rock Tag Archive
MasCara – LUPI
La prima cosa da dire di questo LUPI by MasCara sono belle parole relativamente all’artwork. Pulito, classy, semplice ed efficacissimo. Sorvoliamo giusto su qualche errore nella composizione interna, dove i testi di alcuni pezzi vengono scambiati di posto, e dove un paio di refusi disturbano la lettura delle liriche. Passiamo poi alle liriche, o meglio, per l’appunto, alla lettura delle stesse. C’è un gusto narrativo palpabile nelle dodici tracce del disco: la storia scorre fluida, e già dai titoli le visioni urbane quasi oniriche (“Macchine da Guerra”, “Cattedrali al Neon”, “Graffiti”, “Barricate”, “Gocce di Benzina”) si mischiano a tonalità più primitive e leggendarie (“Dei per Sempre”, “Isaac” – che echeggia vibrazioni bibliche -, “Falsa Età dell’Oro”, “Riti Ancestrali”), dandoci l’idea di un’epica distopica dalle sfumature varie e dai sapori intensi. All’ascolto i MasCara sorprendono per la fluidità e lo spessore della pasta sonora (aiutati al mix anche da un nome di punta quale Tommaso Colliva): chitarre, synth, bassi e batterie si fondono in soundscape estremamente riusciti ed affascinanti. Si rischia giusto qua e là un effetto già sentito (qualcosa alla Coldplay, qualcosa alla Ministri, per citare giusto le apparenze più facilmente intercettabili), ma è il rischio di andarsi ad infilare in questo tipo di proposta musicale.
La pecca maggiore di LUPI, a parer mio, sta però nella voce, e non tanto nel timbro o nelle capacità vocali di Lucantonio Fusaro, ma nella metrica, sghemba e scalena, claudicante. I testi vengono snocciolati sui brani in modi spesso storti, disequilibrati, qualche (rara) volta con risultati imbarazzanti, più spesso semplicemente facendo apparire i testi disorganici rispetto alle musiche, ai ritmi, alle fasi del pezzo. Questo non toglie certo al disco i suoi meriti, ma ne penalizza l’ascolto – o almeno così è accaduto al sottoscritto. Concludendo, LUPI è un disco maturo, di una band interessante, narrativamente e musicalmente. Per raggiungere le vette mi sento di consigliare una personalizzazione maggiore della proposta sonora e una cura dei testi che riesca a coniugare linea melodica e cuore pulsante delle canzoni senza affossare né l’una né l’altro. Ascolto consigliato in attesa di prove future, si spera più decisive.
THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO
RUGHE SPORCHE
THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO
Una domenica come molte altre, forse addirittura più anonima di tante altre. Con un cielo diviso a metà tra il blu della spensieratezza pre-estiva e orrende nuvole nere incombenti. Per sconfiggere l’apatia di questa modesta giornata cerco come molte altre volte rifugio nel Rock’N’Roll, antica medicina che per fortuna su di me continua a fare un certo effetto benefico. A questo giro di antico non c’è solo l’antidoto. Scorgo infatti con piacere che a Spazio 211 – Torino celebrano i loro 50 anni The Pretty Things, storico gruppo inglese capitanato da Dick Taylor, membro fondatore dei The Rolling Stones. Si parla del 1963, l’anagrafe non può mentire. C’è da dire che ultimamente sono parecchio avverso ai gruppi di ultra sessantenni. Penso che la pensione serva anche nel Rock, a volte la passione non basta ad attenuare gli acciacchi del tempo. E molte band di dinosauri si sono palesate ai miei occhi come lente macchine arrugginite, ancora appese agli esagerati fasti del passato. Esagerati per essere comodamente gestiti col tempo.
