente qualità negative. Ma non è tutto. È un disco intriso di giochi letterari e rimandi interni, con una solida impalcatura di senso e un uso molto raffinato della retorica. Per me è un figliolo che muove i primi passi nel mondo, rendendomi orgoglioso.
CS: Un sentiero di luce e oscurità, calore e freddezza. Sì, Il nostro bipolare primogenito.
L’album è uscito per la label Red Cat Records. Ha veramente importanza oggi avere una etichetta alle spalle? Per una band emergente non è più utile avere Booking & Management?
CC: Sono entrambe componenti essenziali, sebbene oggi l’uso di internet crei l’illusione che tutto ciò sia surrogabile. Se una band merita la giusta attenzione non faticherà a trovare degli ottimi collaboratori. Esistono dei professionisti, e il loro lavoro va capito e rispettato. È quando lavori con loro che comprendi quanto tutto ciò sia di capitale importanza.
Oggi come quarant’anni fa è molto difficile emergere. Forse è solo più facile trovare spazio ma tenerselo è un’impresa. Come avete intenzione di muovervi per districarvi nell’ impervio mondo dell’underground e magari non affondare?
CC: Sono alieno da questi pensieri. Noi lavoriamo e cerchiamo di offrire al pubblico uno spettacolo degno della loro attenzione. Non credo ci siano altre strade: lavoro, lavoro, lavoro.
CS: Servono ambizione e determinazione. Senza di esse si può avere tutto il talento di questo mondo, ma a nessuno importerebbe, soprattutto in questa società virtuale. Io auspico un rituale di corteggiamento che faccia la differenza. Come nel regno animale. Garantirebbe una “prole” di seguaci.
Cosa ci dobbiamo aspettare ancora dagli Aemaet?
CC: Molte cose, spero: un secondo disco, ad esempio. Un live senza compromessi. E tanto affetto per chi ci segue: non finirò mai di stupirmi del potere aggregativo della musica.
SDR: sicuramente la ricerca di un’evoluzione musicale che credo si sia già manifestata nella nostra seppur breve esperienza.
Cesare Cremonini – Logico
Luogo di ascolto: in metro, di fronte a un ciccione con un cheesburger grande quanto il mio orgoglio.
Umore: come di chi prova a imparare qualcosa che già sa.
La mia curiosità di recensire Cremonini parte tutta da un punto: dal momento in cui si è sentita per la prima volta uno spezzone del suo primo singolo nello spot dell’Algida (credo). Ebbene quel frammento di canzone deve avere colpito non poco gli abituali detrattori dell’ex enfant prodige del Pop di 50 special, perchè di lì a poco tempo l’etere era tutto un gorgogliare di sperticati ravvedimenti sulla caratura dell’artista; gente che evidentemente aveva bisogno di un temone con synth house per passare dalla parte di quelli che ” devo ricredermi su Cesare Cremonini, forse sto male, ma il disco è una bomba”, oppure “il nuovo di Cremonini ha suoni da Arcade Fire“. Fermo restando che chi vi parla ritiene gli Arcade Fire stessi una band sopravvalutata e modaiola, ho sentito l’obbligo morale di spendere una parola anche io in merito. Mi sono preso la briga di aspettare il nuovo Logico e ho provato a farmi un’idea un pò meno legata agli isterismi concettuali di certa critica, quella di cui non si capisce un cazzo quando scrive, non perchè scriva con parole sofisticate ma perchè scrive roba che non significa un cazzo. Vi dirò, il disco di Cremonini non è male. Ma non erano male nemmeno quelli che lo avevano preceduto. E lo so perchè li avevo ascoltati e lo avevo visto dal vivo più volte. E’ un personaggio multiforme Cremonini, oppure semplicemente in evoluzione e maturazione: dotatissimo musicalmente e con i giusti riferimenti davanti (è uno cresciuto a pane e Queen, per intenderci, altro che Arcade Fire), ha passato un buon decennio per imbruttirsi e sgarruparsi l’immagine per non essere più associato ad una Pop star alla Eros, manco a farlo apposta ha frequentato le donne giuste (Malika) per uscire dalle grinfie dei primi sogni erotici delle quindicenni e entrare in quelli dei salotti con la puzza sotto il naso, ha provato in ogni modo a cancellare la cadenza scanzonata Bolognese, addirittura storpiando l’italiano del suo precedente lavoro fino a farlo assomigliare al calabrese (provare ad ascoltare “Una Come te”), aveva reso espliciti i suoi ascolti dei Beatles nella coda dello stesso pezzo, meritoriamente simile nelle scelte di orchestrazione ad “All You Need is Love” (l’influenza dei Beatles si avverte, ad onor del vero anche nella nuova “Quando Sarò Milionario”).
