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The Ties and The Lies – “Home is Where the Heart is” [VIDEOCLIP]

Written by Anteprime

Ties

Il quartetto bolognese The Ties and The Lies torna in scena con un nuovo disco che anticipiamo in anteprima con il video del primo singolo estratto dal titolo “Home is Where the Heart is”. Disponibile dal prossimo 5 Novembre 2015, questo lavoro è un viaggio lungo una vita tra obblighi e verità, tra ciò che ci rende liberi e ciò che invece ci costringe a forme di privazione, sociale quanto psicologica. Un disco che non abita certo in Italia e che, invece, porta il nome di una cittadina del New Mexico: Truth of Consequences. Appunto obblighi o verità, un diario di bordo di 6 inediti che dividono il lavoro e l’ascolto in due emisferi umani e sentimentali. Tra le strade notturne della piccola cittadina (TOC) fino al cambiamento di vita, interiore, con gli altri. Un bel Pop Rock anche tinto di colori britannici piuttosto che, ovviamente, di sceneggiature americane da grandi ruote. L’intervista per Rockambula:

Avete intitolato questo nuovo disco con il nome di una cittadina del New Messico: Truth of Consequences la domanda nasce spontanea: ma ci siete stati davvero? Come l’avete scoperta?
Truth or Consequences. Ci siamo stati? No, purtroppo, ma ci siamo ripromessi di farlo, prima o poi, non foss’altro per chiudere il cerchio. L’abbiamo scoperta in una di quelle serate senza sonno in cui ti metti a cercare le robe più disparate su Internet. Parti da un Talk di TED, poi ti trovi dopo mezz’ora a guardare un documentario sui canguri su YouTube. Ecco, io ad un certo punto sono capitato sulle foto dell’unico spazioporto realmente funzionante ed esistente della Terra, che ovviamente è a Truth or Consequences. Da lì è partito tutto… Cioè, come fai a non innamorarti di un posto che ha costruito una stazione di servizio per i viaggi intergalattici?

E traducendo questo titolo: Obbligo o Verità. Iniziamo con le domande difficili. I Ties cosa scelgono?
Scegliamo verità, anche se è una risposta meno scontata del previsto. Fare le cose per costrizione e non per convinzione ha sempre dei risvolti negativi.

Ascoltandolo in anteprima abbiamo trovato forti richiami all’Inghilterra dei Babybird o Franz Ferdinand piuttosto che all’America dei Guns. Cosa ci dite in merito?
Come sempre, la verità sta nel mezzo. Per noi l’Inghilterra è sempre stata importantissima, musicalmente ma anche a livello personale (fra l’altro la domanda è comica perchè sto rispondendo da un ufficio di Londra). Ci siamo conosciuti e abbiamo iniziato a suonare con il Brit Pop degli anni ‘90, abbiamo amato i parka e le vespe dei mod e indossato le Adidas di Ian Brown e di Noel. Il grande amore per l’indie è arrivato solo dopo, anche grazie ad una città -Bologna- in cui l’impronta alternative è sempre stata forte e ben riconoscibile. In questo senso un po’ olistico ci piace pensare che Truth or Consequences sia il nostro disco meno inglese e più americano, non solo per i suoni, ma anche e sopratutto per i colori, gli immaginari e le ispirazioni. È più un’America a pastelli tenui che quella delle grandi metropoli: è l’America del Sud, dei Drive-In, dei colori caldi e del rodeo.

Tra rabbia e romanticismo, lanciate il disco con un singolo dal titolo emblematico: “Home is Where the Heart is”. È un modo per ricordare alle persone la nostra vera natura? Al di la degli aspetti meramente romantici, sbaglio a leggerci anche una denuncia verso la superficiale condizione artistica nel mondo della cultura e del lavoro italiano?
No, credo di no: non è un messaggio per ricordare a qualcuno chi siamo. Truth or Consequences non è un manifesto di intenzioni, al contrario. È un posizionarci nel “qui ed ora”, funziona più da àncora che da aquilone. Avevamo bisogno di un lavoro solido, forte, in cui riconoscerci. E dentro c’è quello che è importante per noi oggi. “Home is where the heart is” parla esattamente di questo: dell’importanza della famiglia, degli amici veri, di mettere il cuore e il tempo nelle cose e nelle persone davvero importanti. D’altro canto è certamente una canzone romantica ma con diversi rimandi alla condizione media in cui più o meno tutti si ritrovano in questo periodo: l’impressione è che si stia vivendo in un periodo molto confuso e con pochissimi punti di riferimento, in cui perdere la propria identità è un rischio altissimo.