Alle ore 22 arrivo al locale e, nonostante delle vere e proprie leggende (negli anni ‘70 Mister David Bowie suonava le loro cover!) siano in città, il locale è semi deserto. Un po’ me lo aspettavo, un po’ forse Torino, che tanti pregi ha musicalmente parlando ma non ha mai avuto lo strato ruvido del Blues marcio sull’asfalto dei suoi viali. Ci si potrebbe aspettare per questo uno show un po’ anemico, apatico come questa domenica. Immagino che arrivare con 50 anni di band alle spalle e trovarsi un locale con sessanta persone dentro, per giunta a 2000 km di distanza da casa tua, potrebbe portarti all’apatia, alla freddezza, all’odio verso la passione che ti ha spaccato la schiena in decenni di furgone. E questo credo capiterebbe qualsiasi sia il tuo passato, figuriamoci cosa capita a chi ha militato in gruppo con Mick Jagger e Keith Richards.
Alle 22.30 però The Pretty Things attaccano e tutte le cazzate che mi ronzavano per la testa vengono spazzate via dal muro del suono. Chitarre marce suonate da Dick, occhialuto e ricurvo su se stesso, e da Frank Holland, un altro attempato volpone, ricciolone e dallo stile Proto Punk. Basso e batteria da manuale del rock anni ’60, sebbene siano gestite da due pischelli. E poi la voce di Phil May, direttamente presa in prestito dagli inferi. Il diavolo invecchia ma mantiene charm inglese. Stile incredibile, viscerale. La macchina del tempo funziona alla grande, si sente lo sporco, le budella che si agitano, si sentono i tempi in cui la musica era una ragione di vita.
La magia scatta con il viaggio di “S.F. Sorrow is Born” (il disco S.F. Sorrow pare sia la prima opera rock che ispirò The Who a scrivere “Tommy”), psichedelia e aridi deserti, con quella sezione ritmica giovane che rende tutto così attuale e tangibile. L’incantesimo non si interrompe neanche quando sul palco rimangono solo Phil e Dick, come due vecchi amici (lo sono e si vede) jammano su vari standard Blues in duo acustico. Dick Taylor pare muovere goffamente le dita ingiallite e scheletriche ma in realtà con il suo slide riempie la sala di pathos e ci riporta davanti Robert Johson e tutte le sue diavolerie. Questa band è incredibilmente viva nonostante suoni musica vetusta. Ha la passione, la forza e la voglia ancora di stupire. Niente da dire, mi sono convinto. Questo gruppo è molto più gruppo di quanto siano The Rolling Stones degli ultimi 30 anni. Ma la chiudo qua perché il paragone è banale e forse pure fuori luogo.
Il finale dello show, che personalmente è anche una lezione di musica (ma oserei dire pure di vita), è affidato ad un omaggio a Bo Diddley, oltre che a loro classici come “Midnight to Six Man” e la conclusiva “L.S.D.” con tanto di citazione a “Lucy in The Sky With Diamonds”. Concerto corto, un’ora e mezza di pura energia e di sogni. Un’amalgama perfetta e un sorriso stampato sui loro stanchi volti che non si arrendono.
Nel finale esco a fumare una sigaretta con alcuni amici, passa proprio Phil May con una crostata alle ciliege in mano mentre i più giovani caricano lo scassato furgone che pare essere pure lui sudato marcio sebbene sia parcheggiato in una Torino non troppo caliente. Noi ci guardiamo e vediamo li a un metro da noi questo anziano, dall’aspetto rude, con capelli semilunghi ma mezzo calvo, che nonostante il sudore e i segni del tempo tenuti alla luce del sole, conserva la sua estrema eleganza. Guarda fuori, con una crostata in mano. Mi avvicino e gli dico solo: “great”. E’ l’unica parola che mi sento di dire. Lui mi guarda e mi da una pacca sulla spalla, gli scappa un “thanks a lot” e dopo un sorriso vero, umano. Mannaggia mi aspettavo dal Rock’N’Roll solo un po’ di brio per sotterrare questa triste domenica, invece questo infame si è dimostrato di nuovo più grande di quello che potessi immaginare.
