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Elle – Nowherebut Here

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Quando ho iniziato ad ascoltare Nowherebut Here, ho pensato per un attimo di trovarmi di fronte alla nuova Joan Baez o al clone italiano di Edie Brickell, ma in realtà Elle si è dimostrata agli stessi livelli delle sue colleghe estere. Il motivo? Passare dal cantautorato Pop di “Berlin” alla più movimentata e gradevole “Let me be Your Eyes” (primo singolo dell’album) chiarisce subito la poliedrica direzione sonora del disco. Poche voci femminili riescono ad arrivare come una freccia nell’anima di ognuno di noi, ed Elle è talmente dotata che rimarrete estasiati dai suoi acuti.

Grazie al “casuale” incontro con il produttore Flavio Zampa, dopo anni di salite e discese, andate e ritorni, e forti esperienze, arrivano i nove brani inclusi in Nowherebut Here, che racchiudono un po’ ciò che è stato il suo viaggio, interiore ed esteriore, di vita artistica e non solo. Nowherebut Here, che può essere considerato il suo primo lavoro, è carico di energia e passione frutto di anni di esperienze che segna solo l’inizio di un nuovo ed emozionante capitolo del libro della vita di Elle, da cui ci aspettiamo molto nel futuro. Il talento c’è e lo si vede (anzi lo si sente), e con la giusta promozione questo album può anche mirare in alto. “Lover” ricorda infatti un po’ lo stile della compianta e mai dimenticata Whitney Houston e della nostrana Giorgia e proprio l’amore a fare da filo conduttore delle successive “Nowherebut Here” e “Killing my Love”. In quest’ultima addirittura sembra di sentire al piano Miss Germanotta, in arte Lady Gaga, artista sempre al centro delle cronache e dei gossip mondiali. Il disco scorre piacevolmente con il soft Rock di “A New Life” e la più movimentata “She’s Alone” per concludersi poi con la (quasi) acustica ballad “A Lie” e con la introspettiva “Enlightens”. Sicuramente il disco si presterà più facilmente ad un successo oltralpe, ma auguro ad Elle di diventare famosa anche qui in Italia perché era dai tempi di Pipes And Flowers di Elisa che non si sentiva un esordio così bello nel nostro paese.

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Max Navarro in studio per il nuovo album.

Written by Senza categoria

Max Navarro è pronto a tornare con un nuovo album. A darne notizia è stato lo stesso rocker italo-canadese con un messaggio ai fans lasciato sul suo profilo facebook. Nove nuove tracce che andranno a confluire nel suo quarto album ufficiale di cui ancora non si conosce il titolo, e che vedrà la luce verso la fine dell’anno o ad inizio 2015 per l’etichetta Cherry Lips Records. Molti i cambiamenti a livello di line-up rispetto al passato con l’uscita dalla band del batterista Simone Morettin – passato agli Elvenking – e del bassista Jack Novell, rimpiazzati rispettivamente da Alex Parpinel e Danny Pollìci. Al fianco di Navarro sono invece rimasti il chitarrista John Paul Bellucci e il produttore Nick Mayer.

Abbiamo ultimato la pre-produzione lo scorso gennaio, ma ci siamo presi un paio di mesi per lasciar sedimentare alcune idee – commenta Navarro -. Sarà un album meno ruvido rispetto al precedente “Hard Times”, ma non per questo meno rock. Quello era un disco arrabbiato, questo lo definirei più distaccato: non che il mondo negli ultimi due anni sia cambiato in meglio, anzi; forse sono semplicemente io che cerco di guardarlo con maggiore serenità”.

Per le registrazioni Navarro ha scelto l’Italia, affidandosi all’Angel’s Wings Studio di Nico Odorico: “In Italia ci sono ottimi professionisti, e non è necessario guardare per forza all’estero. Con Nico c’è grande sintonia. Avevamo lavorato assieme anche negli ultimi due album, ma solo per i mixaggi. Ora invece ho deciso di affidargli interamente le chiavi del disco. Un motivo in più per aspettarsi grandi cose”.

