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2nd District – What’s Inside You

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Di Punk-Glam-Sleazy Rock credo se ne sia visto a bizzeffe negli ultimi quindici anni, soprattutto nel Nord Europa. C’è chi ha solamente messo due litri di lacca nei capelli, si è piazzato qualche tatuaggio da duro e ha smaltato gli occhi con l’eyeliner più resistente. Ma come in tutti i fenomeni di costume, c’è chi ha pure sfornato un pane molto gustoso per gli amanti del genere. Ha preso l’eredità di Guns N’Roses e Hanoi Rocks dando una forma al proprio suono, con canzonette che sicuramente non entreranno mai nella Rock N’Roll Hall of Fame, ma hanno fatto muovere il culetto a migliaia di ragazzini in calore. Detto onestamente, tra queste band fino a ieri io non avrei mai inserito i tedeschi 2nd District. Visti dal vivo un anno e mezzo fa a Torino di supporto ai Prima Donna (band da tenere d’occhio), i quattro non mi avevano particolarmente colpito né per attitudine, né per groove e tanto meno per le canzoni. Su questo disco invece svoltano. Il loro secondo album suona un Power Pop facile, diretto, schietto. Tra accenni di Post Punk e il sound ruffiano e moderno dei Pretty Reckless. Con la voce di Marc de Burgh in primo piano che non strappa di certo via le nostre orecchie con violenza, ma anzi spesso è sinuosa e femminea. Verrebbe da ridere a pensare che un omone vestito scuro e con i braccioni tatuati possa cantare in questa maniera, ma tra un sorriso che scappa e uno scossone alla testa in segno di disapprovazione, ci viene pure da battere il piedino a tempo.

Il giro di basso per nulla banale che introduce “Broken Bits of a Lifetime” ci porta diretti su un treno veloce che mantiene però ben salda la traiettoria. Nulla di nuovo insomma, tanti power cords e assolini, ma una buonissima intuizione melodica. “Borgeoise Attitude” è il brano di punta del disco, i Backyard Babies sono un po’ ammorbiditi, ma il richiamo al freddo sound svedese è praticamente scontato. “Wherever” è più facile, ma non manca di mordente con un ritornello scanzonato e cantato a squarciagola in coro. Basso e batteria stanno sui binari e vantano un amalgama furba, mai troppo calda e mai troppo fredda. Giusto per rimanere ben ancorati alla locazione geografica. “Market Crash” e “Bad Habit” pagano il loro tributo al glorioso Punk inglese targato 1977, con rullate veloci e ritornelli da calci in faccia, invece “Pain Museum” è uno dei pochi episodi “ricercati”. Sia ben chiaro: senza esagerazione, con il ritornello da chitarra in spiaggia e l’eyeliner che si sfalda e cola nel romanticismo più bieco.

In ogni caso questo è un disco che si fa ascoltare tutto d’un fiato (dote rarissima al giorno d’oggi) e soprattutto è degna di nota l’assenza di riempitivi. E sebbene possa suonare a tratti banalotto, ha nel suo punto di forza l’ottimo bilanciamento tra Pop mainstream e Punk incazzoso, tutto in equilibrio senza forzature. Il rischio era forte, ma per fortuna questa pare non essere musica scritta per mettersi semplicemente in vetrina.

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laMalareputazione – Panico

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laMalareputazione, con la minuscola ché ci tengono, escono con il loro secondo disco, Panico, e ne fanno una sorta di concept un po’ oscuro su “le contraddizioni della vita, che si incastra in una routine, uno schema di gesti ripetuti quasi a diventare ossessivo compulsivi, come a voler scacciare il pericolo di un attacco di panico, dovuto proprio all’incapacità di avere tutto sotto controllo”. Lo impacchettano in un Rock Cantautorale senza troppi guizzi, riuscendo solo parzialmente a mescolare un impianto che vorrebbe apparire “colto” con un’energia neanche troppo graffiante, dal filo forse consunto, comunque troppo morbida e prevedibile per scuoterci dal torpore cantilenante che predomina (ci provano: ogni tanto appare una chitarra ruvida, una batteria meno ovvia – “Irene e il suo Cavallo” – ma l’esperimento riesce poco).

