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Le Choix – Finchè Vita Non Ci Separi

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Testi ben pesati e Rock italiano. La formula è già trita e ritrita, ma siccome di matematica non si parla, entra in gioco il colore. E il calore. Le Choix non sono di certo una band che punta all’innovazione, ma non fa nemmeno del calore la loro arma migliore. Gli undici brani di Finchè Vita Non ci Separi risultano tiepidi, frutto forse della produzione non troppo pompata o probabilmente del piglio non propriamente aggressivo che il gruppo abruzzese fornisce al suo sound. Le chitarre, sebbene ben incastrate tra di loro, sono lontane anni luce da un qualsiasi tipo di groove, mentre basso e batteria fanno il minimo sindacale per accompagnare tutte le canzoni comodamente al termine. Insomma non solo manca il rischio, manca anche la convinzione di prendere la strada sicura. Il disco in questione si fa comunque ascoltare, resta tiepido ma non insipido. A tratti ripetitivo e ostinato su sonorità e mood esageratamente scontati, spesso appesantiti dalla voce di Fabio Neri, che risulta rigida e poco fluica. Il ragazzo sprizza grande tecnica ma a volte capita di cadere nella trappola e, senza troppe forzature, viene da avvicinarlo a Piero Pelù.

Spezzando una lancia a favore del cantante, c’è da dire che i testi vengono sempre interpretati con emotività e Fabio pare cantare con tutto il corpo. Sprazzi di calore. Anche fermandoci sulle canzoni si rimane purtroppo spesso in uno stato di stallo. L’inizio di “Innesco di Fato” sembra rubato dagli Afterhours di “Piccole Iene” per poi sprigionare un ritornello più hard e diretto. Gli arpeggi di chitarra cercano sinuosità ma risultano spigolosi e arenati dentro una formula troppo rigida. “Pioggia di Luglio” cerca soluzioni ritmiche più complesse ma non muove di molto l’atmosfera, mentre il singolo “Orchidea” è sicuramente una canzone più radiofonica, sebbene pare perdere la brillantezza mostrata nei testi dei primi due brani. La ballata è dietro l’angolo, ce la aspettiamo, e infatti eccola servita in “Io Resto Qui” dove le chitarre sembrano finalmente rendere giustizia tra note lente e alte (ora taglienti!) e una ritmica che resta semplice ma calza a pennello. Parole a puntino, con tanto di finale narrato ma che non sbrodola in teatralità. Un brano degno di nota e ciò che a mio parere porta a sbilanciare il disco verso la sufficienza. Il resto dell’album invece tocca più le corde della noia che dell’entusiasmo, “Politikani” è un azzardo mal riuscito con un’accozzaglia di sentenze di personaggi politici in mezzo. Pure l’altra ballata “Segreto”, non acchiappa se non per il testo intenso e intelligente. L’impressione è che fosse stato un EP e si fosse puntato ad arrangiamenti più vari in meno brani, forse sarebbe uscito un lavoro più variopinto e meno monotono. La fatica e il sudore si sentono e sono presenti, per fortuna almeno l’onestà del progetto è viva e vegeta. Manca la fantasia, e poi quella spinta che ti fa vibrare le ossa.

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The Divinos – The Divino Code

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The Divino Code prende le mosse da una singolare e temeraria intuizione del frontman/songwriter partenopeo Max Russo (chitarra acustica/voce), accompagnato per l’occasione da una compagine di indubbio talento e provata versatilità: Chiazzetta a.k.a. Corpus Tristi (Rap vocalist), Roberto Pirami (batteria/programmazione elettronica: Vinnie Moore, Michael Angelo Batio, Uli Jon Roth, Blaze Bayley), Simone Massimi (contrabbasso elettrico: Vinnie Moore), Marco Bartoccioni (chitarra southern/mandolino) ed infine Licia Missori (pianoforte acustico: Steve Hewitt, Spiral 69). Il concept in questione narra le fantomatiche vicissitudini della sgangherata famiglia Divino (un infelice alter ego dei celeberrimi Sopranos?), attraverso un insolito itinerario Noir/Pulp/Western particolarmente intriso di ironia, drammaticità, tragicommedia. Cinematografia musicale (sulla scia di Tarantino, Rodriguez e Leone), indissolubile sinergia visiva/uditiva in cui vengono scarnificati e messi a nudo (in maniera piuttosto semplicistica e puerile) alcuni cliché tipici del famigerato sistema malavitoso italo/americano (“more power, more business, more women, more respect”), efficacemente evidenziati dalla peculiare contaminazione linguistica impiegata a livello semantico/testuale, come testimonia l’interessante rivisitazione della closing track “It’s Wonderful” (“Vieni Via Con Me”, Paolo Conte).

Detto questo, ammetto di non aver mai gradito i progetti di tal fattura, profondamente convinto che il linguaggio musicale debba essere, in un modo o nell’altro, veicolatore privilegiato ed assoluto di messaggi, emozioni, ricordi (positivi o negativi che siano), non impressionistica ed asettica rappresentazione di una qualche realtà immobile e precostituita. Apprezzabile, d’altro canto, l’innegabile spessore della proposta stilistica: una feconda e traboccante cornucopia espressiva dove convivono armoniosamente Classic/Southern Rock, Ballad (“Criminal’s Confession”), Opera, Musical (“You Have to Give Respect”), Rap (“The Divino Code”) ed Elettronica (“I Live Just for the Best”), il tutto cesellato da una produzione imponente ma troppo spesso incline alla saturazione e perciò fuori controllo. Da segnalare il videoclip del brano “Doll’s Amore” (secondo singolo in Europa ed U.S.A.), recentemente prodotto in territorio transalpino dalla prestigiosa Cité du Cinéma del regista francese Luc Besson.