Spesso parlate di “immaturità” citando i vostri vecchi lavori. Oggi invece? Questo disco cosa promette? Cosa dobbiamo aspettarci?
La verità è che forse “immaturo” non è la parola giusta, almeno non a livello musicale. A differenza degli altri lavori, Truth or Consequences è quello che ci rappresenta di più, che dà una fotografia più precisa di quello che sono i Ties oggi. È stato un disco musicalmente facile, per noi, sia da scrivere che da suonare, cosa che non è stata vera per gli altri lavori. Ognuno ascolterà e giudicherà, ma siamo orgogliosi di avere fatto un disco sincero, molto spontaneo, che contiene tanto di noi.

Come citato anche da voi, il disco in qualche modo soffre dei mille ingranaggi di produzione che ormai sono ovvi e scontati per tutti. Cose che poi avete risolto brillantemente. Quindi col senno di poi pensiate sia stato un valore aggiunto o magari un rimpianto per non aver fatto davvero le cose come volevate?
Come dicevo prima, una delle cose più belle di questo disco -guardandolo da qui, da adesso- è che non ci sono rimpianti. Certo, ci sono stati gli alti e i bassi inevitabili di quando si registra e si produce un disco in maniera indipendente ma a conti fatti non potremmo essere più contenti. Personalmente, credo che ogni difficoltà affrontata e poi superata rappresenti un grande valore e qualcosa che di per sè vale il prezzo del biglietto.

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Bachi Da Pietra: parte questa sera il tour di Necroide

Written by Senza categoria

Il sesto album in studio è un ritorno ancor più profondo di Quintale alle radici musicali che segnarono l’adolescenza dei Bachi da Pietra e che coincisero grosso modo con la scena Heavy Metal dei primissimi anni Ottanta. Eppure, anche in questa ennesima trasfigurazione, quelle dei Bachi restano canzoni d’autore. La nuova scommessa di Giovanni Succi e Bruno Dorella è dare vita a un Frankenstein musicale, qualcosa di apparentemente paradossale e inimmaginabile, una sorta di cantautorato Black Metal, attraverso brani in cui risuoni, mascherata in quel nero, anche la pulsazione vitale della Black Music, contrapposta a quella eternamente e felicemente mortifera del Metal. Nei fatti, nella carne e nell’esoscheletro dei Bachi, queste passioni apparentemente antitetiche convivono. L’ulteriore scommessa è portare le canzoni di questo nuovo disco sui palchi dei club di tutta Italia. Il duo partirà con il tour di Necroide da Bergamo domani sera, venerdì 23 ottobre, per un totale di 22 date già confermate secondo questo calendario, in continuo aggiornamento:

23 ottobre: Bergamo @ Druso w/ Bologna Violenta
24 ottobre: Pordenone @ Deposito Giordani w/Il Teatro degli Orrori
28 ottobre: Bologna @ Locomotiv
30 ottobre: Carpi (MO) @ Kalinka
31 ottobre: Firenze @ Glue
05 novembre: Neive (CN) @ Birrificio CitaBiunda
06 novembre: Torino @ Officine Corsare
14 novembre: Padova @ Mame
20 novembre: Napoli @ Cellar Theory
21 novembre: Recanati (MC) @ Dong
26 novembre: Milano @ Biko
27 novembre: Massa @ Theremin
05 dicembre: Marghera (VE) @ La Tempesta al Rivolta
06 dicembre: Ferrara @ Arci Bolognesi
17 dicembre: Palermo @ I Candelai
18 dicembre: Messina @ Retronouveau
19 dicembre: Catania @ Barbara Disco Lab
20 dicembre: Lamezia Terme (CZ) @ Off
25 dicembre: Ravenna @ Passatelli in Bronson
26 dicembre: Terlizzi (BA) @ Mat
27 dicembre: Roma @ Monk
26 febbraio: S.Egidio Val Vibrata (TE) @ DejaVu

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Mike 3rd – The War Is not Over