Non ci è ancora riuscito. Eppure non serviva, perchè chiunque capisca un pò di musica e non abbia l’anello al naso (come spesso chi dice di capire di musica) si era accorto del talento dell’ex Lunapop già da subito. Uno non può vendere 900 mila copie fisiche e far cantare mezza Italia a 17 anni ed essere un brocco. Scrivere una melodia che rimanga è la cosa più difficile, se ti viene così spontaneo parti già molto bene. Andando avanti è cresciuto ed ha ampliato il raggio, ha approfondito i testi, ha reso più ricercata la musica e gli arrangiamenti. Ma la crescita è stata costante e sicuramente faticosa, considerato il successo da giustificare, mantenere e in un certo senso amplificare. Con questo disco il Cremonini non mi sembra abbia fatto il passo decisivo, la tracklist di Logico scorre fluida e rispecchia tutti i temi intimisti della sua poetica, conserva anche quel gusto per le suggestioni american style (in “John Wayne”) tradotte in salsa Padana (nel senso di pianura); non mi sembra però che abbia ancora acquistato quella personalità e quel carisma che serve per farsi chiamare cantautore, se ancora quella parola ha significato. Forse dovrebbe solo fottersene di tutti quelli a cui quel synth di Logico ha fatto così tanto effetto; del resto quelli non comprano i dischi, nè danno alcuna patente di cantautorato. Perchè Battisti della critica se ne fotteva e Rino Gaetano pure, non parliamo dei Beatles e dei Queen: la critica la patente di artisti glie l’ha data vent’anni dopo, molti anni dopo il pubblico. Diamo a Cesare quel che è di Cesare, non un centesimo di più, nè un centesimo di meno, perchè anche aspettare che arrivi è una bella colonna sonora.
Il Caos
Il Caos è un progetto figlio di Milano eppure il sound pare profondamente legato a una tradizione mediterranea. Come siete arrivati a questa scelta stilistica?
Non è stata una vera e propria “scelta”, ognuno di noi ascolta generi musicali diversi: ci siamo ritrovati nel progetto “Il Caos” con la voglia di mescolare questi diversi background artistici. Ci accomuna il modo di vivere la musica e il gusto per le tradizioni del nostro paese tra cui la tavola, l’arte, la buona compagnia. 2 su 5 sono originari del sud Italia ma è come se lo fossimo tutti. Diciamo che è stata una scelta inevitabile poiché innata.
Quanto è più facile emergere in ambienti metropolitani, quindi con maggiori spazi, strutture, possibilità rispetto alla provincia, che magari ha il vantaggio di una minore “concorrenza” e come pensate voi, nel futuro, di togliervi dal gruppo degli eterni “saranno famosi”?
Siamo consapevoli di essere agevolati nel vivere in “zona milano” rispetto ad altre band che devono impegnarsi a coprire distanze maggiori. Per noi la musica non è una gara, quindi non viviamo il fatto che ci siano tante band nella zona come “più concorrenza”, anzi, sarebbe bello se ce ne fossero ancora di più! La scena musicale sarebbe più viva, mentre al momento non si direbbe sia proprio così. Sembra godano di buona salute solo le cover band! (ride ndr). Il nostro futuro musicale si svolge nel presente giorno dopo giorno e se vedremo ballare o cantare sotto al palco vorrà dire che a qualcuno saremo arrivati e che il progetto funziona.
Come definireste la vostra musica senza scadere nell’uso, prettamente critico e giornalistico, dei generi musicali e delle categorie?
Musica di facile ascolto, orecchiabile, senza virtuosismi ma originale negli arrangiamenti. Pensiamo quindi possa piacere sia all’ascoltatore medio che al musicista senza escludere nessuna fascia d’età.