Panico suona come i Negramaro senza Giuliano Sangiorgi, o come dei Modà che però apprezzano Modigliani (il dittico “Il Talento di Modigliani” e “Parigi” è dedicato proprio all’artista) e citano Jean-Luc Godard (“Conosco il Tuo Segreto”). Questo non vuol dire che suoni male, intendiamoci: è un disco fatto con tutti i crismi, e laMalareputazione ne esce a testa alta, almeno per quanto riguarda l’aspetto dell’esecuzione e della composizione più puramente tecnico. Ma a Panico mancano le ali, manca il salto, quello vero, che ci farebbe stringere lo stomaco e appannare lo sguardo: paga lo scotto di un’eccessiva codardia (musicalmente parlando), che lo rende noioso e floscio (vedi “La Folle Corsa”, primo singolo, o “Ora che è Semplice”). Ci sono degli spunti molto interessanti (“La Parte Più Sana” ha degli attimi che forse sarebbe bello vedere sviluppati altrove: sarà che qui non fanno finta di voler fare Rock, abbracciando invece un sound più rarefatto, più lieve), ma nel complesso il secondo disco de laMalareputazione scorre abbastanza innocuo, ed è un peccato, date le indubbie capacità della band. È triste dirlo, ma di dischi del genere non abbiamo proprio bisogno.

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Funkin’ Donuts – Funk Tasty KO

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A volte capitano tra le mani rudimentali registrazioni di band acerbe che danno un bello scossone alla spina dorsale. Nonostante arrangiamenti raffazzonati, voce traballante, e suoni grezzoni da garage putrido, i romani Funkin’ Donuts sono coraggiosi e determinati. Coraggiosi anche perché suonare Funky, cantato per altro in italiano (tre pezzi su quattro sono in madrelingua), nel 2013 è atto di purezza e onestà. La moda dei Red Hot Chilli Peppers è sicuramente passata da qualche anno e di gruppi con questo sound indistinguibile non se ne vedono molti nel nostro orizzonte.

Attenzione, nulla per cui strapparsi i capelli o gridare al fenomeno. Semplicemente una band che ben esprime il suo piacere di suonare insieme. Senza grandi pretese e con i piedi ben ancorati a terra. Piedi non per questo fermi, scossi dal ritmo già deciso dalle prime note di “Guarda Avanti”, un classico groovone ben scandito da basso e batteria da manuale e una chitarra che fa molto il filo al buon vecchio John Frusciante. Purtroppo la voce di Flavio Talamonti non sempre riesce a convincere, soprattutto nelle parti più gridate e nei testi spesso banalotti. La pecca maggiore dell’EP però viene subito fuori e riguarda la registrazione, ben lontana dall’essere professionale, e dire che in questi periodi registrare decentemente un disco a basso costo sembra non essere più così ostico. L’insieme sicuramente perde ma per fortuna la botta non viene tralasciata.

Una maggiore cura in registrazione e arrangiamenti più attenti avrebbero dunque fatto decollare un brano come “Dammi un Buon Motivo”. Le idee si accozzano una all’altra tirando fuori una poltiglia mal amalgamata nonostante i buoni propositi e il buono stato di forma della band che jamma come se non ci fosse un domani. Un po’ di ordine forse non guasterebbe anche in “J.B.”. L’unico brano cantato in inglese si presenta con stacchi storti, attitudine meno friendly e chitarre alla James Brown. Tutto contornato dal solito groove insaziabile.

Il piede continua a battere senza sosta fino alla fine, anche nell’ultimo episodio di questo breve ma intenso EP. E allora “Drop D” non riserva sorprese se non un po’ più di rabbia, che avvicina il sound a quell’immensa realtà che erano i Rage Against the Machine. La forza non manca, la proposta è buona anche se non suona di certo innovativa, ma direi che non ha nessuna pretesa di esserlo. E questo EP, nonostante tutti i difetti che presenta, suda, vive e sporca. Di sicuro, non è poco!