Written by Recensioni

In genere i dischi fatti da (poli) strumentisti “sgobboni” che arrivano dalla musica più colta e complessa e si gettano a fare simil-concept album da ventuno brani con ospiti internazionali di alto livello mi preoccupano molto. Percepisco spesso quel puzzo di elevato livello tecnico che lascia in secondo piano i contenuti a favore di un masturbatorio cantarsela allo specchio per mettere in risalto muscoli  e abilità. Questa volta però la situazione si è salvata: la sfida è capire quanto. Mike 3rd (al secolo Andrea Michelon Prosdocimi), già fondatore degli Hypnoise, sforna, con puntualità sul centenario dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, il suo secondo disco, The War Is not Over. Ispirato nella struttura ai “Quadri di un’esposizione” di Musorgskij, il disco è un fervente e sentito omaggio a tutte le vittime della guerra e un inno alla pace e alla fratellanza. Le coordinate sono quelle di un Prog Rock funkeggiante e spesso arioso, in cui le zone più aperte e pinkfloydiane sono quelle che funzionano di più (“In the Twilight”, verso l’inizio, con Tony Levin, o la vicina “Black Sun”, o, ancora, la desertica, a tratti vuota, “Lost”), mentre quelle più ritmiche e mobili stonano alquanto col senso generale del disco (“Night with a Thousand Furry Animals”, per esempio, o il Rock più quartato di stampo sixties di “In the Light”). In generale si tratta di un disco di raffinato livello tecnico e produttivo (registrato in analogico con una particolare cura per la dinamica e la “pasta” del suono) e con un lodevole intento lirico, che però non sconvolge né innamora.

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Othismos – L’Odio Necessario

Written by Recensioni

Un sound molto sporco e cattivo quello degli Othismos, gruppo composto da Luca (chitarra e voce), Caino (basso e voce principale) e Giacomo (batteria). Più violento di un disco dei Napalm Death o degli Obituary, questo L’Odio Necessario ha deliziato le mie orecchie per poco meno di mezz’ora ma, credetemi, non ascoltavo un Metal così piacevole da anni. Un perfetto mix di Rock, Hardcore, Grind, Stoner, Doom, Sludge, Thrash e chi più ne ha, più ne metta. Avvertenza: questo disco non è per i deboli di cuore (o meglio di orecchio)! Caino urla come in preda a un dissennato e violento furore scandendo però perfettamente le parole tirando fuori tutto “L’Odio Necessario”. “Inno di uno Stato Fallito” è una chiara dichiarazione della direzione che prenderanno gli otto brani successivi pur essendo poco più di cento secondi strumentali, una vera e propria summa di ciò che vi aspetta e forse un titolo che vuol rendere omaggio al nostro paese martoriato da politici corrotti e annientato dalle tasse che dominano supreme la nostra economia. “Non Discitur” è la partenza migliore o il punto di arrivo massimo di un disco che non lascia spazio alla concorrenza, un non plus ultra dell’Heavy Metal moderno. “Nessun Sole” è segnata da cambi velocissimi di tempo scanditi dal drumming di Giacomo e affronta tematiche religiose (“Vita e morte sono mie… Io sono il mio Dio”). L’inizio di “Coma” sembra invece essere uscito da un disco degli Anthrax, ma subito le influenze Grind si fanno sentire acutizzando al massimo la violenza sonora. “Il Signore degli Impiccati” comincia invece in maniera “tranquilla” per trovare la sua strada dopo neanche un minuto. In “Mantra”  è la voce di Luca a far da padrona non facendo rimpiangere per nulla quella del suo “socio” Caino e sinceramente sarebbe stato bello sentire duettarli come facevano i Marlene Kuntz di “M. K.” quando gridavano a squarciagola Ehi critichino!. I generi del gruppo di Cuneo e degli Othismos non hanno nulla in comune, è vero, ma una doppia voce avrebbe dato maggior tono al brano. “Antitesi” e “La Discesa” proseguono con dignità il discorso affrontato finora ma in maniera un po’ più complessa e programmata prima di dar spazio a “Nessuna Promessa di Cambiamento”, degna conclusione di questo capolavoro Metal che è L’Odio Necessario. Non so sinceramente cosa promettano  per il futuro gli Othismos, ma sono sicuro che almeno oggi daranno uno schiaffo e nuova linfa all’Heavy Metal nostrano. Tenete d’occhio questo gruppo  e non lasciatevi sfuggire L’Odio Necessario.

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Andrea Rock – Hibernophiles

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Hibernophiles è un titolo curioso per un album, una di quelle parole che richiedono di essere analizzate per capirne il senso, e in effetti, un significato esiste, sia letterale, sia per il suo autore Andrea Rock. Wikipedia ci da una mano e ci dice che Hiberna è il nome che i romani usavano come riferimento per l’Irlanda, di conseguenza se sei un Hibernophilo sei una persona legata a doppio, se non triplo, filo alla cultura irlandese. Andrea Rock scegliendo questa parola come titolo della sua prima opera da solista, si dichiara quindi amatore incondizionato dell’Irlanda e della sua cultura e ci fornisce subito le giuste coordinate per inquadrare gli undici brani di Hibernophiles.