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Gasparazzo, un live per la Resistenza

Written by Live Report

Sabato 12 aprile 2014 presso il Teatro Nuovo di Teramo si è esibita la band emiliana dei Gasparazzo. Si tratta, in realtà, di un ritorno a casa per due dei membri della band, Generoso Pierascenzi (chitarra) e Alessandro Caporossi (voce) in quanto originari del capoluogo, e in generale per il sodalizio emiliano-abruzzese, che si esibisce con una certa frequenza nella provincia teramana. I Gasparazzo si sono presentati al pubblico con un nuovo disco prossimamente in uscita, (“Mò Mò”) e una band rinnovata rispetto alla formazione del precedente lavoro; cambio di bassista con il contrabbassista pescarese Roberto Salario (che sostituisce Marco Tirelli) ed entrata in pianta stabile di una vecchia conoscenza per il gruppo: il fisarmonicista reggio-salernitano Giancarlo Corcillo; è stata confermata, inoltre, la presenza del batterista emiliano Lorenzo Lusvardi, una certezza imprescindibile per la band.

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Il concerto ha avuto luogo in un ambiente molto raccolto, impreziosito da immagini tratte da grandi film del passato e da una scenografia minimale: numeroso e caldo il pubblico che vi ha partecipato. Lo spettacolo ha avuto un carattere per lo più acustico componendosi di soli contrabbasso, chitarra acustica, batteria e fisarmonica, oltre al kazoo e a percussioni varie, nel quale i cinque hanno dato sfoggio per l’ennesima volta della loro grande versatilità e padronanza tecnica. Nella prima parte i Gasparazzo hanno ripercorso il loro grande impegno civile ed artistico vicino alle istanze della Resistenza, quasi epiche ormai, attraverso canzoni come “Campazzo”, “Le Staffette”, “Rosso Albero” e un superba versione di “Villa Emma”, dove emergono, come rocce millenarie dal terreno, storie di eroismo quotidiano che hanno avuto come scenario l’Appennino e la pianura emiliana, e come sottofondo esistenziale ideali di fratellanza e tensioni utopiche.

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Nella seconda parte invece si è preferito dare largo spazio ad alcuni brani del nuovo disco (“Centopelle”, “Michelazzo” e “La Tromba di Eustachio”) con l’inframezzo di un rapido excursus nel recente passato (“Obiettivo Sensibile”) e un deciso tuffo nel primo album (“Siesta”, “El Loco”, “Mesci ddo Tazze e Rulla nu Truzz”, “La Margherita dell’Amor”, “Lu Lupe”, “Solami”), nel grande entusiasmo generale. Il concerto e il nuovo lavoro sono un chiaro cambio di atmosfera e di direzione rispetto a quanto fatto precedentemente e manifestano un deciso ritorno al passato, verso le sonorità Folk Rock e i testi più densi di “Tiro di Classe”. Un consiglio: se vi capita, non perdetevi la perfomance della band, decisamente di grande spessore e sicuramente la dimensione nella quale i Gasparazzo danno il meglio di loro stessi.

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Ronny Taylor – Dateci i Soldi

Written by Recensioni

Da quando il chitarrista solista della mia band, nonché compagno di liceo, mi passò ormai molti anni fa una cassetta con sopra scritto Joe Satriani pronunciandomelo come un Dio sceso in terra, il mio rapporto con il Rock strumentale ha subito avuto un rapporto difficoltoso. Virtuosismi a parte, il fastidio di non ritrovare parole e melodie vocali in un brano di 5 minuti scatenava in me noia e una leggera incazzatura nel riconoscere grandi riff sprecati in assoli che, benchè orecchiabili, risultavano di esagerata lunghezza. Facile dire che gli strumenti parlano il loro linguaggio. Io sono onesto con me stesso e mi tengo le mie tare mentali. E con questi pregiudizi attacco la recensione dei miei concittadini Ronny Taylor. La band nasce nel 2010 a Torino in mezzo ad altre realtà della zona (i ragazzi hanno militato in Oh No Its Pok, Into My Plastic Bones) che portano a mischiare sonorità e un bordello sempre sapientemente ammaestrato. Sprazzi di Funky, riff Heavy Metal vecchio stampo, synth e tastiere che aprono universi paralleli. Indubbiamente anche un cervello limitato come il mio non può che riconoscere già da subito una potenza inaudita in questo quartetto.