Nelle vostre canzoni usate la lingua italiana, segno che il messaggio da trasmettere a parole voglia essere messo su un piano più elevato o quantomeno paritario rispetto al messaggio musicale in sé. Di cosa parlano i vostri testi e chi ne è l’autore?
L’autore siamo tutti e cinque e generalmente parlano di figa (si può dire?). Scherzi a parte, ci piace lasciare all’ascoltatore la possibilità di interpretare la canzone,crediamo sia un valore aggiunto il fatto che un testo possa assumere un significato diverso per ognuno, lo stesso vale per un film, un quadro, un libro, una poesia…
Che tipo di formazione musicale ha contraddistinto i pezzi de Il Caos? Siete musicisti attenti al lato tecnico o particolarmente viscerali ed estemporanei?
Le nostre canzoni nascono tutte in modi differenti, per lo più vengono sviluppate da un’idea di uno di noi che la propone “nuda e cruda” agli altri. Da lì nasce il vero processo di creazione a cui contribuiamo tutti. Siamo decisamente più viscerali che tecnici.
Nonostante la vostra musica non possa definirsi Pop, nel senso più commerciale del termine, le vostre canzoni scelgono le strade più facili della lingua italiana, del ritornello orecchiabile e della voce registrata a volume notevole e preponderante. È questa davvero l’unica strada per conquistare il pubblico italiano?
No, questo è quello che ci piace, tant’è vero che non siamo mai in grado di inserirci in un solo genere musicale. Non facciamo nulla con l’intento di accattivarci qualcuno, altrimenti faremmo rap per essere commerciali o Punk Rock mischiato ad un cantautorato simil Rino Gaetano per entrare nella musica underground attuale.
Il caos è una necessità, una condizione umana da accettare con la quale convivere serenamente oppure una situazione straordinaria da strutturare che quasi regala senso alla vita stessa?
“Per me è la cipolla” (ride ndr). Il Caos è la realtà in cui viviamo, qualche volta basterebbe accettare che nella vita molte cose accadono per caso. In realtà “IL CAOS” nasce proprio dal fatto che amiamo generi musicali molto diversi e che allo stesso modo componiamo e realizziamo brani con stili diversi, nonostante tutti abbiano un’unica sonorità.
Quanto ritenete importante per la musica il suo valore sociale, oltre il puro valore artistico e quanto i due concetti si legano tra loro? Può l’arte avere un essenziale e unico rilievo estetico?
La musica può avere un valore sociale e sicuramente deve essere accompagnata da un valore artistico altrimenti “è un’altra cosa”. L’arte ha essenzialmente un rilievo estetico, tutto ciò che viene aggiunto dopo è posticcio, non che sia necessariamente un male.
Oggi il pubblico sembra fare sempre più difficoltà a distinguere la musica come intrattenimento e la musica come arte. Pensate che sia un equivoco connaturato al concetto stesso di musica o un errore generato dall’uso sconsiderato della musica fatto da radio e tv? Voi dove vi piazzate?
Oggi l’ascoltatore medio è un ascoltatore distratto. Non è un problema che riguarda solo la musica, tutti siamo distratti in qualsiasi campo. In questo ambito sembra sia la musica commerciale a risentirne di più, soffre di inflazione! E’ sempre meno arte e sempre più artefatto perché chi la propina alla gente è il primo a svalutarla.
L’Ep omonimo, Il Caos, è uscito da pochissimo. Come siete giunti alla sua realizzazione e quali saranno i vostri prossimi passi?
Abbiamo sospeso per un periodo la nostra attività dal vivo, ci siamo chiusi in saletta dedicando del tempo alla scelta dei brani, alla loro stesura e agli arrangiamenti. Abbiamo cercato di racchiudere in cinque canzoni il lavoro svolto da quando il progetto esiste nonostante avremmo voluto dare spazio anche ad altri pezzi momentaneamente esclusi. Siamo stati fortunati ad aver trovato un produttore che ci abbia sostenuto e col quale abbiamo lavorato serenamente. Per il momento vogliamo spingere il nostro nuovo EP. Se andate sulla nostra pagina ufficiale di facebook potrete vedere i nostri impegni live. Non vi nascondiamo che stiamo già lavorando ad un nuovo prodotto, non nell’imminente ma in un futuro “molto” prossimo.