L’album ha senza dubbio due grandi caratteristiche: una forte impronta autobiografica e la perfetta rappresentazione degli stilemi della musicale irlandese, anche se filtrati e contaminati dalle precedenti esperienze musicali di Andrea. Il cuore selvaggio e irlandese del disco trova forza ed espressione nel singolone “Bury Me a Irish”, conforto nel classicone ritmato e festaiolo “Galway Girl” di Steve Earle, una certa commozione ed emozione nella ballad “Flag”. Il brano “Larry the Legend”, omaggio a Larry Bird, star del basket NBA completa la rose dei brani che usano al meglio le sonorità e i canoni del genere. All’interno di questo mondo popolato da prati verdi, pinte di guinness, violini, banjo e fisarmoniche spuntano qual e là brani meno Irish e maggiormente influenzati  dal Classic Rock come la chitarrosa “Never Stop Drinkin”, la bonjoviana “What It Take To Be a Man” e “Be Still My Heart”, e anche ispirati da un pizzico di Punk come la cover di “Story of My Life” dei Social Distorsion,  anche se il nuovo arrangiamento la priva della grinta e del piglio che la contraddistinguevano. Il racconto di Andrea si chiude con “Not Afraid” un mix ritmato di Hip Hop e banjo, che spazza via le belle immagini di prati verdeggianti e ispirate a favore di un brano più moderno, vicino ad un pubblico giovane. Hibernophiles è un album ben fatto, senza cadute clamorose e molto orecchiabile, fedele alla dichiarazione d’amore dell’autore e per questo forse pecca di poca vivacità. Le tematiche e le storie, perlopiù autobiografiche, sono condivisibili e raccontano un mondo fatto di passioni, esperienze di vita, amici, pub  e pinte di guinness. Tutto questo lo rendono diretto, accesibile e facile da ascoltare.

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Bonomo – Il Generale Inverno

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Bonomo, aka Giuseppe Bonomo, annata 1978 da Taranto, esordisce solista in queste dieci tracce di Pop Rock melodico, comodo ma competente, raccontando di tutte le cose che, nella vita, ci bloccano, ci rallentano, ci contrastano, simboleggiate dalla suggestione che dà titolo al disco: Il Generale Inverno. Bonomo mette nell’album tutta l’esperienza accumulata negli anni. Ha studiato, e si sente; ha suonato, e molto (vanta collaborazioni con, tra gli altri, Alberto Fortis, Filippo Graziani, Matrioska) e d’altronde anche in questo frangente si occupa di praticamente tutti gli strumenti – esclusa la batteria – e gli arrangiamenti, oltre a comporre tutti i brani del disco. I pezzi sono tutti molto orecchiabili e con una freschezza che arriva diretta all’ascoltatore senza eccessive complicazioni, anche grazie ai testi, che, se pure difettano in ricerca e stile, portano una leggerezza Pop che, date le coordinate del disco, può solo giovare alla sua fruibilità. Si sente l’amore per la musica d’oltremanica e d’oltreoceano (gli echi californiani de “La Visione”, o i riff Funk di “DNA”) e per il Pop elettronico (“Insonnia”), si sente la forza con cui si cerca di – e si riesce a – rendere ogni brano un potenziale singolo, anche perché Bonomo non sembra fare troppa fatica nel giostrarsi tra mood pure molto diversi, regalando al disco una varietà invidiabile: tra l’energia de “La Mia Rabbia”, pezzo alla Bluvertigo, e la dolcezza sospesa de “I Pesci Non lo Sanno” c’è un abisso, così come tra il Pop da radio primi 2000 di “Otto Ore al Giorno” e di “Araba Fenice” e la freddezza in 6/8 de “L’Ultimo Valzer”. Il Generale Inverno è, sostanzialmente, un disco di solido Pop Rock senza eccessive profondità ma che lascia un piacevole sapore in bocca, anche se magari senza rimanere sul palato molto a lungo. Le fondamenta per costruire qualcosa di più personale e inconfondibile ci sono tutte. Aspettiamo il seguito.

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Recensioni | agosto 2015

Written by Recensioni

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Ben Miller Band – AWSOF (Country, 2014) 8/10

Un secondo album spettacolare per il trio Ben Miller, Doug Dicharry, Scott Leeper che unisce in dodici tracce dal sapore Country tutta la propria esperienza e classe, miscelando Bluegrass, Americana e Southern Rock in un sound estremamente tradizionale ma che riesce a non emanare mai lo sgradevole odore di anacronismo.