Copiano la copertina di Songs For the Deaf dei Queens of the Stone Age e jammano come dei dannati in questa mezz’ora di musica pura e cruda che è il loro primo vero lavoro in studio: Dateci i Soldi. L’intro dal sapore demenziale introduce al Rock duro di “Power Rangers”. Il basso simula uno spietato senso di vertigine mentre la chitarra macina licks e assolazzi (anche questi molto orecchiabili) senza mai scadere nella trappola del tecnicismo. Il perfetto incastro degli strumenti si ripete in “1945”. Le atmosfere si dilatano in un perfetto viaggio che nulla ha da invidiare agli anni d’oro del Progressive. Stortissima è invece “Clouds” con in mezzo anche un piccolo pseudo-rap che fitta benissimo con le ritmiche serrate dell’instancabile Mario Rossi. Non mancano ironia, fantasia e (senza farne abuso) tecnica. Sopra tutto però sta una nutrita dose di follia che porta a scrivere un brano come “My Chemical Orecchioni”. La follia non si ferma al bizzarro titolo ma fa sfociare un giro di basso funkeggiante in un assolo di tastiere che ricorda il compianto John Lord e le sue magie tra Classica e Blues. Per chiuedere il pezzo in bellezza, la chitarra di Giuseppe Franco si infila con un epico assolo. No, la mia tara rimane sconfitta. Siamo al sesto brano e la noia qui non riesco proprio a percepirla. Forse perché questa è una vera band e sa suonare live, anche su disco. Senza scadere in artefatti o in produzioni esagerate, solo quattro ragazzi bravissimi col loro strumento che suonano ore e ore in sala prove e escono con pezzi che li fanno divertire e che divertono (stranamente) pure l’ascoltatore in questione. Sinceramente, date le mie tragiche premesse, non potevo proprio aspettarmi di meglio.

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MOOSTROO – MOOSTROO

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I MOOSTROO sono senz’altro una scoperta interessante. Non certo al primo ascolto, questo no: non colpiscono immediatamente, ma fatti passare da un labirinto d’assimilazione, un intestino d’attenzione, per così dire, ecco allora che vengono digeriti e la luce che li colpisce forma l’ombra che andremo a leggere. I MOOSTROO sono in tre, sono di Bergamo e suonano strani, dagli strumenti (“silent-guitar classica distorta, alternanza con basso a due corde”…) al timbro della voce, che già nel suono è sussurro provinciale, discorso ironico da bar con avventori più accorti di quanto possa sembrare. Il disco scorre tra ballate di una canzone d’autore (“Valzerino di Provincia”) che non ha paura di sporcarsi, di rotolarsi nel fango (In sterco veritas! è il loro motto), fino ad arrivare a piacevoli commistioni di Rock e Folk (“LPS”, con quel bellissimo riff, quel sapore alla CSI…), o a costruzioni ritmiche che strizzano l’occhio a panorami più contemporanei (“Silvano Pistola”).

Sono sporchi, questi mostri; brutti, sporchi e cattivi; ma sono il nostro specchio, che ci fa le smorfie e ride della sua ironia e della nostra incomprensione. I MOOSTROO si nascondono, si coprono di fango e feci per dissimulare il loro acume pungente, il loro ghigno beffardo. Sono irriverenti, ma sensibili, di una durezza smussata, di una semplicità che è camuffamento. Sono come dovrebbero essere gli Zen Circus. Certo, possono non piacere, soprattutto ad un certo pubblico che dal cantautorato vorrebbe l’elevazione e poco sopporta il rivoltarsi tra le frattaglie (ahimè, io stesso storco il naso su un brano come “Il Prezzo del Maiale”). C’è da capire che però ogni tentativo “altro” è meglio che la ripetizione di schemi già abusati. Quindi ben vengano i MOOSTROO e la loro finta sporcizia, che possano perlomeno insegnarci che i punti d’incontro tra la ruvidezza del Rock e l’eloquenza della canzone d’autore sono, davvero, infiniti.