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The Blacklies – Kendra

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Mi lasciano sempre un po’ perplessa quei film di Fantascienza dove gli esseri umani, sempre più cibernetici e tecnologici, presi da smanie di grandezza ed onnipotenza, finiscono per distruggere la Terra. È  quello che in realtà sta effettivamente succedendo, non sono paure del tutto infondate. Poi però penso che siamo in Italia, che non molto tempo fa ho letto su La Stampa: secondo gli ultimi dati diffusi da Eurostat nel 2013, più di un italiano su tre (il 34%) non ha mai usato Internet, (il risultato peggiore tra i 28 Paesi Ue dopo quelli registrati in Romania, Bulgaria e in Grecia), e ridimensiono la mia paura. Per altri millemila anni la tecnologia non si impossesserà di noi.

Dello stesso avviso non sembrano essere The Blacklies, che hanno incentrato il loro ultimo lavoro, un concept album dal titolo Kendra, tutto sulla questione di cui sopra. La storia si svolge nel 2024 ad Atlantis, una metropoli futuristica e super tecnologia, in un mondo sempre più schiavo della rete (chissà se è ancora schiavo di Facebook), dove l’accesso ai propri dati personali non avviene più tramite password ma solo attraverso il riconoscimento di impronte digitali. In questo scenario di decadenza da eccesso di tecnologia si inserisce la storia dell’haker Leonard Spitfire, che riesce a mettere a punto un diabolico virus che chiama Kendra, come il nome della donna che ama e che però gli mette anche le corna; a quanto pare questa enorme piaga sociale continuerà ad esistere anche nel 2024, fatevene una ragione. Kendra, che in principio era stato pensato come un modo per poter migliorare la vita delle persone (come un moderno Robin Hood, Leonard pensava di poter prelevare il denaro dai conti correnti dei ricchi per metterlo in quello dei poveri) diventa in realtà motivo di malcontento e sommosse popolari, e si trasforma in un’arma di distruzione di massa; in poche parole i ricchi continueranno ad essere ancora più ricchi anche nel 2024, e chi si impossessa del potere, anche se all’inizio è mosso dalle migliori intenzioni, continuerà a creare caos e malcontento, proprio come oggi. Fatevene una ragione anche stavolta.

Tuttavia qualcosa di nuovo accade: Leonard, afflitto dal rimorso per i danni arrecati, decide di distruggere Kendra per porvi qualche rimedio. È un elemento nuovo, soprattutto in Italia, quello di vedere un uomo di potere sedersi dalla parte del torto; questa si che è Fantascienza! Il povero Leonard tuttavia, deve fare i conti con René, suo amico e collega di malefatte, che invece non è affatto felice di abbandonare lo scettro del potere. Tra i due nasce un duello corpo a corpo, al termine del quale Leonard si scopre vincitore, ma qualcosa continua a non funzionare. Nonostante abbia vinto cade lo stesso a terra esanime, ed è là, in un finale degno di un copia-incolla dal celeberrimo Fight Club, che Leonard scopre di essere sempre stato anche il perfido René.

La musica che compone l’album è ben articolata e ben si sposa con gli scenari apocalittici e tecnologici sopra descritti; l’associazione ai Muse, ed in particolar modo a The 2nd Law è inevitabile (chi è stato ad uno dei loro ultimi concerti sa di cosa parlo). “K”, il virus che distrugge il Sistema dall’interno, apre l’album con effetti elettronici e si rivela subito essere l’introduzione a “Upon My Skin”, energica ed impattante: la presentazione di Leonard al mondo. “Higher” è una ballata dal forte trasporto emotivo che ti porta sempre più in alto, complice anche l’assolo sul finale. Il personaggio di René entra in scena sulle note di “Show Me the Way”, dove il ritmo torna ad essere incalzante, come in “He Was Driving Fast” dove, tuttavia si percepisce una maggiore inquietudine dettata dal risveglio della coscienza di Leonard per i danni arrecati. Con “Atlantis” i toni diventano decisamente più crepuscolari a seguito della scoperta della misteriosa doppia vita di Kendra. Con “Scarlet” l’irreparabile è ormai successo: la violenza del suono descrive appieno la violenza che si è ormai sprigionata per le strade di Atlantis, e non sarà l’urlo Remove The Virus di F.Thomas Ferretti, la voce potente dei The Blacklies, a poterla fermare. Occorrerà agire fisicamente, Leonard ne diventa consapevole in “Redrum”. “Duel” preannuncia l’epilogo della storia: è il duello corpo a corpo tra Leonard e René che avviene a colpi di chitarre, che in questo caso perdono di tono rispetto all’evento che rappresentano. Ritornano in perfetta sintonia con la storia invece “It’s Time to Make a Change”, inquietudine che esprime la consapevolezza di Leonard del suo sdoppiamento di personalità e “Photograph” che, accompagnata da un piano, si fa malinconica e disperata nel suo assolo finale. E’ la fotografia che ti appare quando apri gli occhi e prendi consapevolezza di ciò che sei davvero, e quello che vedi non ti piace per niente, ma ormai è troppo tardi per cambiare.