Gab de la Vega – Never Look Back (Cantautorato, Punk, 2015) 7,5/10

Il cantautore Punk Folk bresciano Gab de la Vega torna e stupisce tutti con dieci nuovi pezzi e un’interpretazione di “Never Talking to YouAgain”, un grande classico degli Hüsker Dü. Un po’ ricorda quanto fatto recentemente da Tv Smith, ma c’è anche tanto di Bob Dylan e Neil Young. Da non lasciarselo sfuggire!

Stearica – Fertile (Post Rock, Math Rock, 2015) 7,5/10

Essere scaraventati al muro dalla potenza del suono non è cosa che succede troppo spesso. Gli Stearica ci riescono, in versione digitale quanto in versione live, a botta di drumming energici, bassi e chitarre distorti.

Lydia Lunch/Retrovirus – Urge to Kill (No Wave, Post Punk, 2015) 7/10

Lydia Lunch scrive il capitolo del progetto Retrovirus, riunendo sul palco Weasel Walter alla chitarra, Tim Dahl al basso e Bob Bert (Sonic Youth) alla batteria. Nove tracce per ripercorrere la carriera della “big sexy noise queen” e una ciliegina sulla torta: la cover di “Frankie Teardrop” dei Suicide.

OoopopoiooO – OoopopoiooO (Sperimentale, Ambient, 2015) 7/10

Due maestri del theremin creano un nome impronunciabile, sintomo di un universo distorto, onirico, pazzoide. Quella pazzia sana, che fa andare oltre le spesse barriere del Pop e mischia strumenti, giocattoli, elettronica, parole e voci che sembrano arrivare dalle zone più nascoste del nostro cervello. Tredici brani che sembrano difficili al primo ascolto ma che alla fine ci sembreranno vicini alle orecchie come ronzii di insetti.

All About Kane – Seasons (Pop Rock, 2015) 7/10

Gli All About Kane alla loro seconda prova discografica intitolata Seasons, confermano l’ottimo esordio con Citizens e aggiungono alla loro dna british un pizzico di sperimentazione che si spinge verso il Pop e l’Alternative. Seasons è un interessante insieme di melodie leggere e mood movimentati; canzoni come “Old Photograph” e “Hurricane” si fanno amare fin da subito per piacevolezza e orecchiabilità. Nonostante spesso la voce del cantante ci ricordi molto Brian Molko dei Placebo, gli All About Kane riescono a mantenere viva la propria identità per tutto l’album, offrendo all’ascoltatore qualcosa di interessante e ben realizzato. Anche se uscito da qualche mese lo consigliamo per tutti i viaggiatori estivi che hanno voglia di una sferzata di aria fresca.

My Own Prison – Sleepers (Hard Core, 2015) 7/10

Cagliaritani, i My Own Prison, dimostrano con questo loro lavoro di conoscere decisamente bene l’hard core e di possedere tutta la tecnica per poterlo personalizzare. Tutto il disco è fondato sull’infuenza grind e su un cantato growl che muove su ritmi serratissimi di basso e batteria (al limite dell’agilità), che non si concedono tregua neppure in “Sleepers Eve”, caratterizzata da un timbro chitarristico dal sapore Indie-Pop, o nella più intima “Temper Tantrum”. Dieci tracce per un full lenght davvero pieno di energia, decisamente per gli appassionati del genere.

Solkiry – Sad Boys Club (Post Rock, 2015) 6,5/10

A due anni di distanza dall’album d’esordio, torna il quartetto australiano con il suo dinamico Rock strumentale di chiarissima ispirazione mogwaiana. Un disco potente e variegato, che riesce a cullare tutto lo spettro di emozioni che si accavallano nei sogni ad occhi aperti e che ha l’unico difetto di mostrarsi troppo incapace di osare davvero, risultando troppo banale e ripetitivo nella scelta pura dei suoni.

A Minute to Insanity – Velvet (Grunge, Stoner, 2014) 6,5/10

Il Grunge non è morto. Gli A Minute to Insanity da Cosenza lo dimostrano con orgoglio in questo ep. La chitarra e la voce “consumata” di Francesco Clarizio, insieme al basso di Antonio Trotta e alla batteria di Francesco Lavorato, ti riportano lì, in quegli anni Novanta che non sono ancora messi in archivio del tutto.