Federico Cimini – L’Importanza di Chiamarsi Michele
Un cantautore, Federico Cimini, che si fa ascoltare e che cattura l’attenzione come la carta moschicida che si applicava sui soffitti – a penzoloni – dei bar e delle case di una volta, e L’Importanza di Chiamarsi Michele è una centrifuga di idee accese e che fa riflettere sull’abilità di questo calabrese trapiantato in quel di Bologna di scrivere e cantare canzoni asciutte, cariche di melodie e colorazioni stilistiche, toccanti e pregne di SUD da tutti i pori accompagnate da testi nient’affatto banali, anzi, veri e forti come uno schiaffo di prima mattina.
Ovvio che l’influenza di un mito suo conterraneo come Rino Gaetano e l’indolenza attenta di un Cristicchi incidono di grosso, in qualsiasi parte e in ogni pertugio possibile, ma comunque un registrato bello e ricco di storie in tralice, la società, l’essere umano prima che urbano, le difficoltà e le facilonerie del quotidiano vivere e la sofferenza di un uomo del sud che fa i conti nel nord e di tutte le sue incongruenze, ma anche verve e malinconie che coinvolgono l’orecchio in un variegato risultato di dolci ricordi e agri sommessi; praticamente la storie del “terrone” che pensa e ama come tutti gli altri e che come tutti gli altri cade, si rialza e ricade in una manciata di storie che rimangono dentro col magone. L’amarezza qui dentro è coma la Bibbia e la poesia eclettica ne è la fragile bellezza, quattordici tracce come una collana di conchiglie che suonano sbattute dall’impeto e dalla rabbia di chi vuole esserci, di chi vuole contare.
L’artista Cimini si impersona in questo Michele come dentro un cavallo di Troia per combattere tanti luoghi comuni, e la sua guerra è la lingua, la parola e l’entusiasmo come timbro, tutte cose che caratterizzano questa tracklist come una barricata di ideali, tra le tante la ballata contro le ipocrisie “Questo è il Mio Paese”, il climax caustico contro le TV “La Rivoluzione in Pigiama”, il Folk Rock che febbricita in “La Gente Che Conta”, l’onda carribean che si fa triste “Lì Con me” come il ricordo che fa una pozzanghera di lacrime dentro “Ti Amo Terrone” e qua e la rumors estrapolati da Promemoria di Gianni Rodari, schegge di bello tra favole reali e molti rimpianti.
Federico Cimini è una grande scoperta, un “terrone verace” che vagabonda nelle storie, le sue storie di un disco dannatamente vero. A proposito, che bello essere terroni!
Tre Tigri Contro/Amelie Tritesse – Tre Tigri Contro Amelie Tritesse 7” split
Partiamo dall’occasione. Record Store Day. Nato nel 2007 dalla mente di Chris Brown è molto semplicemente una giornata (terzo sabato di aprile) celebrativa per tutti i negozi musicali indipendenti, durante il quale le band realizzano ristampe, dischi ad hoc, remix e tutte le possibili prelibatezze e rarità che ogni buon collezionista sognerebbe di possedere. L’occasione di questo split è proprio il Record Store Day, sesta edizione. Un 7”, 200 copie in vinile nero e busta di cartone pressato, 100 copie in vinile colorato in scatole di cartone ondulato con copertine dipinte a mano. Già immagino i collezionisti folli con la bava alla bocca. Oltre al feticismo c’è però la musica e ci sono due formazioni di punta della scena alternativa abruzzese, due band che hanno diviso palchi, sudore e gioia. Da un lato Amelie Tritesse (Teramo) con “L’Agnello di Dio” e il loro classico Read’n Rocking, una miscela di parole e suoni, musica e testo, di Spoken Word e Alt Rock che si piazza a metà strada tra Massimo Volume e Art Brut. “L’Agnello di Dio” non aggiunge nulla a quello che gli Amelie Tritesse ci hanno spiegato essere già due anni fa con l’uscita di Cazzo ne Sapete Voi Del Rock’n Roll. Una storia, raccontata più che cantata, ironica e surreale per certi versi, con una timbrica, un’impostazione vocale (Manuel Graziani, l’artefice), un accento e una sonorità che sarà snervante, quasi insopportabile per alcuni, ma che, al tempo stesso, ha reso gli Amelie una creatura dalla firma distintiva. Il secondo brano dello split è invece una sorpresa. Loro sono i Tre Tigri Contro (Giulianova), power trio emergente che, nel brano “I Lunedì al Sole (Io Non Voglio Lavorare Più)”, unisce l’ironia di un certo cantautorato italico, tra Rino Gaetano e il Claudio Baglioni di “Portaportese”, all’energia, l’irriverenza e la follia dei più attuali Zen Circus. Del circo Zen sembrano ricalcare anche lo stile dei testi, che, per quanto possano far storcere il naso agli ascoltatori più intellettuosnob, è innegabile riescano a strappare più di un sorriso (“Io non voglio lavorare più! / Davanti al televisore ventidue ore al giorno / e le altre due le vivrei solamente di porno”). I due brani di Tre Tigri Contro Amelie Tritesse, sono molto diversi uno dall’altro ma stanno benissimo insieme, come i due risvolti della stessa medaglia, come due modi diversi di affrontare la vita, diversi e eppure simili perché legati da un sottile filo di disillusione. E alla fine aver avuto tra le mani una delle trecento copie dello split sarà un piacere anche per le orecchie, oltre che per il nostro spirito di feticisti incalliti.