Sonic Daze – First Coming
Massimiliano Demata, Vittoriano Ameruoso, Serena Curatelli e Giuseppe Santorsola sono i Sonic Daze che esordiscono a fine 2013 con il loro Ep First Coming. Pugliesi e passionali i Sonic Daze ci presentano un lavoro prima di tutto con una copertina niente male disegnata da Shawn Dickinson e soprattutto formato da sei tracce che spaziano senza alcun dubbio tra un Rock’n’Roll molto esplicito e un Punk veloce, e a volte divertente che fa immaginare gavettoni e guerre di cuscini. Tutto questo si scorge fin dalle prime note di “Hear Me Calling” quel tanto orecchiabile da rimanere impressa senza però risultare banale. “When the Sun” incarna perfettamente quello che dicevo prima, l’aria d’estate che tarda ad arrivare ma quando arriva lo fa in modo violento e goliardico tra viaggi on the road, finestrini abbassati e musica a tutto volume magari proprio quella di First Coming. “Amorality” invece ha sonorità più dure rispetto per esempio a “So Many Colours” che con il primo arpeggio ci catapulta sulle spiagge assolate degli anni 60-70 e quel sapore molto British che in questo caso non guasta proprio. “Get out of the Way” chiude questo Ep in maniera consona anche se non è proprio la parola più appropriata.
Insomma, First Coming può risultare una sorpresa per gli amanti del genere e non solo per le sonorità molto naturali di un genere che alcune volte stona ma che questa volta nuota nelle atmosfere del Rock prendendone gli aspetti più ritmici. Tutto suonato con una tecnica molto buona e una precisione ritmica assolutamente da notare. Da sottolineare la registrazione in maniera assolutamente analogica senza l’uso del computer che rende il suono meno piatto e più presente. Insomma le influenze del gruppo sono anche molto chiare Beach Boys, Beatles, Sex Pistols, Ramones. Influenze chiare e non copiate. Infatti i Sonic Daze ci mettono del loro con audacia e senza paura dimostrando perché no professionalità e soprattutto profonda conoscenza del genere e della propria passione. Un esordio da ascoltare assolutamente, magari a tutto volume, e da portare in valigia!
“Niente (non Diventeremo)”, il nuovo video de Le Fate Sono Morte
A soli tre mesi dall’uscita del loro singolo “È’ già Settembre” del 20 gennaio 2014, la band milanese decide di dare consistenza visiva all’ultima traccia del proprio album. Il concept della clip si basa su un’atmosfera buia che inghiotte i visi nascondendone le identità, rendendo dubbiose le relazioni e ostacolando il ritrovamento di sé e dell’altro. I musicisti, dai volti resi irriconoscibili nella penombra, suonano finti tamburi fatti con la plastica dei palloncini e con corde tese da mani sospese nel buio, senza produrre alcun suono tangibile. Le immagini del videoclip ricreano, quindi, l’assenza e la sensazione di vuoto e di annullamento. Un video delicato e suggestivo, significativo, pur nella sua semplicità, cromaticamente ben studiato e coerente nell’accostamento al sound del pezzo.
Qui la recensione Le Fate Sono Morte – La Nostra Piccola Rivoluzione
Qui l’intervista a Le Fate Sono Morte
Serazzi & La Cucina – Á la Carte
Personaggio poliedrico e camaleontico, Paolo Serazzi è un eclettico entertainer conosciuto per aver composto con i Bluebeaters la colonna sonora del film Ravanello Pallido con Luciana Littizzetto. Ma non solo. Collaboratore RAI da diversi anni, ha prodotto sigle per programmi per ragazzi e spettacoli teatrali. Nell’epoca dove in televisione è impossibile non incappare, facendo zapping, in uno show che non abbia come protagonisti fornelli e scodelle e dove i giovani chef nostrani come Simone Rugiati e Alessandro Borghese ostentano la loro passione per la musica. Serazzi si toglie giacca e cravatta per indossare il grembiule e ribattezzare l’orchestra che lo affiancherà con il nome La Cucina. Da subito si capisce che i toni saranno divertenti e divertiti, il primo singolo “Come Una Rumba” ha un effetto sveglia che coinvolge e fa muovere le gambe a tempo, che lo vogliamo oppure no. Fan conclamato di Paolo Conte, le influenze che ha su di lui il cantante piemontese (come lo stesso Serazzi tra l’altro) si fanno vivide in brani come “Con Un Salto” o “Laundrette Soap” (anche se qui si sfiora il plagio con il sound di Fred Buscaglione). Sono molteplici i generi toccati, anche se vige un’allegria di fondo sempre molto presente, con poca voglia di prendersi sul serio. In tutto questo divertissement trova lo spazio anche una ballad, “Mundo Mejor”, cantata metà in italiano e metà in spagnolo, impreziosita dai guizzi di una sezione fiati ispiratissima, come per tutto l’arco del disco, del resto.