Una storia senza lieto fine, non particolarmente originale, ma narrata in un concept album ben strutturato e a mio parere dal forte valore artistico.

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Le Formiche – Figli di Nessuno

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Un disco Rock è sempre un disco Rock. Poi se una band si chiama Le Formiche il misticismo della parola Rock assume significati indefiniti. O meglio, Le Formiche suona come un nome indiscutibilmente anti trendy per una band attuale, a qualcuno potrebbe anche fare schifo ma per me è amore a prima vista. Poi leggo il comunicato stampa e scopro il segreto di questo nome, il cantante e presumo leader della band si chiama Giuseppe LaFormica. Noooo!!!!! Non è una (re)invenzione “originale” come pensavo! Sai quei gruppi italiani anni sessanta tipo I Camaleonti, I Corvi, I Dik Dik, I Delfini etc. Ok Le Formiche mi facevano pensare a questo. Il loro primo disco ufficiale esce sotto etichetta 800A Records e prende il nome di Figli di Nessuno. Le Formiche mettono da subito in evidenza l’abilità nel raccontare in musica i fatti e le storie dei quartieri difficili della loro città d’origine Palermo, dalle rapine alla vita in prigione passando per storie d’amore e voglia di riscatto. Un disco impegnato. Il vero Rock deve essere impegnato o quantomeno dovrebbe aprire gli occhi.

Figli di Nessuno si apre con “Non ho un Lavoro”, titolo perfettamente legato all’attuale situazione lavorativa nel Bel Paese. Rock classico dalle influenze Blues, niente di italiano a parte la voce da cantautore tipico tricolore. Infatti leggo che il mastering è stato affidato a JD Foster dei Montrose Studio di Richmond. Dicevo io, quindi non c’entrano niente con i Dik Dik, il sound è tutto american old style. Molto Country la succesiva “Storie da Prigione” pezzo simbolo della loro attività live nelle carceri, molto cantautorato alla Edoardo Bennato. Viene voglia di ballare sebbene il testo non lo consentirebbe. Figli di Nessuno scorre liscio senza intoppi nelle successive canzoni “Fortuna” e “Le Bombe”, sentori USA sempre in prima linea. Stranamente sento poco il contagio di Springsteen e questo per qualche anomala ragione mi rende sereno, un disco di Rock americano che non subisce le attitudini del Boss è roba da non credere. Però a pensarci bene qualcosina springsteeniana si sente in “Sam Cardinella”, testo scritto sopra una vera storia di un condannato a morte. Le Formiche capiscono bene la loro condizione di rockers fuori sede proponendo musica leggera e orecchiabile, consapevoli della semplicità del loro prodotto buttano nel disco pezzi satellite come “Mio Fratello”, “Occhio per Occhio” e “La Tristizza” (in dialetto). “Figli di Nessuno” il brano che chiude l’omonimo disco appare come una ballata intramontabile dalle atmosfere cupe, una chiusura poco allegra ma molto intima. Le Formiche dopo due precedenti demo arrivano alla maturità artistica con il petto pieno d’orgoglio, la passione per la musica non conosce generi, il loro album sicuramente fuori dal tempo è il manifesto di una generazione legata al passato che non accetta il futuro. Figli di Nessuno accontenterà quella fetta di persone nostalgiche amanti del Rock Made in USA. Chi dice che il Rock è morto?

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Virgo – L’Appuntamento

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Non è mai facile sposare uno stile Rock Blues potente con testi cantanti in lingua italiana. Ebbene con questa prima opera totalmente autoprodotta, i Virgo ci riescono positivamente. Nati nel 2008 con il nome Papataci arrivano ad oggi  con un diverso nome e qualche cambio di formazione, tra cui l’arrivo del cantante Daniele Perrino. Un sound d’ispirazione americana, duro ed avvolgente, fatto di chitarre elettriche  sempre in primo piano e da basso e batteria precisi e puntuali che dettano il tempo di una musica che dimostra come il Rock cantato in italiano non sia una semplice utopia od un semplice ricordo del passato. I testi delle canzoni si presentano semplici ma molto diretti, introspettivi e con sprazzi di esistenzialismo.

Elemento di non poco conto, per quanto riguarda la struttura dei testi, è la mancanza di particolari espedienti per incastrare frasi e parole il più “onomatopeiche” possibili (seppur in italiano ce ne siano ben poche, non abbiamo la facilità dell’inglese e su questo argomento potrebbe aprirsi un dibattito infinito tra rock italiano, all’italiana,  turco, esiste o no il rock non inglese etc etc.. lasciamo stare) per cercare di seguire il sound. C’è, poi, Daniele Perrino. Il cantante, già noto sulla scena nazionale per collaborazioni con Mario Biondi, dotato di una voce profonda ed intensa accompagna l’ascoltatore lungo tutto l’album in un percorso fatto di disagio, spesso malinconico, e rabbia. L’elettricità del Rock dei Virgo regala impeto e vigore senza mai perdere l’inquietudine dei toni oscuri che traspaiono dai testi, grazie proprio alle interpretazione ed alle doti canore del cantante.  Tra i pezzi più significativi da sottolineare la track d’apertura “Non ti Sogno Più”,  un brano ipnotico con un ottimo groove e tanta energia, la più esistenzialista dell’album “Il Tempo della Memoria” e “L’Appuntamento”, traccia che dà nome all’album, caratterizzata da un clima cupo fatto di nostalgiche chitarre acustiche e prepotenti sonorità elettriche dove la voce del singer si diverte giostrare tra alti e bassi.