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La Linea del Pane – Utopia di un’Autopsia

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Stranissimo, nel nostro panorama musicale, trovare una band con una profonda matrice cantautorale e un certo distacco dalla canzone di protesta. La Linea Del Pane non ha niente a che vedere con i Ministri, Il Teatro degli Orrori, Il Management del Dolore Post Operatorio. Niente. Né le sonorità, né i testi, né la costruzione delle linee melodiche o delle liriche. A ispirare la band sembrano piuttosto riferimenti del passato: De Gregori, De André (quello delle ballate d’amore più che quello delle canzoni politiche), ma anche il più recente Giorgio Canali, per quanto riguarda i testi, Marlene Kuntz, Negrita, e, stranissimo, persino i Dire Straits, per le sonorità.

Il disco, Utopia di un’Autopsia, si apre con il brano “Apologia della Fine”, in cui si sente anche qualcosa dei romani Eva Mon Amour, tanto nel modo di cantare, quanto nella versificazione. “Urlo di Ismaele” apre con sonorità acustiche che le danno un taglio più pop e leggero, subito controbilanciato dalla grandissima elaborazione del testo, pieno di figure retoriche e costruito su un lessico complesso. Dissonanze alla Marlene Kuntz caratterizzano “Tempo da Non Perdere”: il testo è artificioso, con l’andamento di una ballata, in cui spostamenti di accenti tonici rispetto a quelli ritmici dell’accompagnamento, tradiscono una probabile composizione letteraria antecedente all’arrangiamento strumentale. “Favola non Violenta (Indovinello 1)” è una ballad d’amore (almeno in apparenza, perché è facile, nel corso del brano, trovare spunti riflessivi per altre tematiche), tutta imperniata su un arpeggio un po’ Indie e un po’ pulp; in “Specchio” è impossibile non cogliere un riferimento letterario a Dorian Grey, musicato tra sonorità Alternative anni 90 forse un po’ sentite, ma impreziosite da una certa commistione con timbri Prog. Questi ragazzi sono colti, probabilmente anche un po’ hipster per il compiacimento con cui trasudano la loro conoscenza. Non c’è nulla di male. Anzi. Solo una volta giunti ad “Ambrosia”, se ne ha un po’ le scatole piene di tutto questo artificio retorico, nonostante il crescendo musicale sia veramente efficace e riesca a far ancora sentire il brano con un certo interesse. Certo è che da qui la mia concentrazione è calata. Non è questione di volere a tutti i costi leggerezza o immediatezza. Sarebbe davvero molto superficiale da parte mia e di qualsiasi eventuale ascoltatore. La questione è che sembra che a La Linea del Pane manchi la capacità di accalappiare l’attenzione per poi servire il loro messaggio nella bella confezione articolata, complessa e aulica che gli hanno riservato. Ed è un peccato. L’album prosegue, comunque, con “Occhi di Vetro” e “Gli Alberi d Sophie” in cui si nota quanto il cantato sia impeccabile, ma piuttosto monocorde: lo è stato per tutto il disco, ma qui inizia a pesare anche questo aspetto. Personalmente ho trovato bellissima la successiva “Favola Non Violenta (Indovinello 2)”, con un arrangiamento alla Band of Horses davvero curioso e coraggioso, dato il testo in italiano. Della penultima traccia, “Nekropolis”, voglio sottolineare l’impiego degli archi: difficilissimo nel Pop-Rock inserire nel tessuto strumentale violini e loro parenti senza cadere nella melensa banalità del già sentito, ma La Linea del Pane li sfrutta con grande maestria, tra colpi d’arco e dissonanze dai valori larghi. Ben fatto. Utopia di un’Autopsia chiude con “Solstizio d’Inverno”, malinconica, riflessiva, nostalgica, avvolta attorno alla voce narrante. Non poteva essere diverso, in fondo.

Nel complesso è un disco davvero ben costruito, che risente della staticità di un certo atteggiamento meditabondo e monocorde, aggravato dalla vocalità del frontman, pulitissima e tecnicamente perfetta, ma incapace di slanci melodici e agogici, che puntellino e colorino i brani. L’artificio retorico che sottende la stesura dei testi, poi, è davvero eccessivo in molti casi. La canzone finisce per essere quasi un esperimento linguistico o un arzigogolato scioglilingua tra allitterazioni e rime. Preso singolarmente ogni brano sarebbe una buona speranza per la musica nostrana, l’intero disco non mi fa dire lo stesso.