Attribution – Whynot (Rock’n’Roll, 2015) 6,5/10

Potente e autorevole questo Whynot dei bergamaschi Attribution, album che mescola un’attitudine classicamente Rock and Roll ad una commistione di generi che invece di risultare indigesta esalta le qualità di ogni singolo componente (prezioso l’uso dei fiati). Da ascoltare soprattutto il divertente Funk di “Scofunk” e la bella rivisitazione di “Cold Turkey” di John Lennon.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Ep (Stoner, Noise, Hard Rock, 2013) 6,5/10

Un vero e proprio calderone: fondete Stoner, Noise e Hard Rock e otterrete la giusta ricetta sonora; un sound che appartiene più all’America che all’Italia e forse in questo la lingua non aiuta molto (sarebbe stato più giusto cantare in inglese!). Nonostante ciò un lavoro maturo negli arrangiamenti e perfetto nella registrazione

Snow in Damascus – Dylar (Elettronica, Shoegaze) 6/10

Atmosfere cupe e sonorità che spaziano tra Elettronica e Shoegaze, per un disco d’esordio che nel complesso suona come un buon lavoro di tecnica, ma che non colpisce per la sua originalità.

Moira Diesel Orchestra – Moira Diesel Orchestra (Alternative, Post Grunge, 2014) 6/10

Orfani degli anni Novanta, i MDO ricercano costantemente sonorità a metà tra il Seattle sound e dei seminali Litfiba. Tra qualche errore di gioventù e troppi eccessi di imitazione emergono alcuni momenti interessanti come “Nostema di Posizionamento Globale” o “Ardore” che per qualche minuto cancellano i molti reminder. Rimandati.

The Moon Train Stop – EP (Rock, Alt Pop) 6/10

Echi sixties per il trio piemontese all’esordio. Un Pop alternativo luccicante, divertito, ritmato, senza eccessiva originalità ma competente. Quattro brani suonati bene, cantati così così. L’inglese non rende benissimo. Non lasciano (ancora) il segno.

La Sindrome della Morte Improvvisa – Di Blatta in Blatta (Stoner, Noise, Hard Rock, 2015) 5,5/10

Quando si incide un disco che ha il grave compito di succedere a quello d’esordio si pretende qualcosa di più; purtroppo in questo lavoro si mette in evidenza solo la bravura. Mancano i contenuti e le idee nuove. Un piccolo passo indietro quindi è stato fatto nonostante il gruppo si sia aperto ad un lato più “oscuro”.

Night Gaunt – Night Gaunt (Doom Metal, 2015) 5,5/10

I romani Night Gaunt fanno loro l’essenza dei Candlemass unendola alle cupe atmosfere dei Katatonia e alle accelerazioni di puro stampo Celtic Frost. Si resta sempre nell’ambito del Doom Metal, fedeli a un registro prestampato. Senza infamia né lode.

Marco Spiezia – Life in Flip-Flops (Cantautorato, Swing 2015) 5/10

Semplicità ed immediatezza sono le caratteristiche principali di questo disco che non fa ascoltare nulla di nuovo ma che diverte. Canzoni (quasi) sempre veloci ma dai ritmi abbastanza simili. Forse il cantautore sorrentino Marco Spiezia dovrebbe (e potrebbe) osare di più.

The Junction – Hardcore Summer Hits (Indie, Pop Punk) 5/10

Per i tre padovani, il secondo album è una nuova prova con pretese ridotte al minimo sindacale. Pezzi tirati quando basta per provare a non annoiare, qualche buona melodia, un inglese che si tradisce spesso e tantissime banalità, in una miscela di cliché Indie Rock e qualche incursione nei territori del Punk Rock (Pop meglio) da bermuda, occhiali da sole e infradito.

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Royal Gala Rock Festival: sono aperte le iscrizioni

Written by Senza categoria

Si terrà il 25 settembre 2015 il primo evento targato AW Recordings. La neonata etichetta rock udinese ha infatti indetto il contest musicale Royal Gala Rock Festival che si terrà a Pantianicco (UD) e che vedrà quattordici band emergenti sfidarsi sul palco per vincere il primo premio, consistente in 30 ore di registrazione, per un valore di oltre 1200 euro, nei nuovissimi Angel’s Wings Recording Studios, unica struttura all’americana in Italia, che vanta due mixer Solid State Logic.
Al concorso – la cui iscrizione è gratuita e aperta fino al 5 settembre – ci si può iscrivere proponendo due pezzi inediti di genere Rock e Metal, ed eventualmente una sola cover. Tramite una pre-selezione in base alla valutazione del materiale ricevuto, l’organizzazione designerà i 14 concorrenti che potranno accedere alla serata del festival.
Nel corso della serata, le 14 band finaliste saranno giudicate da una giuria qualificata composta da discografici, cantanti, giornalisti e operatori del settore, presieduta dal produttore Nick Mayer, già a capo della Cherry Lips Management e attuale direttore artistico di AW Recordings.
“Al di là della vittoria e del primo premio in sé – commenta Mayer -, che non possono che ingolosire i partecipanti, ritengo che questa manifestazione sia una grossa opportunità per le band di mettersi in mostra davanti ad una giuria di esperti del settore. Per noi di AW Recordings è sicuramente un’ottima occasione per vedere dal vivo band emergenti di qualità: la speranza è sempre quella di trovare nuovi talenti a cui proporre un contratto discografico”.