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Antonio Allegro – Black Tuff

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“Panta Rei”. Tutto scorre. È questa la traccia iniziale, l’incipit di Black Tuff, il primo album del musicista e compositore Antonio Allegro; un concept che narra i primi trent’anni di vita dell’artista. “Panta Rei”. Tutto scorre. È impossibile non tornare con la mente ai tempi del Liceo, quando la teoria del Divenire di Eraclito mi faceva riflettere sul continuo e perpetuo mutamento delle cose, del loro perenne nascere e morire. Sarà questo moto perpetuo a condurmi verso la scoperta della vita di un uomo, del quale non so nulla, e del quale dovrei sapere molte cose arrivata alla fine dell’ascolto? Racchiudere trent’anni di vita in un disco, lo ammetto, mi sembra un progetto alquanto ambizioso, ma intrigante allo stesso tempo. Lascio il freno della ragione, accelero con l’immaginazione e premo play.

Una chitarra sinuosa che pizzica a tratti le note del Blues, mentre scrosci d’acqua e percussioni le fanno da sottofondo: è questa “Panta Rei”, il vagito iniziale del disco, un’introduzione strumentale che dice già molto sulla qualità di ciò che sto per ascoltare. È da qui che ha origine tutto. Il vagito si trasforma subito in voce possente con “Madness of Metropolis”, pazza come il titolo che si porta dietro, come la metropoli che descrive; è qui che si alternano momenti di lentezza e malinconia Blues a lunghi assoli estremi e deliranti.  Le tonalità Blues si perdono nella violenza emotiva di  “Violence is Cold” che si apre ad un Rock più duro al quale però non riesce a stare dietro con la voce, decisamente più adatta per altre sonorità, come quella di “Like a Jewel”, perfetta negli arrangiamenti e nella melodia malinconica, estremizzata da assoli di chitarra struggenti. “Goodbye” è leggera, come l’ arrivederci di chi parte in punta di piedi per non fare rumore e sente già la mancanza di ciò che ha lasciato dopo il primo passo; è il sassofono che stavolta  entra in campo a dar voce a questa tristezza. Sembra esser questo il sentimento prevalente nel disco (e nella vita di Allegro) a partire da questo momento; in “Come Down” si arrivano a sfiorare sonorità Jazz, mentre un senso di confusione e frustrazione sono accentuati in “I’m Not Here”, dove il suono si frammenta in irregolarità deliranti. “In or Out”, strumentale, è invece di passaggio tra l’inquietudine dei pezzi precedenti e la serenità di “She Saved Me”, ballata d’amore per chitarra e voce, segno di una ritrovata felicità. “Punchinello’s Moonlight”, il chiaro di luna di Pulcinella, è il pezzo strumentale che chiude l’album, o che comincia una nuova storia, in virtù di quella famosa teoria del Divenire, del nascere e morire, per poi magari rinascere ancora.

È stato interessante viaggiare nella musica e nella vita di Antonio Allegro. A volte è stato semplice entrare nei suoi stati d’animo, a volte un po’ meno; sempre e comunque ho trovato una chitarra come valida compagna durante questo percorso. Credo sia la stessa che abbia accompagnato lui durante il suo.

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Levante – Manuale Distruzione

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Io non so cosa spinga Levante a scrivere canzoni, ma soprattutto io non ho proprio mai neanche parlato con Levante. Non ho la minima idea di che persona sia. Non so come mai abbia intrapreso la difficile e coraggiosa via della cantautrice con tanto di chitarra in spalla. Non so che abitudini abbia, ne tantomeno che stile di vita intraprenda. Ma ascoltando il suo Manuale Distruzione riesco facilmente ad sentire il fuoco che brucia dentro a questa ragazza. Mi sento di dire che le sue canzoni sono così personali, così vere e così aperte, che è impossibile non plasmare una forma mentre le si ascolta. Si “ascoltare” non “sentire”. Andiamo oltre lo sfrenato successo di “Alfonso” e la sua “vita di merda”, ma non schiviamolo, osserviamolo da vicino. Levante si apre e ci fa guardare dentro, senza filtri. Con purezza e umanità. Ma pure con parecchia autoironia. Doti molto rare nel mondo della canzone italiana. Claudia Lagona (classe 1987, catanese trapiantata a Torino) è al suo esordio discografico. E l’entusiasmo con cui sta vivendo questo momento è trascinante. Tanto da esaltare e rendere unico un disco che ha le sue contraddizioni e i suoi punti di debolezza. Ma la debolezza è arma a doppio taglio e se l’inizio scarno di “Non Stai Bene” può apparire come puro esercizio di stile vocale (e la ragazza la voce ce l’ha di brutto!), nasconde in realtà un ritornello che cattura ascolto dopo ascolto e un testo di una disarmante intimità, che conserva la bellezza di chi ancora scrive a getto. La fine del brano di apertura pare accompagnare l’inizio del secondo episodio. “Cuori D’artificio” non è una canzone d’amore, ma molto di più. E’ una canzone sull’amore. Una vera bomba Pop, con l’attitudine di chi il Rock’n’roll lo mastica ad ogni occasione. La produzione di Alberto Bianco è sorniona, vince nelle dinamiche e in suoni che esaltano la splendida voce di Claudia, intrecciata tra chitarre e ritmiche patinate al punto giusto.