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L’Inferno di Orfeo – L’Idiota

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Passano due anni dal precedente Canzoni della Voliera e tornano i piemontesi L’Inferno di Orfeo con L’Idiota, un disco decisamente irriverente e con sfumature di Rock da buttare giù a grandi sorsate, rivoluzione interiore al passo con i tempi moderni sempre più bui. L’Idiota nasce sulla base dell’istinto, i pezzi vengono buttati energicamente senza rifletterci troppo, si passa poche volte verso la parte della ragione e i componimenti risultano crudi e viscerali nonostante i riff esprimano in qualche modo una miscela di tristezza e allegria. “La Manovra” apre l’album con una classica canzone italiana dai variegati paragoni di confronto ma con una freschezza comunque personale che narra di un mozzo alle prese con le proprie considerazioni rivolte al capitano della nave incapace di condurla. “La Guerra è Qui” è un pezzo molto interiore fedele alla classica tradizione del Rock leggero cantautorale made in Italy, un modo per riflettere sui sconsiderati atteggiamenti della vita quotidiana. Ballatona dai toni tristi per capirsi meglio.

Non rimango certamente di umore buono. Chitarroni Rock in “Arrampicate” dove L’Inferno di Orfeo tira fuori le proprie radici Prog Rock che non seguono esattamente il passo di quello attuale, sound molto “vecchio” ma non del tutto arrugginito. Si cerca di fare Blues con la traccia “L’Amore ai Tempi del Barbera” e in qualche modo il risultato risulta piacevole nonostante la mia attenzione è rivolta più verso il testo e la voce simil bruciata dalle sigarette che sulla musica. “L’Arte della Manutenzione” dovrebbe essere un brano dal ritmo incalzante ma non riesco mai a lasciarmi trasportare e l’effetto divertimento in poco tempo si trasforma in noia mortale. Non sono abituato a cambi improvvisi di genere, ogni pezzo sembra appartenere ad una diversa band, faccio fatica a rimettere insieme i pezzi. “Col Senno di Voi” inizia a dare il giusto senso al mio ascolto, sarà quella spiccata somiglianza (soprattutto nell’intro) a “Color me Once” dei Violent Femmes o quell’Ambient più cupo, una buona prestazione.

Il pezzo che titola l’album “L’Idiota” è una cavalcata in stile Folk e anche qui trovo piccole ma piacevoli sorprese, forse per la somiglianza voluta all’Indie Folk dei Marta Sui Tubi. L’Inferno di Orfeo descrive “Il Paese che Dorme” come una favola dei giorni nostri immortalata da una polaroid ed effettivamente si sente la paura di sentirsi abbandonati, le sensazioni impazziscono e il brano merita davvero la giusta considerazione. Per la prima volta durante l’intero ascolto de L’idiota sono riuscito a sentirmi sullo stessa frequenza de L’Inferno di Orfeo, riesco a metabolizzare il contenuto e renderlo in qualche modo personale. Ancora Rock che purtroppo non digerisco in “Uguale il Mare”, giuro di essermi impegnato ma la stanchezza delle idee prende il sopravvento. Non trovo il metodo di contatto. Il disco si chiude con “Paola” e gli strumenti elettrici lasciano spazio a quelli acustici per una canzone delicata e dolce quanto un brano dei Negramaro con la voce a fare da padrone. Fermamente senza fissa dimora il mio giudizio verso L’Inferno di Orfeo, quello che non mi piace eguaglia quello che mi piace e la confusione alla fine lascia L’Idiota tra quei dischi che di certo non segneranno quest’annata musicale. Insomma, c’è tutto per fare il salto di qualità basta scegliere la strada da intraprendere.