Il modulo per l’iscrizione lo trovate a questo link
http://www.angelswings.it/wp-content/uploads/2015/07/modulo-di-iscrizione-e-regolamento-ROYAL-GALA-ROCK-MUSIC-FESTIVAL.pdf

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Sunday Morning – Instant Lovers

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La storia dei Sunday Morning è una bella storia, di quelle storie di malinconia Rock o di Rock malinconico come non se ne sentono più spesso. Un gruppo di Cesena che suona in giro nei primi anni 2000, registra un disco nel 2006 e poi “qualcosa si spezza” e la band si sfalda, disseminando pezzi in varie altre formazioni o in altre vite, altrove. Poi il ritorno, il ritrovarsi, “(ri)mettendo al centro quell’alchimia che non ha niente di scientifico”. Un piccolo studio, dieci canzoni: ne esce questa seconda prova, Instant Lovers. Racconto la storia perché la storia è importante, e in qualche modo ha influenzato il mio ascolto del disco, che alle mie orecchie suona nostalgico, intenso, malinconico, certo, ma divertito, denso. Una carrellata di pezzi scritti egregiamente, dove si frulla molto Rock dai sessanta e dai settanta, americani e inglesi, e un songwriting dolce, azzeccato, coinvolgente, complici anche i suoni, caldi ma mai sbavati. Una piccola macchina del tempo e dell’emozione, un già sentito che certo non è il futuro, ma è come tornare a casa, rivedersi dopo tanto tempo, trovarsi un po’ più vecchi ma sempre gli stessi. Che poi è per questo che il Rock non morirà mai: sarà forse diventato rugoso, puzzerà pure di legno vecchio, tabacco e corridoi di linoleum con più d’una macchia, ma sa sorriderti ancora, sa come farti sentire a casa.

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Kamera Kubica – Kamera Kubica

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Ecco il primo disco dei veneti Kamera Kubica, senza tante seghe mentali e senza gli scrupoli di essere già sentiti o troppo alla moda. Finalmente un disco italiano giovane e fatto di canzoni e non di luoghi comuni. Nessuna ricerca metodica di brani radiofonici o forsennate scalate, ma una manciata di canzoni da ascoltare senza fronzoli o pretese. “Un buon disco ad ogni tua notte insonne” si dice nel primo pezzo “Sono Solo” e il songwriting dei vicentini è immediato quanto basta. Nessuna citazione colta o nessuna invettiva sociale da bar sport. Solo una bella canzone etilica e violenta sulla solitudine. Santa ignoranza. La partenza è un gran botto di chitarre ma non è di certo l’esplosione più prepotente. “Vai Via da me” si distanzia dall’etichetta di classica band Indie Rock, marcetta che sbircia il Brit Pop senza nascondersi troppo. La voce di Daniele Minore manca forse di personalità, ma corre bene dietro alle melodie e ad una band che (almeno in registrazione) suona vera, pura. Pura come una canzone dal respiro incredibilmente italiano: “Se Salperai” è una perla in un deserto di rumore, dallo splendore degli anni 50 catapultata nel folle traffico di una metropoli. Decisamente meno ispirata è “Chissà se Sei Quella Che Sei”, a metà tra Ligabue e il Pop-Punk più commerciale, anche se dimostra un drumming spacca pietre. Molto più spensierata e naturale è “Budapest”, bella ballata adolescenziale da cameretta. Rischierà di essere naif e piena di brufoli ma suona davvero reale anche se cantata da ragazzi un po’ grandicelli. Il resto dell’album scivola così tra alti e bassi ma resta piacevole all’ascolto, nonostante alcune imperfezioni. La seconda parte del disco però non riesce mai a fare breccia come le prime tracce. “Betty Boop” pare un riempitivo senza spina dorsale, mentre “Il Ponte di Novembre” ha il Grunge che stavamo aspettando da troppi brani. Finalmente un po’ di sana violenza, dove i Kamera Kubica trovano definitivamente la loro dimensione. Il finale dell’acustica “Io Sono Qui” scade in melodie facili nonostante le parole siano più oneste che mai. Il fischiettio sfumato ci lascia una band vera, che suona unita nonostante i pezzi della tracklist cozzino un po’ tra di loro. Una band che non ha paura di attaccare un overdrive e dopo mettere coretti alla Coldplay. Un’entità unica, che certo deve crescere e migliorare, trovare la sua via, ma che ha fatto così bene a tirare fuori questo album. Grezzo, imperfetto, come una fotografia fatta con la Polaroid.