Gli ingredienti usati per condire Á la Carte sono tutti prelibati, ma col dosaggio sbagliato potrebbero risultare indigesti. Mescolare (ed ascoltare) con cautela.
Majakovich – Il Primo Disco Era Meglio
Come si evince dal titolo, Il Primo Disco Era Meglio è il secondo lavoro del trio umbro Majakovich. Ultimamente è molto semplice associare l’Umbria al simpatico Luca Benni e alla sua etichetta To Lose La Track, la quale ha confezionato, insieme ad altre etichette discografiche (Metrodora Records e V4V Records), questo disco. Gli alfieri indiscussi della To Lose La Track si chiamano Gazebo Penguins. Se pensi a loro è impossibile non farsi venire in mente la barba di Capra, fautore, guarda caso, del booking de Il Primo Disco Era Meglio. Tuttavia i tasselli del puzzle non ancora hanno finito di combaciare: il refrain di “La Verità (E’ Che Non La Vuoi)”, con le sue curvature Emo Rock, può tranquillamente essere scambiata per un brano dei “pinguini”. Assonanze si notano anche con il coro di “Devo Fare Presto”, simile, eppur dissimile, a “Calce” dei Fast Animals And Slow Kids, conterranei (e le coincidenze paiono non cessare mai) dei Majakovich. Attenzione però a non scambiarli per delle pallide imitazioni di band un pelo più blasonate, perché è necessario avere ben stampato un concetto nel cervello: il terzetto in questione, se ci si mette, è in grado di sovvertire addirittura il naturale svolgersi degli eventi.
Il basso granitico di “Perché Francesco Migliora”, sgranocchierà sassi finché non verrà interrotto dal tenerissimo pianoforte che introduce “Colei Che Ti Ingoia”. Praticamente la tempesta prima della quiete. Due punti focali che fanno lievitare il voto sono senz’altro i testi e le melodie dannatamente catchy. Se poi i due fenomeni entrano in rotta di collisione, ci potremmo trovare a cantare a squarciagola in coda alla cassa di un supermercato E io non me lo scordo quell’inferno. Faceva troppo freddo, ritornello di “L’Hype Del Cassaintegrato”. I quaranta minuti circa che compongono Il Primo Disco Era Meglio, vanno via che è una bellezza, sono pochissimi gli scivoloni nell’autocompiacimento. Esempio lampante, in questo senso, sono gli arpeggi infiniti posti nel finale della malinconica “Una Vita al Mese”. Ma è un’eccezione, un minuscolo neo di un lavoro che non mostra mai il fianco e non ha punti deboli evidenti.
Aut in Vertigo
Hanno vinto l’ultima edizione del nostro Contest AltrocheSanRemo, gli Aut In Vertigo ci parlano delle loro esperienze artistiche, della musica Rock e della pasta scotta. In Italia non abbiamo la cultura per i live come nel resto del mondo.
Vincitori del nostro super testato Contest AltroCheSanremo. Gli Aut in Vertigo, a questo punto sono obbligate le presentazioni, ci parlate di voi?