La Band Della Settimana: TreTigriContro
Power trio da Giulianova (TE) composto da Stefano Minelli (voce e chitarra), Alessandro Marini (basso), Francesco Amadio (batteria) e Sergio Pomante (sax) (già con String Theory, band che con 3Rooms è stata nella top three 2012 di Silvio “Don” Pizzica) con un piede nel Cantautorato schizzato e l’altro nell’Indie-Rock traviato dal Garage dei ’60 e dai riffoni Seventies. Immaginate Ivan Graziani con gli Zen Circus come backing band. Immaginate Rino Gaetano fulminato da “Kick Out The Jams” degli MC5. Immaginate quello che vi pare.
Se volete saperne di più, su cosa ascoltare e dove vedere TreTigriContro, andate sulla loro pagina facebook.
Questa è “I Lunedì al Sole (Io Non Voglio Lavorare Più)” tratta dallo split (presto la recensione) realizzato con gli Amelie Tritesse, per il Record Store Day.
Zocaffe – Noi Non Siamo Figli
Certi dischi sono inequivocabilmente belli o brutti. Questo secondo disco Noi Non Siamo Figli dei lucchesi Zocaffe oltre che bello, è un disco necessario in un tempo in cui, come profetizzato da molti, la bieca civiltà dei consumi omologa di tutto e tutti come dentro un lavandino dopo che gli si è tolto il tappo, e pare che sia arrivato a fagiolo per programmare e trascinare un manciata di buona musica molto personale e con le diottrie giuste per vedere lontano.
Lavoro contro e con tutte le atleticità a posto per un ascolto intelligente, un ciclone creativo che infila generazioni a confronti, quella patina di provincia capace di tirare dalla propria parte l’orecchio, quel ruspante declinato a personaggi, storie e vicissitudini che – insaporite da Folk, Funk, frizzi Punkabilly e lazzi Rock’n’Roll – portano a sintesi un affresco genuino ed un repertorio coloratissimo di padronanza e verve; dieci tracce che non riescono assolutamente a bilanciare qualsiasi cosa che attiri noia, un giro sonoro che innesta spavalderia a mille, uno scossone vitale che non ha compromessi, o lo si ama o lo si odia, e l’amarlo è la cosa più spontanea che possa esistere. Un disco che riparte dalle meraviglie accusatorie di un Rino Gaetano, la titletrack, “I Boschi di Fiano”, “Tatiana”, la stupenda ballata con tanto di brass al seguito “Il Funerale”, lo scatto vulcanico del Pan Del Diavolo “Paoletta” e l’anima folk di un Giuradei o Muschitiello “Gianni”, tracce che raccontano sfighe, amori, difetti, spensieratezze sospese e luci ombrate, un pozzo senza fondo di piccole gemme che si inseguono una con l’altra e che rimangono in aria per un tempo non calcolabile.