“Le Margherite Sono Salve”, “Come Quando Fuori Piove” e “Nuvola” sono brani sicuramente minori, che però colorano il disco evitando che sia semplicemente un concentrato di pezzoni spacca classifica. E mostrano sempre più sfaccettature del personaggio Levante, che comunque non perde di intensità anche nelle canzoni meno brillanti. Capitolo a parte proprio per i singoloni. “Alfonso” e “Memo” dominano incontrastati, produzioni sopraffine e canzoni che ti entrano in tutti i pori e a volte provocano persino fastidio per quanto sia difficile liberarsene. “Sbadiglio” risulta invece più pilotata, ma dalla disarmante quotidianità. Il finale è affidato a “La Scatola Blu” (per me anche questo merita un posto tra i pezzi di punta), ballata da brividi per sola chitarra e voce. La ragazza non si chiude fino all’ultima nota e la sua onestà è spiazzante. “Vendo Vento alla Gente. Oltre Te, Tutto e Niente”. La bravura di Claudia nello scrivere pezzi orecchiabili e accattivanti è indiscussa. E oltre a questo c’è molto di più: mettersi in gioco mostrando tutto è sintomo di grande determinazione e di strabordante passione. Sebbene Manuale Distruzione non sia un disco memorabile è un disco che si fa toccare con mano, e per questo piace. A me e credo a molti altri. Piacere è una grande dote ed un grande merito. Come diceva la mia saggia prof di Italiano al Liceo: “se sapessi scrivere romanzi come Susanna Tamaro, non sarei qui ad insegnare Leopardi a dei caproni come voi”.

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Fragil Vida – Papà Ha Detto che la Vostra Musica è Schifosa

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Quindici anni di carriera sono tanti e i Fragil Vida lo sanno benissimo, arrivare al quinto disco in studio e sentirsi freschi come agli albori purtroppo non è roba da tutti. Provano a (ri)conquistare il pubblico con Papà Ha Detto che la Vostra Musica è Schifosa, quindici canzoni cantautorali/teatrali troppo poco convincenti con soluzioni cercate un tantino ovunque e comunque sia poca bellezza ad illuminare il disco. Il cantautorato moderno nella sua forma più classica e pessimistica, la vita quotidiana sempre musa ispiratrice dei testi e il malcontento generale raccontato in ogni salsa. Come se ancora non ci fossimo resi conto del mondo di merda che ci troviamo a vivere. Si potrebbe vivere meglio? Bene, parliamone. Disco che prende spunto dalla catastrofica situazione del terremoto emiliano del 2012, su questo sono convinto di essere dalla loro parte soprattutto perchè tre anni prima la terra è tremata in maniera devastante anche sotto il mio culo, e soltanto chi vive certe orrende situazioni è capace di percepire delicate sensazioni. La maggior parte delle volte indescrivibili. I Fragil Vida sono una band che dovrebbe esibirsi soltanto nei live e lasciare stare i dischi (è impossibile ma sarebbe il paradiso per loro), la loro fama nei live distacca di molto il lavoro in studio, nati per calcare i palcoscenici.