Siamo una band piemontese, della provincia di Torino, nata nel 2004. Evoluzioni e cambi di formazione ci hanno portato dal 2012 alla line-up che oggi potete conoscere. Suoniamo per raccontare quello che viviamo, cosa sentiamo e cosa pensiamo; per divertire e per divertirci, per condividere con il pubblico il nostro modo di vedere il mondo.
Adesso vogliamo conoscere anche tutto quello che avete fatto fino a questo momento della vostra vita artistica…
Come abbiamo detto, nel 2004, siamo nati da un progetto condiviso sui banchi di scuola, per poi raccattare amici e conoscenti con una visione comune del mondo e della musica. Abbiamo iniziato a suonare, dal piccolo e poi sempre più in alto, e nel 2007 abbiamo inciso il primo lavoro, Welcome. Abbiamo partecipato a diversi contest, come Emergenza, TourMusicFest, Torino Sotterranea, e così via, che ci hanno permesso di conoscere molte altre band e suonare su palchi d’eccezione. Nel 2012 abbiamo cambiato formazione, e con i nuovi musicisti la band ha dato una vera e propria accelerata. Ecco che nel 2013 è uscito iI nostro disco In Bilico, che riassume parte del lavoro fatto negli anni, e parte della nuova spinta verso il futuro.
Stiamo parlando di una band emergente e soprattutto indipendente, trovate difficolta nell’inserirvi nell’ambiente musicale italiano?
Sì, se parliamo di palchi istituzionali. Suonare in giro non è difficile, ma è difficile farsi considerare, soprattutto se la musica proposta non è immediata o di moda, difficile entrare nelle reti di locali dove suonare, se non hai già un giro, che purtroppo non si crea solo sapendo suonare bene. Spesso e volentieri ci troviamo di fronte alla valorizzazione di band con scarso valore artistico-musicale ma molto “appariscenti”, con i quali sembra che i “ganci” siano più importanti della musica.
Pensate che gli altri artisti nel resto del mondo vivano le stesse vostre difficoltà? Perché?
Non lo sappiamo. Altre band amiche che hanno fatto tour in USA o in nord Europa ci raccontano che lì la cultura del live è diversa, che c’è attenzione e considerazione anche per le band emergenti, e soprattutto ascolto del prodotto che stai proponendo. Continuiamo a sperare che questo modo di vivere e ascoltare la musica arrivi anche qui…
Com’è il vostro rapporto con i locali (o gestori) per quanto riguarda la possibilità di esibirvi? Raccontateci anche qualche particolare situazione in cui vi siete trovati.
Il rapporto è difficile, nei locali medio/grandi è possibile suonare solo con i contest. Meno male che ci sono, ma è un po’ frustrante essere valutati solo per il numero di persone che si portano, che pagano o che consumano. La maggior parte dei locali non rispondono nemmeno alle mail, e anche questo rende tutto più complicato. Detto questo, ci sono anche gestori attenti, che ti danno la possibilità di suonare senza troppe storie e senza tirarsela tanto. Se vuoi un aneddoto, una volta, in centro a Torino, ci siamo montati completamente il palco, dalle spie, alle luci, al setting (della serie: arrivare concentrati al live) attaccato con cura tutto alla ciabatta e dopo due ore che nessuno del locale ci considerava abbiamo scoperto che il mixer non esisteva. Capisci? Questa ti sembra “cultura del live”? O anche solo professionalità? A noi no. Per fortuna il nostro pubblico è superbo, ripaga ogni sforzo, e non c’è serata in cui non ci sentiamo arricchiti dalle persone che ballano, ascoltano, criticano e condividono le nostre fatiche. Ecco, se dobbiamo dirla tutta il grazie più grande va a loro, non ai locali, né ai contest, ma alla gente che col sorriso ti accompagna e ti solleva in modo costruttivo.
Pensate sia giusto ricevere un cachet anche da perfetti sconosciuti? E non parlo del vostro caso ma in generale. Dove entrambe le cose non fossero possibili, meglio suonare tanto e gratis (o quasi) oppure suonare poco ma ben remunerati?