Dieci le tracce totale di cui una soltanto in inglese “If It’s Love”, dove tra l’altro se la cavano egregiamente, e questo è un altro punto a  favore  del lavoro.  Un lavoro ben riuscito e da premiare, soprattutto per la personalità, con un buon voto e con tanti ascolti.

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The Box – The Box

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I The Box, in un solo anno di vita registrano il loro primo omonimo disco, un disco fresco nelle intenzioni ma dal sound forzatamente old school riadattato ai giorni nostri. Per loro stessa ammissione sono forti le influenze di mostri sacri come Alice in Chains, Nirvana e Foo Fighters, il Grunge classicone per intendersi meglio e questo sicuramente risulta positivo per la riuscita tecnica del disco. Le sonorità ultra consumate di questo genere non stravolgono più di tanto le intenzioni pacate di un ascoltatore medio. L’impatto è violento perché a ogni modo i pezzi sono tirati tantissimo. Non si muore certamente di noia durante l’ascolto di The Box.  Non si muore di noia neanche durante la visione del film di Richard Kelly da cui penso la band si sia ispirata. Almeno credo perché reperire notizie sul gruppo non è roba facile se non fosse per un profilo facebook da cui riesco a capire qualcosa. Ma tanto a noi interessa la musica, le informazioni non sono (per forza) necessarie. “Silence” apre il supporto in maniera proponibile, con le chitarre spezzate alla Placebo e la voce che si spacca il culo per alzare forte il pezzo.  Molto emozionale e teenager style il finale portato al galoppo dalle chitarre inesauribili.  Prima parlavamo delle influenze dei Nirvana che tornano prepotenti e invadenti soprattutto in “Trains” (linee vocali) e “Hypno-Love” dove la mente consiglia subito la nirvaniana “Dumb”. Ma non parliamo di plagio, solamente di forti ricordi. Rock melodico in “Regaining Mood”, quasi un pezzo sdolcinato anni Novanta. L’effetto è comunque positivo; voglia di amare.

Il disco inizia a scaldarsi mantenendo sempre un atteggiamento Grunge, la batteria picchia forte accompagnata da un basso martellante in “Home”, le chitarre sterzano Stoner.  Le decisioni dei The Box sono sempre più chiare, il loro inno di battaglia grida Grunge Forever! Ma assolutamente non si accettano sperimentazioni, tutto deve rimanere incontaminato e maledettamente demodè, vietato allargare gli orizzonti. Ascoltare “W-Hole-Rdl” per rendersi conto delle finalità artistiche della band.  The Box trova una collocazione positiva nei miei ascolti ma tutto potrebbe finire improvvisamente, niente vuole ricordare questo disco, neanche una personalissima nota da parte della band. Come dire che The Box suona bene ma alla fine cosa ci rimane? Tutto sembra già stato proposto e riproposto fino allo svenimento, manca d’inventiva e sinceramente un esordio discografico dovrebbe avere ben altri scopi. Questo lavoro rimane ben suonato e confezionato ma lo stimolo decisivo viene a mancare proprio nel momento del bisogno. Un buon disco di Grunge classico e niente di più. Per stupire serve ben altro e credo in un prossimo riordino delle idee. Tutto sommato se non cercate niente di esclusivo questo disco potrebbe fare al caso vostro, bravi musicisti che al momento non vogliono osare. Kurt Cobain alive. E non è comunque poco.


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Mark Lanegan – Imitations

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Luogo di ascolto: in macchina nel tentativo disperato di incassare un assegno prima del fine settimana.

Umore: come di uno che sta per fare un fine settimana dispendioso.

Mark Lanegan è affetto da un morbo serio e debilitante, nel suo caso è stato colpito da poco e la malattia è solo ai primi stadi: l’ex vocalist degli Screaming Trees è malato della sindrome di Morgan. Già, quella malattia che nei periodi di magra creativa spinge l’ex leader di una band ben riuscita ad uscire con dei dischi di meravigliose canzoni di altri, o come fa figo chiamarle, cover. Certo nel caso di Morgan la malattia che giustamente porta il suo nome è ai massimi livelli, il suo personaggio televisivo oramai è diventato ipertrofico rispetto alla caratura di artista di cui oramai non si ricorda nemmeno un pezzo degno di nota ma molte acconciature di gran bizzarria. Torniamo a Lanegan, Imitations (il titolo è chiaramente esplicativo degli intenti con cui lo si è registrato, evidentemente) è un disco di cover a cui non si può voler male ma nemmeno dire un mondo di bene. L’occhio tra le dodici canzoni che compongono la tracklist mi è caduto subito sull’ultima, “Autumn Leaves” quindi l’ascolto ha seguito una strada piuttosto sghimbescia (per quelli che leggono Signorini, significa storta): era troppa la curiosità di sapere come sir Lanegan avesse affrontato il pezzo più interpretato del sistema solare, sconquassato da sbrodolamenti jazzistici per 40 anni, infangato con versioni in inglese tradotte a membro di segugio (per i lettori di Signorini: a cazzo di cane), deturpato con pronunce francesi improponibili da parte per lo più di inglesi che non sanno altre lingue e dicono agli italiani che non sanno cantare in inglese. Direi che con “Autumn Leaves”, date le premesse, Mark se l’è cavata abbastanza bene; nulla di più però di un buon pezzo riarrangiato in maniera da calcare finalmente il battere di ogni accordo come mi ero disabituato a sentire dopo decenni di spostamenti ritmici swing, con un bell’arrangiamento di archi e batteria in modalità spazzole.