A fine ascolto tutto lascia pensare che molti altri ascoltatori si accontenteranno anche solo della confezione ordinaria per portare a casa questo meraviglioso cd, trattandosi – senza esagerare – di uno dei dischi più ispirati e beatamente squilibrati in circolazione, un album che i nostri Zocaffe hanno messo insieme pur di allungare la loro parabola artistica che non accenna – anche dopo aver lussato le giunture nei ritmi sausaliti di “Matrimonio” – a perdere un milligrammo
http://www.youtube.com/watch?v=SiTId3QqVxY&feature=youtu.be
Uross – L’Amore è un Precario
Tra l’Italia e l’America c’è Uross, cantautore pugliese attivo dal 2000 con l’ep Musiche da Quattro Soldi, dopo il quale seguono tanti altri demo e lavori non ufficiali fino ad arrivare al suo secondo album L’Amore è un Precario uscito nel febbraio del 2013, che conta dieci tracce e un omaggio a Rino Gaetano, “Il Cielo è Sempre Più Blu”, settimo brano sul quale è stato fatto a mio parere un buon lavoro di coverizzazione in uno stile molto diverso dall’originale.
Tutto il nostro mondo raccontato in questo album, fatto da bellissime chitarre, anche slide come nel primo brano, da armoniche, testi sinceri, musiche uniformi e atmosfere west accompagnate da ritmo e rime. Una miscela di Rock, Blues, Pop e Folk che per autodefinizione Uross chiama Bastardmusic, come la sua vocalità, quasi parlata e in alcuni punti urlata per esprimere il disagio e tutte quelle emozioni forti del potere cantautorale.Tutto questo anche grazie al lavoro di musicisti, come Maurizio Indolfi e Oscar Marino alla batteria, Andrea Brunetti alle tastiere, pianoforte e organo, Andrea Acquaviva e Carletto Petrosillo al basso.
Il mondo di Uross si muove attraverso quella precarietà che purtroppo è all’ordine del giorno, nella quale i cambiamenti avvengono solo grazie al duro lavoro, fatto “in giorni che passano presto in facce che si dimenticano in fretta”(“Chiedi Alla Polvere”). “Ego”, secondo brano dell’album, racconta più a fondo la visione dell’ipotetico cambiamento di ognuno, l’esistenza di ognuno di noi paragonata ad una strada, ad un viaggio visto come un’ottima esperienza oggettiva di cui la musica si fa portavoce (“Noir”) e l’equilibro critico con cui a volte la vita stranamente procede, invece, è il protagonista del quarto brano “Claustrofobikronico”, anche video ufficiale. Un richiamo a Rino Gaetano lo possiamo scorgere anche in “Cane Vagabondo” soprattutto nell’ultima frase “la sveglia lo sveglia per andare…A LAVORARE” dopo una notte passata a vagabondare per le vie di una città vuota o forse quasi spenta. Lo sconforto a mio parere si fa largo in “Sto Così Scomodo Che Resto”, sesto brano de L’Amore è un Precario, dove viene citata la corruzione, il silenzio interno con cui purtroppo procedere la vita e l’orgoglio inchiodato allo scoglio, e dove compare la seconda voce di Angela Esmeralda. All’ordine del giorno, oltre alla precarietà c’è anche e soprattutto il “Bu$ine$$” di se stessi, dei propri bisogni e sentimenti probabilmente mossi da un “Flusso di Incoscienza”, dove per la prima volta appare la parola amore, l’amore che dopo pochissimo si scopre essere una bugia, una parola che non significa più nulla in questo mondo dove a vincere è solo la sopravvivenza (“una sola regola, DEVI respirare finché non respiri più”). “Al Mio Funerale” procede per molte rime in un’atmosfera tra blues e quel cantautorato tipicamente italiano e “Lontano”, brano che chiude il lavoro, conferma ogni pensiero e ogni sentimento della vita in generale, accompagnata questa volta dalla figura della mamma attraverso una bellissima visione romantica “Sentivo suonare nel vento carillon antichi di orologi scordati”.
Un album scambiato molte volte come un lavoro d’esordio e in fondo non sarebbe male paragonarlo ad una nuova rinascita. La rinascita sempre nuova di cantautori impegnati ed attenti all’io della propria terra e del proprio mondo.
Corrado Meraviglia – L’Occasione
Nel suo piccolo potrebbe essere un maestro di seduzione, magari anche odiarlo o amarlo come un protetto dei chiaroscuro della vita, fatto sta che il cantautore ligure Corrado Meraviglia – con la carica dei suoi buoni sentimenti agri e di una quasi aliena soavità – arriva o meglio ritorna a ritagliarsi quella icona di appartenenza alla nuova trafila di cantautori che hanno le indubbie capacità di “incredibilizzare” limpidezze crude, e lui lo fa, anche con i convincimenti delle combinazioni buone.