Pensiamo che sia meglio suonare tanto, giustamente remunerati. Sono molte le ore che una band come la nostra trascorre a pensare, progettare, allenare e perfezionare lo spettacolo, così come sono molti i fondi investiti, i km fatti, il tempo sottratto al lavoro che ci sfama. Dunque suonare e almeno non perderci i soldi investiti per raggiungere il palco, o per affittare la strumentazione mancante, ci sembra il minimo. Suonare tanto, anche aggratis, è indispensabile per farsi le ossa e l’esperienza, ma fino ad un certo punto e fino a un certo livello: se una band muove anche solo un centinaio di persone e intrattiene per un ora e mezza, beh, una birra e una pasta scotta non bastano più.
Tralasciando i contest on line, trovate che quelli più popolari e dove si suona dal vivo siano utili per una band emergente? Vi faccio qualche esempio, Arezzo Wave, Marte Live etc…
Utilissimi. Come dicevamo prima, grazie ai contest abbiamo raggiunto palchi difficili da raggiungere per una band emergente. Per chi è di Torino parliamo dell’Hiroshima, delle Lavanderie Ramone, le Officine Corsare o i Giancarlo ai Murazzi. Inoltre si conoscono e incontrano altri musicisti e altre band, e questo è sempre arricchente. Trovando dei limiti, da musicisti, a volte sembra poca l’attenzione verso la proposta musicale: non è sufficiente ascoltare due pezzi su youtube per capire qual è la ricerca di una band; se si organizza bisognerebbe avere la pazienza di scendere nel dettaglio, sebbene implichi tempo e denaro ma è il prezzo per fare un lavoro di qualità e migliorare la proposta artistica nazionale. Altro problema, molto più concreto è al solito il chiedere a chi ti segue di pagare la tessera associativa di turno, l’ingresso, ecc ecc. Certo, la colpa non è solo di chi organizza, ma anche la mancanza di politiche adeguate a finanziare le attività giovanili in generale, tra cui la musica live.
Avete mai avuto a che fare o solo sentito parlare degli uffici stampa? Cosa pensate? Una band precedentemente intervistata si lamentava dei prezzi, voi come vedete queste realtà ormai fondamentali per farsi conoscere?
Sì, conosciamo il mondo degli uffici stampa. Con l’uscita del nostro disco In Bilico, abbiamo deciso di fare questo investimento. Il punto è che la promozione e la diffusione delle informazioni sono importantissimi, ed è necessario farli per valorizzare il lavoro che hai fatto: abbiamo imparato che bisogna starci dietro quotidianamente per avere dei risultati, e se non può farlo il musicista in prima persona, deve farlo qualcun altro. Ci siamo avvalsi di Rosina Bonino, ufficio stampa di Fratelli di Soledad, DotVibes, Invers, Dagomago e molti altri, e con la sua professionalità e esperienza, ci siamo trovati davvero bene. Affidarti a dei professionisti che si occupano di questi aspetti, ti permette di concentrarti ancora di più sulla musica e sugli spettacoli live.
Esiste ancora la possibilità che un gruppo come voi riesca ad emergere con le proprie forze?
Beh, è quello che speriamo. In ogni caso crediamo che suonando tanto, dando il meglio di sé, e avendo qualcosa di originale da proporre, le possibilità ci siano per tutti.
Perché qualcuno dovrebbe ascoltarvi?
Perché ama il Rock, ama i testi in italiano, ed è stufo di sentir dire che il Rock nel nostro Paese è in mano a pochi famosi artisti. Tutte le nuove proposte mainstream in Italia escono da reality show, ora, ma secondo noi la musica non è spettacolarizzazione della vita, è una cosa seria che richiede fatica, lavoro e studio. La musica può trovare mille vie per uscire fuori ma deve avere le possibilità per essere valorizzata, non vuol dire per forza diventare milionari, ma aspirare al riconoscimento di un lavoro che ha valore. La gente potrebbe ascoltarci perché il nostro è un prodotto sincero, che racconta delle storie nelle quali riconoscersi, che veicola sentimenti comuni, perché ha voglia di scoprire storie nuove, ambientate nelle nostre città, e perché ha voglia di venire sommerso dalla nostra energia dal palco.