Mark Lanegan penso sia l’unico al mondo, al pari di Johnny Cash, a potersi permettere di cantare a tonalità subumane, avere la presenza scenica della stele di Rosetta (per i lettori di Signorini, il gossip qui non c’entra, Rosetta non è mai entrata nella casa del grande fratello) e al tempo stesso rapirti dal vivo come se non ti trovassi più a casa tua o in un palazzetto dello sport. Quando ascolti la voce di Mark Lanegan la sabbia che al mare trovi nelle pieghe dei pantaloni diventa terra rossa del deserto del Mohave e il cellulare in tasca diventa una pistola nella fondina. Quando ascolti tutte quelle chitarre arpeggiate dal suono così antico e al tempo stesso così caldo pensi di aver sbagliato a nascere nel vecchio continente e ti bombardi il cervello di suggestioni cinematografiche. Imitations poi non è cantato male, anzi; Lanegan dimostra di essere anche un ottimo emissore di note medio alte, arricchendo la sua tavolozza vocale di sfumature che sinceramente non credevo ci fossero. “Brompton Oratory” è un pezzone, davvero azzeccata l’interpretazione e la cornice, “Mack the Knife” è troppo simpatica in veste Country con le acustiche a fare il contrappunto alla melodia della voce, “Elegie Funebre” invece sembra cantata invece che in francese in coreano tanto è brutta la pronuncia . Il disco non è malaccio, ma è sempre un disco di cover e per di più senza nemmeno rischiare tanto, lo vedrei bene come colonna sonora di Nashville, la nuova serie Sky sul Country, ma nulla di più. Da un popò di artista così è lecito e doveroso aspettarsi un disco solo quando ha materiale per farlo, mica deve pagare le bollette come Morgan.

Almeno spero.

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The Zen Circus – Canzoni Contro la Natura

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Cavalcare sempre la cresta dell’onda non è cosa semplice, soprattutto per una band ormai decennale e con sfracelli di dischi, progetti e collaborazioni alle spalle. Gli Zen Circus dopo un anno di silenzio volontario dedicato ad altre situazioni non mancano l’appuntamento discografico del duemilaquattordici (dove l’Indie italiano d’èlite sput(a)erà dischi a ripetizione) partecipando alla fiera delle uscite con il nuovo Canzoni Contro la Natura. Io sinceramente non ho mai capito cosa la gente si aspettasse dal Circo Zen, non capisco neanche quando venivano considerati questo eccelso prodotto, però capivo che mi piacevano e pure parecchio. Naturalmente il genio non vive eternamente dentro l’indole compositiva di Andrea Appino e compagni, ma una volta entrati nella loro dimensione scanzonata tutti gli altri ascolti che seguono perdono di lucidità. Penso più a Zen Circus come schiaffo all’ipocrisia culturale in Italia. Il precedente disco solista di Appino (Il Testamento) non aveva infiammato il mio cuore lercio da punk invecchiato ma mi aveva così poco coinvolto che quasi non riuscivo a spiegarmi la targa Tenco come miglior esordio. Canzoni Contro la Natura arriva proprio nel momento in cui avevo bisogno di spensieratezza musicale, non mi aspettavo stravolgimenti epocali, sapevo quello che avrei trovato. “Viva” primo singolo estratto dal disco mette subito le cose in chiaro, pezzo semplice e bastardo, il diretto interessato capisce subito quali saranno i compromessi dell’intero lavoro. Un buon lavoro di marketing e il gioco è fatto. Problemi relazionali in “Postumia”, siamo una società incapace di comunicare, un invito a guardarsi negli occhi suonato a  ritmi poco concentrati. “Il futuro me lo bevo per non pensarci” cantano i combattenti del Folk Rock. E anche qui spezzo quindici lance a loro favore. Title Track “Canzoni Contro la Natura” e reggetevi forte perché a parte il basso crepato come meglio non si poteva e un ritornello alla kiwi e melone il resto mi delude assai. L’arroganza degli Zen Circus dove è andata a finire? Pezzo molto potente che perde il controllo, poco istinto e tanta finzione. È destinata a diventare la Hit del disco. Voglia di fare “spessore artistico” in “Albero di Tiglio”, il testo e la voce di Appino prendono tutta la scena di una canzone dai riff mediocri che non lasciano niente di dolce in bocca, innervosisco davanti a questa necessità di sentirsi intellettuali. De Andrè volutamente ricordato in “L’Anarchico e il Generale”, viene subito alla mente “Il Pescatore” anche perché Appino non è affatto nuovo a questo genere di omaggi, già nel suo precedente disco da solista aveva composto il brano “La Festa della Liberazione” ispirandosi fortemente al brano di Dylan “Desolation Row”. Queste trovate artistiche sono da considerarsi perfette per paraculare l’ascoltatore, Appino mi piace. “Mi Son Ritrovato Vivo” è  il classico pezzo sornione alla Zen Circus, ci siamo capiti, niente da aggiungere. “Nessuno regala niente nemmeno l’onnipotente”. Arie Folk che sanno d’Irlanda. “Dalì” puzza di Western e non trovo la collocazione giusta per incastrarla, improbabile riempi disco al gusto di necessità. Non gradisco le forzature. Azzardano molto a fare i cantautori nonostante il risultato giochi a loro svantaggio in buona parte dei pezzi. Questi Zen Circus sono parecchio lontani dagli anni di Villa Inferno con Brian Ritchie, inevitabilmente gli anni passano per tutti e le idee iniziano a mancare. Canzoni Contro la Natura andrebbe preso e scremato per bene e ne uscirebbero fuori due dischi distinti, uno con voto dieci e l’altro con voto due. La media è sei, giusto Prof?