Papà Ha Detto che la Vostra Musica è Schifosa rimane semplicemente ben suonato ma di una fermezza emotiva impressionante, niente che possa rimanere inciso, una bella canzone di cui non ricorderai niente. “Amico Due Punto Zero” suona gitana e senza freni, irriverente e provocatoria, una realtà terrificante. Il pezzo è uscito come primo singolo dell’album. In “La Storia di Mustafa” sentori di cantautorato italiano alla Lorenzo Cherubini, molta intimità. E su questo stile prosegue il disco, tanto cantautorato come punto di forza, il culmine esotico si raggiunge in “Ci Hai Lasciati i Soldi”. Le melodie non sono affatto semplici e scontate, anzi, molto singolare e interessante l’arrangiamento della circense “Zoppo di Madre”, sembra suonata da quaranta elementi. Niente male. Simpatia da vendere nella napoletana “Siamo Sempre in Giro”. Musicalmente niente da dire, tanto Funky e frammenti di Jazz, Rock leggero e cantautorato come non ci fosse un domani. Papà Ha Detto che la Vostra Musica è Schifosa non disdegna certo le mie giornate, non esulto di gioia ma neanche mi tappo le orecchie dal peccato. I Fragil Vida sono degli artisti con la A maiuscola e su questo ho già detto mille volte che non ci piove, tecnicamente impeccabili e dalle simpatiche soluzioni musicali. Ma questo disco non riesce a cogliere nel segno, non riesco a trovare una giusta collocazione per quello che ascolto, bello ma niente di eccezionale. Rimaniamo sul fatto che le live performance hanno tutt’altro impatto per i Fragil Vida e che questo disco è solo un piccolo e misero antipasto rispetto a tutte le altre portate che prevede la cena. I Fragil Vida sono bravi ma questo lavoro non entusiasma veramente nessuno. Peccato, il quinto disco non è mai facile per nessuno.

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Laika Vendetta – Elefanti in Fuga

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Nuovo disco per i Laika Vendetta, Elefanti in Fuga racchiude rabbia e maestosa potenza, la voglia di non accettare il presente sbattuto in faccia dalle impetuose chitarre. Non è facile lasciarsi tartassare lo stomaco, un pugno dietro l’altro, sentori di Hard Rock anticipano sensoriali atmosfere Stoner. Il Rock bello deve picchiare duro nella sostanza ma soprattutto nella forma, i Laika Vendetta spiegano minuziosamente la loro lezione di “ribellione”. Apertura dura con “L’Ineluttabile”, Alt Rock tipicamente italiano, il sapore degli anni novanta sulla bocca, il pezzo tira dritto com’è giusto che sia. Niente di riscaldato nella mia minestra, il forte dissenso espresso nel testo (testi in italiano) viaggia perfettamente in armonia con la mia moderna visione della vita. Dire condizione di vita di merda è fare complimenti. Intima ed arpeggiata la successiva “Milano Roma”, il brano cresce quasi subito, dolce violenza. I suoni non sono freschi ma l’apporto delle dure chitarre rimedia una situazione d’avanguardia non troppo presente. Avete presente i chitarroni dei One Dimensional Man quando erano ancora vivi? Subito cattiveria in “La Sposa di Fango” (ispirata all’omonimo racconto di Emidio De Berardinis), l’aria si mantiene pesante per tutta la durata del pezzo. Perché se non è ancora chiaro i Laika Vendetta picchiano decisamente forte e gridano disagio senza precauzione. Ho sentito il fiato di Cristiano Godano nella morbida (per quanto possa esserlo) “Inverno Estate”, sarà l’impressione ma qualcosa mi ha portato direttamente verso quella direzione. Ho apprezzato incondizionatamente il suono del basso, diamante grezzo dell’intero brano. “Labile” parte benissimo e qui il titolo stesso riporta ai MK più vecchi e credibili possibile, non trovo entusiasmo e lascio scivolare senza pretese. Sarà quell’attaccamento così conformato alla scuola alternativa italiana, sarà che per sentirsi vivi serve ben altra roba. Ecco “Elefanti in Fuga”, un pezzo scritto di pancia, armonie Progressive e razionalità da vendere.