L’Occasione è il secondo lavoro discografico, registrato tra Londra e Roma, finanziato a metà su Musicraiser ed uscito per La Fame Dischi, ed è un’espressione stilistica di pregio, sconnessa come una strada di campagna ed un rumore chiuso nell’intimità, undici tracce non esistenzialiste ma che guardano all’esistenza, alle proprie orme calpestate e alla quotidianità a volte piatta altre spigolosa, un disco avvolgente e persino organico nelle sue incursioni strane quanto vere; tra pop.e rock adeguato, con il piglio di un Rino Gaetano roco e naftaline Zampaglionesche “Scatole”, l’artista Meraviglia torna a graffiare delicatamente ottime pagine di musica, senza sviare nulla che non si possa recepire, brani e arrangiamenti per un talento grezzo che preannuncia una lungimiranza tra il nuovo che avanza (musicalmente parlando), nonché per il momento dove possiamo anche aggiungere un rincuorante brillantino underground
Con la sua personalità rabbugliata e agro-dolce, il disco prende la forma di un disco diverso dagli altri, come una colonna sonora per tramonti estivi occupati a tirare somme e linee vitali su amori passati, trascurati, vissuti e sopportati, una lavorazione d’intimità solitaria che è quasi spleen casareccio, anche sfigato e se tendiamo l’orecchio sul gocciolìo a cadenza di una tastiera depressa “Sam (Unmade in Hk)”, sulla spennata shoegazer di un animo all’ingù “Le Mie Manie”, nella ripresa con boccate d’aria istintive, chiarificatrici e field “Possibilità” o dietro il caracollare grattato e con l’anima confessionale della stupenda “ Folkpop”, il fascino color carta-paglia di tutto l’insieme colpisce lasciando segni e pensieri fitti come la cupezza immaginifica del basso che spacca in due il cuore in “Trasparente”.
Corrado Meraviglia, ancora una volta all’altezza della gran classe.
http://youtu.be/cow_ONZk2Lo
Giuliano Clerico – La Diva Del Cinemino
Il cantautore pescarese Giuliano Clerico, prova a dettare le regole del proprio gioco sonoro, e il risultato è piacevolissimo, romanticamente storto, cromatico e urbano, il prodotto si chiama La Diva Del Cinemino, terza prova discografica per un teller-maker di rispetto, un’equazione di dieci tracce che sono spirito fresco per anima e mente, un eccellente “cantato e suonato” col gusto del particolare, blues, rock, calligrafia dolce/graffio e storie on the road, nonché struttura di suoni che ogni volta che vengono rimessi in circolazione, riaprono il senso acuto anche di una certa rimodulazione folk.
Disco appariscente e amarognolo di fondo e che emana musica che non annoia, anzi sorprende – nella sua semplicità caratteriale – nell’inserirsi tra centinaia di arrivi indie e quant’altro, elettrico, riflettente e pensieroso regala una fantastica economia d’ascolto tra refoli di Rino Gaetano, Dente, Muschitiello“Zona industriale” e ondate di anni Sessanta esaltati da stupendi “sbavoni” di schitarrate e organi con Lesli che innalzano le quotazioni della tracklist a picchi astronomici; dicevamo dieci tracce a denominatore disparato, brani che offrono storie da ascoltare in momenti in cui il bisogno di una complice dolcezza è forte, e questo artista sembra fatto apposta per lenire e intaccare la carica di emotività a seconda della sua percezione del momento.
Il classico registrato dove non si butta via nulla, tutto è decisamente figo e “da viaggio”, la ballatona da ronzino “Alla Bonnie e Clyde”, la spennata beatnik “La Strada”, “Il Prodotto”, l’ironia di una non erezione in salsa folk-western “La Valeriana”, o il Tarantiniano mex-mood che si insinua nella bella “Via Col Diavolo”, un impatto attualissimo che cesella pagine di un cantautorato inaspettato quanto valido.
Il talento di Clerico si riconferma, ed il suo essere nell’oggi con i sintomi creativi dello ieri lo premia sopra ogni aspetto, sotto ogni forma.