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G-Fast – Go to M.A.R.S.

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Dietro il moniker di G-Fast si nasconde il One Man Band milanese Gianluca Fastini, un amante delle sonorità vintage, di quel maledetto Rock di una volta che puzzava di whiskey e suonava di Blues. Il suo nuovo disco preceduto da svariati live esce per La Fabbrica e si chiama Go to M.A.R.S., niente di elegante, niente di particolarmente eccitante. Perché questo Go to M.A.R.S. vorrebbe suonare esattamente come un disco di una volta, prendiamo tutta l’attuale scena Indie italiana e buttiamola senza timore nel cesso tirando lo sciacquone infinite volte. Tanto non ci sarebbe poi così tanto da salvare secondo alcune arroganti presunzioni. “Go to M.A.R.S.” prima traccia (e pezzo che titola l’album) parte subito massiccia e senza paura, piedone a spingere sulla cassa, chitarre Folk Rock e tanta voglia di arrivare su Marte. Ma questo dal titolo si era capito benissimo, dopo Bowie arriva G-Fast. Tanta spocchiosità nell’animo indipendente di “I Like It”, qualcosa diventa subito muro tra concetto e risonanza. Non arrivo a cogliere il senso e disordinato come un bambino eccitato dai regali di Natale vado avanti nell’aprire canzoni come fossero pacchi.

Nel brano successivo “Mystical Man” G-Fast usa chitarroni pesanti ma quella insistente sensazione di “vecchio polveroso” proprio non vuole lasciarmi stare. Capisco benissimo l’intenzionale ricerca di suoni del passato ma in questo caso il prodotto finale è stancante, è come mettere volontariamente la testa dentro una ghigliottina francese. Tralascio volentieri “On My Own”, non riesco a contemplare certe cose in nessun momento della mia giornata. Tengo a precisare che questo disco sono riuscito a metabolizzarlo (diciamo pure così) almeno dopo dieci ascolti durante i quali mi promettevo di trovare il lato positivo che puntualmente non arrivava mai. E nessuno mai potrebbe capire quanto aspettavo che ciò accadesse. “Morning Star” prosegue senza provocare troppo scompenso, alta orecchiabilità e sound arrugginito come non ci fosse un domani. In questo caso apprezzo molto la tecnica Old School. Andando avanti troviamo “Like an Angel” e “Toy Soldier”ma entrambe vivono di luce riflessa, un qualcosa già speculato negli anni novanta quando tutto era più facile e non ci giravano i coglioni a causa della crisi economica, quando potevi sentirti il padrone del mondo non sapendo che la fine era alle porte.

Ci vuole un fegato marcio per suonare Rock Blues senza contaminazioni. “Crazy” è finalmente un pezzo diverso dal resto, poco omologabile con quello ascoltato in precedenza, un mix di atmosfere tarantiniane e sole bollente sulla nuca. Ma possibile? Ho già ascoltato da qualche altra parte? Sento delle familiarità impressionanti. I diritti umani mangiati voracemente da un corvo nero in “The Crow Is Back”, ancora non riesco ad afferrare niente di buono, sconsolato cerco riparo nell’ultima traccia “What I Think of You”. E’ una ballata ma a me non piace affatto. G-Fast non rientra nella schiera di musicisti che salveranno la musica, almeno da quello espresso in Go to M.A.R.S. non riesco a vedere neanche uno spiraglio di positività. Inutile nascondersi dietro musicalità testate migliaia di volte e tecnica audace, la musica è soprattutto sentimento e questo disco purtroppo non trasmette niente. Consideriamola una brutta esperienza.