I Laika Vendetta per la prima volta durante il disco riescono ad osare con successo. Ballatona d’amore violento, sentimento e follia, è il momento di “Samsara”, il ciclo della vita, della morte e della rinascita. Non c’è niente da fare, la parte migliore di questa band è l’espressione della potenza, in “Samba Generazionale” tutto questo viene fuori nonostante il passo non presenti esagerate vocazioni compositive. C’è chi nasce per fare bordello. Il disco si lascia condurre fino alla fine, la chiusura affidata ad una melanconica “Kali allo Specchio” rilassa i nervi tenuti sotto tensione per l’intera durata del disco. Immaginate davvero degli elefanti in fuga, pensate al frastuono prodotto, al caos generato, alla disperazione. Ecco cosa si prova dopo avere ascoltato questo lavoro. Tante cose belle e pochissime brutte, i Laika Vendetta ti entrano bastardi nelle viscere e non sarebbe affatto male lasciarsi prendere. Non hanno niente da invidiare a tante super affermate band nostrane, Elefanti in Fuga mantiene viva la tradizione dell’Alt Rock italiano. Guardatevi intorno e trovate di meglio se riuscite a farlo.

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A Maggio il nuovo disco dei Peter Punk

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I Peter Punk, uno dei gruppi più amati del Punk Rock italiano, è tornato più in forma che mai!
Dopo dieci anni l’attesa è finita e la band è già in studio per registrare un nuovo album che al momento prevede 14 tracce. “Il materiale nuovo ci piace moltissimo”, dice il cantante Nicolò.
“Eravamo tutti dubbiosi del rientro in studio, ma il feeling è rimasto e le cose sono subito andate al posto giusto. Sarà un disco nello stile Peter Punk, però in dieci anni cambiano molte cose e questo sul disco si sente indubbiamente”. La band registrerà presso gli studi di registrazione Officine Underground di Montebelluna e avranno l’onore di essere assistiti da un professionista del calibro di Ryan Greene, noto produttore americano che ha lavorato con artisti come Jay-Z, NOFX, Usher, Lita Ford, Strung Out, Megadeth e molti altri. A seguito dell’uscita del disco che si prevede per inizio Maggio sotto catalogo La Grande V Records, la band inizierà un tour di promozione del disco di cui a breve saranno annunciate le prime date.

Un video di qualche tempo fa.
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Midlake live in Italia

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Arrivano dal Texas sabato 8 marzo i Midlake per presentare il loro sound a cavallo tra Fairport Convention e Rock anni ’70. I cinque musicisti si esibiranno al Tunnel di Milano per presentare i brani del loro nuovo disco Antiphon, uscito lo scorso novembre. Biglietti disponibili su TicketOne a partire da 15€.

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Stereoscrash Mode: nuovo esordio italiano

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Riceviamo e pubblichiamo:

StereoScrash Mode è la prima fatica discografica dell’omonima band pugliese. Il disco edito Loud Sparks, è stato prodotto e arrangiato da Enrico Cacace autore e compositore di numerose colonne sonore per i film di Hollywood, attualmente unico italiano in nomination per i Trailers Music Awards (colonna sonora di “Gran Torino” di Cleant Eastwood nonché autore di musiche per i Simpson, del trailer di “Harry Potter”,..). Il disco, che prende il nome della Band italiana Stereoscrash Mode, è stato mixato presso il Rusk Studios di Los Angeles da Masaki Saito (ingegnere del suono di Elton John, Billy Idol, Donna Summer, Britney Spears ed altri) e masterizzato presso lo Stone Bridge di Memphis (B.B. King, Eric Clapton ed altri). Il disco in uscita vanta anche la collaborazione del noto chitarrista americano Brent Woods (già collaboratore e arrangiatore di Led Zeppelin, Kiss, Motley Crue) il quale ha registrato alcune parti di chitarra presenti nell’album. Stereoscrash mode nasce dall’idea di uno stereo rotto, in frantumi, da qui l’unione della parola stereo e del suono onomatopeico scrash. Allo stesso tempo il nome della band nasconde una rottura con gli stereotipi della musica italiana. La band ha infatti realizzato un connubio tra la musica rock e le atmosfere e sonorità cinematiche, ideando, grazie all’esperienza e professionalità di Enrico Cacace: il CINEMATICROCK!

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