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Mistic Zippa- Una Volta Si Usava Il Veleno

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I Mistic Zippa, sono una longeva band di Savona, in pista dal 1992. Una storia lunga un abbondante ventennio, fatta di alti e bassi, una reunion e una positiva campagna di crowdfunding tramite musicraiser, che li ha portati a pubblicare nel mese di marzo il terzo album intitolato: Una Volta Si Usava Il Veleno. Il titolo, che sarebbe perfetto anche per un libro di memorie da serial killer, in realtà ha un grande effetto anticipatore del contenuto che ci aspetta. I Mistic Zippa, infatti, sebbene utilizzino un registro stilistico spesso scanzonato e giocoso, tipico dello Ska e della musica popolare in generale, bilanciano l’effetto goliardico con contenuti sarcastici, ironici, e attuali. La base di partenza è la denuncia sociale e politica, anche se non mancano le eccezioni come “Brivido Calvo”, che sottraendosi alla logica si concede una divagazione scherzosa e funkeggiante giocando appunto con l’annoso e maschile problema della calvizie, o come “Un Amore” in cui si racconta la fine di un amore un po’ burrascoso. Una Volta Si Usava Il Veleno ha un’anima ritmata, festaiola e una spiccata vocazione al ballo, che emerge sia dallo Ska solare alla maniera dei Vallanzaska o dei Persiana Jones di “Desideri”, sia dall’insistente fisarmonica che fa tanto Patchanka di “Lotta”. Non mancano, però, sparpagliate per le undici tracce del disco, influenze e incursioni sonoro di derivazione Rock, da quelle elettroniche, che richiamano il mondo dei Subsonica, nell’uso di tastiere e synth in “Italiani…Diversamente Intelligenti”, alle chitarre dal mood dark e hard di “L’umore” e “Morto”. L’album si ascolta con piacere e scorre facilmente, l’esperienza del gruppo si fa sentire, e precisione e pulizia contraddistinguono tutto il lavoro. Forse qualche sporcatura o graffiatura avrebbe dato qualche brivido e quel pizzico di personalità in più.

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Fucina 28 – La Pace Dei Sensi – Il Nulla

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Come scritto nella loro biografia, il progetto Fucina 28 nasce tra le mura di una casa, tra le piacevoli emozioni che solo una cena tra amici sa donare. Era il Novembre 2011 e quasi quattro anni dopo ritroviamo il gruppo pisano reduce da tour in giro per l’Italia e un primo album E’ Arrivato Il Tempo, accolto positivamente da critica e pubblico. Le otto tracce de La Pace Dei Sensi – Il Nulla, continuano a solcare l’onda sporca e abrasiva del precedente lavoro, senza nessun tipo di ammorbidimento. Sicuramente la scelta di una registrazione in presa diretta non avrà giovato in questo senso. La voce di Pietro Giamattei, mente e anima della band, ci introduce alla malinconica “La Guerra Dei Trent’Anni”, mentre con “Nel Paese Di Pinocchio”, il quartetto raccoglie i pro e i contro del sound dei Tiromancino. Avvolgente e più dinamica la titletrack “La Pace Dei Sensi”, ma è con “Amore Blu” che si fa il salto di qualità: un inno che si oppone al qualunquismo, scalfito da melodie estemporanee. E’ un fuoco di paglia, purtroppo: calma piatta in “Verde Mare” e “Te Stesso”. Si torna su buoni livelli con i riff di “Terrore”, il pezzo più lisergico del lotto, la quale si spegne come la fiamma di una candela al vento, lasciando spazio alla conclusiva “L’Incostanza Vol.II”: drammatica, quasi teatrale. Finito l’ascolto contesto la scelta della registrazione in presa diretta, troppo confusionaria e non all’altezza, ed è un dispiacere perché nei testi si scorge quel qualcosa in più che manca alla maggior parte della musica prodotta nel nostro Paese.

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