Cosa riserva il futuro per voi? State preparando qualcosa?
Stiamo continuando a portare in giro i brani dell’ultimo disco, e nel frattempo stiamo scrivendo pezzi nuovi. Stiamo preparando due videoclip e pensando a un nuovo lavoro discografico.
In questo spazio potete dire tutto quello che volete e che non vi è stato chiesto e fare pubblicità alla vostra band.
Beh sicuramente vogliamo ringraziare Riccardo e lo Staff di Rockambula per questa occasione, oltre a quella del simpatico contest AltrocheSanremo. Tutti i fans che leggeranno e le persone nuove che vorranno cliccare “mi piace” sulla pagina Fb www.facebook.com/autinvertigo . Aut In Vertigo è un modo bello di fare musica, ascoltare, condividere, fare strada insieme. Aggiungetevi alla cumpa, non ve ne pentirete.
Rivoluzione
Francesco Vannini – Dinecessitavvirtù
L’artista siciliano Francesco Vannini arriva al primo lavoro discografico con l’Ep Dinecessitavvirtù, cinque pezzi che raccontano l’arte di arrangiarsi sfruttando il poco che si possiede nella vita, insomma, racconti di vita quotidiana. La scuola cantautorale siciliana, come tutti avranno notato, vive un periodo di felicità impressionante, ormai (ma non è solo così) il musicista siciliano viene associato involontariamente al cantautore. La produzione artistica dell’Ep in questione è affidata a Fabio Rizzo dell’etichetta 800A Records, quella di Pan Del Diavolo, Black Eye Dog, VeneziA e tanti altri di cui vi lascio il piacere della scoperta. “Bomboletta Spray” apre il supporto con un ritmo incalzante e travolgente, il brano più importante per il cantautore/sociologo Francesco Vannini. Deve molto alla fragranza del pezzo, il cantato non arriva mai all’eccelso, ma i cantautori sono sempre così. “I Treni” si presenta con l’opposta emotività della precedente, in questo caso la tristezza prende il sopravvento, un ribaltamento emotivo spiazza la mia condizione di ascolto. Però ci provo gusto, in fondo le canzoni tristi sono sempre le più belle, sono quelle che ci fanno viaggiare con la mente: “I treni ormai non li conto più, e ho smesso di pensare se non mi pensi”. Tanta scuola cantautorale classica italiana nei testi, tante atmosfere tipicamente nord europee nella musica.
Arriviamo alla title track “Dinecessitavvirtù”, il cuore dell’Ep. Ancora una volta si cambia completamente registro, i riff diventano quasi caraibici, o meglio, isolani. La voce ed il testo riescono a reggere l’attenzione perfettamente, il quadro generale della canzone è più che positivo nonostante qualche piccola scopiazzata vocale ad Edoardo Bennato. Ma niente di serio, forse soltanto inutili sensazioni. Da piccolo brivido “Soltanto una Canzone”, sarà quel bellissimo pianoforte che sembra essere messo a raccogliere lacrime, un brano che scava il cuore. Antonio DiMartino dietro l’angolo guarda soddisfatto l’evoluzione della sua lezione artistica nonostante come potenza siamo ad altri livelli. Si continua sulla stessa linea con “Un Uomo Qualunque”, meno strappa lacrime ma con un armonica fantastica, la voce nella migliore performance dell’intero Ep. Si piange e si ride durante l’ascolto de Dinecessitavvirtù, Francesco Vannini dimostra di avere le carte in regola per entrare a far parte della schiera dei musicisti siciliani che contano. Con un Ep purtroppo non è possibile leggere il futuro artistico di Vannini, aspettiamo l’album ufficiale e se il buongiorno si vede dal mattino… ci aspetta una giornata di sole.