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Bruce Springsteen – High Hopes

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Due premesse sono dovute. Punto primo: sono un fan del Boss dal 2009 (ovvero dalla prima volta che l’ho visto dal vivo) al punto da esserne quasi patologico. Quattro concerti (solo?) in stadi che quella notte sembravano il salotto di casa mia pieno di 70.000 parenti e amici del cuore. Un inequivocabile tatuaggione tamarro sul polpaccio a citare “Born To Run” (con tanto di font uguale al disco). E soprattutto non passa giorno della mia vita che non ascolti almeno una sua canzone, come una medicina contro qualsiasi accenno al mal di vivere o semplicemente per amplificare qualunque piccola o grande emozione. Punto secondo: ad essere onesti, su questo disco di “grandi aspettative” non ne avevo proprio. Non sono per nulla un sostenitore del chitarrismo di Tom Morello, soprattutto in tutto ciò che va fuori dal suo seminato (che a mio avviso si limita ai Rage Against The Machine e poco altro). La notizia della sua presenza in quasi tutti i brani di un album costruito da canzoni rispolverate dal passato non mi convinceva per nulla. Lo ammetto mi puzzava di un disco di auto-cover, registrato in tour con take recuperate dagli archivi. E non ne capivo la necessità. Ma Springsteen non fa nulla a caso e sapevo che la sorpresa sarebbe stata dietro l’angolo.

High Hopes infatti è un buon lavoro, incredibilmente compatto nella sua disomogeneità. Un blocco unico nonostante il minestrone di canzoni pescate qua e la nel tempo. È solido ed è il disco più Rock’n’Roll del Boss dai tempi di Lucky Town/Human Touch. Meno ispirato del rabbioso e corale Gospel di Wrecking Ball, da cui eredita però un pugno chiuso e il muscolo teso. Ma quello quasi mai è mancato nella discografia dell’eterno ragazzo del New Jersey. Anche la produzione, mescolata pure quella tra il superbig Brendan O’Brien e Ron Aniello, segue comunque una linea ben definita con la chitarra di Tom Morello che spinge tutto sull’acceleratore e la voce di Bruce, sempre più in forma e sempre più espressiva. A tracciare una strada che non presenta alcuna incertezza. E poi c’è tutta la E-Street Band, comprese registrazioni dei compianti Clarence Clemons e Danny Federici. Sentirli suonare (anche su disco) è sempre un brivido sulla pelle. La title track è una cover dei californiani The Havalinas. Rullante incalzante, percussioni, chitarre acustiche, cori e fiati a profusione. Poi l’inconfondibile chitarra di Morello, forse non quello che ti aspetteresti, ma il corpo si muove senza freni: ottimismo e fede. “Harry’s Place” è scura con basso e synth in primo piano, il sax di Clarence Clemons porta la canzone ad un altro livello. “American Skin (41 Shots)” è un brano del 2001 e rinasce in chiave più rabbiosa e moderna con tanto di bit campionati. Perde però un po’ l’umanità e il melanconico incalzare presente nella versione del “Live in New York 2001”. In ogni caso registra il miglior assolo di Tom Morello in questo disco. Non c’è dubbio che il suo modo di suonare (a meno di sbrodolamenti eccessivi) sia a dir poco geniale. Anche “Down The Hole” parte su suoni campionati poi ruba il ritmo a “I’m on Fire”, non risulta memorabile nonostante la splendida voce di Patti Scialfa, l’organo di Danny Federici e il testo di una spiazzante semplicità e che (come al solito) trafigge il cuore: I got nothing but heart and sky and sunshine, the things you left behind. “Heaven’s Wall” risolleva decisamente il morale: cori Gospel, temi biblici e l’assolo di Morello anche qui superispirato. La speranza si trasforma in allegria dentro la pazza storia di Shakespeare e Einstein che si bevono una birra insieme e discutono sull’amore in “Frenkie Fell in Love”.

Discorso a parte per la stravolta “The Ghost of Tom Joad” che provoca in me sentimenti contrastanti. Ad accompagnare Springsteen c’è la voce dell’onnipresente Tom Morello. Ottimo interprete vocale, ma ora la sua chitarra è troppo. Molto più vera e sentita la versione acustica del 1995. Certo, anche ora l’odore della strada e della lotta non vengono meno. Il sali-scendi da manuale è dopotutto firmato della magica E-Street Band. Il brano più toccante è il Valzer dal sapore dylaniano “Hunter of Invisible Game”, colma di richiami religiosi, di forza, di ricerca della pace e di futuro. Strength is vanity and time is illusion, I feel you breathing, the rest is confusion: pezzo che vale il disco. Anche “The Wall”, ballata dedicata a un soldato scomparso in Vietnam, è da pelle d’oca, già solo per l’arrangiamento e per le corde vocali del Boss. Lui è proprio il capo. Il capo capace di incanalare le nostre emozioni più forti e sbattercele in faccia con quella facilità del nonno che ti racconta la storia al bordo del tuo letto. E non ha paura a parlarti di morte e distruzione, perché sa benissimo che tu saprai essere più forte di tutto questo.

Insomma dopo innumerevoli ascolti non posso certo dire che questo sia un disco inutile. Per fortuna il mio pessimismo in partenza era eccessivo. Come tutto ciò che Springsteen fa, anche questo disco risulta essere necessario. Almeno per la mia salute.

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Alfabox – Alfabox

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Una botta di puro Rock senza delicatezze inconcludenti, il ritratto di una violenta generazione insoddisfatta, il terzo omonimo lavoro degli Alfabox racconta tutta la sofferenza della vita negli anni dieci (in Italia). Ci vuole molto coraggio intellettuale per sparare Rock a brucia pelle. La band udinese svela tutta la propria rabbia con una registrazione in presa diretta figlia della naturalezza compositiva, le sbavature inevitabili (dovute appunto alla registrazione in presa diretta) vengono lasciate appositamente per confermare il semplice impatto che gli Alfabox vogliono lasciare. Nudi e crudi senza censura. “Ormai è Troppo Tardi” apre il disco nel migliore dei modi, basso pesante energicamente Stoner e voce notevolmente alta (quasi Heavy), il testo non lascia speranza alla tremenda situazione lavorativa dei giorni nostri. Bisogna picchiare duro sopra certi maledetti argomenti.

Alt Rock meticoloso come il miglior Teatro Degli Orrori agli albori in “Miracolo Italiano”, da incorniciare la frase del testo “Sarò un precario ma vivo a Milano”. Perché se non era chiaro i testi sono tutti in italiano e precisamente mirati. Molto diversa e dalle parvenze simil elettroniche con cantato (quasi) filastrocca in “Aspetta e Spera”, comunque sia la digeribilità è immediata. E a questo punto potrei sentirmi già parecchio soddisfatto del disco degli Alfabox ma siamo soltanto alla traccia numero tre. Sulla stessa linea armonica della precedente ma con una batteria scintillante e riff più delicati viene in ascolto “La Mia Città”. Il disco sta cambiando decisamente direzione adesso, molta morbidezza attende le mie orecchie, i testi rimangono crudi. Le tastiere circoscrivono “Prima di Dormire”. Direzioni Diverse oserei dire. Arpeggi solari e tratti da ballatona efficace quando arriva il momento di “Ghiaccioli”, la forza del disco e soprattutto nella varietà di proposta e nelle scelte sempre spiazzanti. Torno a sentire nuovamente quella cattiveria dell’inizio in “Il Morbido Cecchino”, la durezza  delle chitarre abbraccia senza fatica motivetti Progressive, sembrerebbe di percepire quasi un omaggio alla PFM. Ma quello che la musica trasmette è sempre soggettivo, sarà la mia vicinanza geografica con la patria di Franz Di Cioccio a giocare brutti scherzi. Sonorità Rock medio orientale (ci siamo capiti no? Forse) nella punkeggiante “La Nostra Primavera Araba”, sensazioni altalenanti in meno di tre minuti, distorsioni tirate al massimo. Killing an Arab? Chiusura in grande stile Indie British Rock per gli Alfabox, chitarre ben pettinate e saltello che viene spontaneo, non ci stancheremo mai di certa roba almeno fino a quando siamo mentalmente giovani e freschi. L’intero lavoro è stato registrato con Enrico Berto in una baita di montagna (Mashroom Studio) in cinque giorni, l’idee erano molto chiare e io degli Alfabox non butterei via nulla. Un lavoro carico di energia che vuole soltanto essere ascoltato, una bella legnata sui denti.

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Aut in Vertigo – In Bilico

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Una volta un componente dei Duran Duran disse che loro non erano una boy band perché si erano formati fra i banchi di scuola a differenza della maggior parte dei gruppi di oggi provenienti dai talent show televisivi. Come quella della band inglese sembra essere l’origine degli Aut in Vertigo, band italiana nata nel 2004 che nonostante qualche variazione di line up è riuscita a trovare una giusta dimensione e a dare vita al disco In Bilico.
Le radici sono quelle del Classic Rock anni 70, il quale costituisce un punto di riferimento imprescindibile senza inibire il bisogno di sperimentazione  caratterizzante dei vari percorsi compositivi. Il tutto attraverso un concept che trae spunto dalle riflessioni e dalle autoanalisi (“Passi”), dall’osservazione del mondo che ci circonda (“Volto Fragile” e la title track “In Bilico”), delle nuove città in cui tanti stronzi si accusano l’un l’altro di quello che non va (“Pelle e Peccato”) differenziandosi così nella pelle dai cosiddetti nonluoghi tanto cari a Marc Augè in cui differenti categorie di persone si mischiano e interagiscono nella vita di tutti i giorni.

La soluzione?

La potete trovare nella canzone “Rivoluzione”, in cui il cervello elabora nuove idee fuggendo dalla realtà proponendo ideali scontati attraverso gadgets del comandante Che Guevara.
Non manca anche il tema più classico, l’amore, in “Chiara”, nome che sintetizza bellezza e verità spesso uniformando le due cose, decantando l’inverno nel non averti a fianco.
Undici tracce che sembrano avere il proprio punto di forza nelle liriche, sempre molto profonde (“Fratello Gert” e “Olè Olè”) e mai banali in cui la band propone un Rock semplice ed essenziale dove si evitano (probabilmente volutamente) inutili virtuosismi che offuscherebbero il potenziale che viene fuori dalla sinergia dei singoli elementi.
Come dire: “L’unione fa la forza”. Magari se non ci fosse stata qualche similitudine troppo accentuata nell’inizio di “Deep Sigh” e “Breathe” dei Pink Floyd ci sarebbe stato anche un punticino in più nella valutazione. Meno male che gli Aut in Vertigo lasciano il meglio alla fine con “Radio Aut”, aggressiva e sempre veloce come un treno perché cominciare bene (con “Passi”) è sì importante, concludere al top è invece una scelta alquanto insolita. Quindi se volete trovare un ulteriore piccolo difetto, è solo nella tracklist.
Per il resto nulla da eccepire!

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