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La Stanza Del Rumore – Y

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Questo disco, per prendere qualche citazione dai testi delle canzoni, mi ha colpito nell’anima col suo sound un po’ sporco e ruvido  fatto di tante ore di sala prove e di incisione in studio. La Stanza del Rumore  è un progetto che nasce nel dicembre 2012 dall’unione di Massimiliano Cocciuti (batteria), Giulio Rencricca (chitarra) e Francesco Grammatico (basso e voce).
L’undici settembre i tre ragazzi decidono di pubblicare il loro primo singolo, “9/11”, dedicato all’attentato alle torri gemelle che nel lontano 2011 sconvolse il mondo intero, montando un video per l’occasione (visualizzabile su YouTube) che riscuote un discreto successo e stimola la curiosità del pubblico.
L’esperimento, dati i risultati, è stato anche seguito, a soli dieci giorni di distanza dalla pubblicazione di un altro singolo, “La Televisione” che aveva anche lo scopo di anticipare il primo live show ufficiale della band avvenuto il 28 settembre scorso. La Stanza del Rumore ha presentato l’album Y durante il corso della manifestazione Albarock.
I brani contenuti nel disco sono solo sei (compresi i due già citati singoli) ma il risultato che ne esce fuori è più che positivo. Personalmente ho gradito parecchio molto la terza traccia “La Vanità” col suo incipit alla Motorhead mischiato a un cantato alla Ligabue (strano ma vero!) che spiazza al primo ascolto ma che fa capire di che pasta sono fatti Massimiliano, Giulio e Francesco. Forse un mastering un po’ più curato avrebbe giovato molto al lavoro intero, ma può essere che l’intenzione dei tre fosse proprio ottenere un suono molto Rock, degno dei più grezzi Iggy Pop and the Stogees o dei The Sonics.
Probabilmente anche qualche effetto in meno avrebbe dato quel qualcosa in più, pensando già solo al basso che spesso risulta distorto in parti dove non ce n’era assolutamente bisogno.
Qualche critica insomma c’è da fare ma si sa che in un demo di esordio  qualche piccola imperfezione ci può sempre stare. Per il resto nulla da eccepire, tranne il consiglio di farsi affiancare da un produttore in eventuali produzioni future perché di spunti buoni qui ce ne sono davvero tanti. Non posso quindi che concludere augurando un fragoroso in bocca al lupo ai La Stanza del Rumore, sperando accettino paritariamente sia le critiche che gli elogi perché con entrambi si può crescere e maturare.

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Terje Nordgarden – Dieci

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Terje Nordgarden viene dalla Norvegia ma vive e suona in Italia da ormai parecchi anni. Innamorato del Folk e del Blues americani, di Dylan, Springsteen, Drake, Elliott Smith, si è integrato nella fertile scena indipendente italiana e con questo suo ultimo Dieci rende omaggio alla sua famiglia adottiva reinterpretando e riarrangiando, per l’appunto, dieci brani di artisti nostrani (Cristina Donà, Paolo Benvegnù, Marta Sui Tubi, Marco Parente, Iacampo, Cesare Basile… ma anche Claudio Rocchi e Grazia di Michele).

Il risultato è un disco lunare e dolcissimo, rarefatto ma intenso allo stesso tempo. Chitarre dalle distorsioni calde, arpeggi cristallini, ritmiche lineari e soundscape vibranti e infeltriti, un maglione Folk/Blues elettrico in cui raggomitolarsi: sopra tutto questo, una voce morbida, che fa sue canzoni altrui con naturalezza. L’accento straniero di Nordgarden aggiunge anche un taglio retrò all’operazione: ci porta alla mente gli anni 60, il Beat, gli inglesi che venivano in Italia a cantare (in italiano) canzoni (italiane). I brani, cover di artisti (chi più chi meno) affermati ma quasi tutti provenienti dalla scena indipendente, sono canzoni belle ma non famosissime, e questo contribuisce a rendere questo disco di cover un prodotto molto particolare e sui generis.

Alcune canzoni sono particolarmente riuscite (“Non È la California”, “Invisibile”, “Cerchi sull’Acqua”), altre un po’ meno (“La Realtà Non Esiste”), ma Dieci rimane un disco assai godibile e Terje Nordgarden un artista da tenere d’occhio.

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Esquelito – Youwho

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È notorio e risaputo: i teschi sanno sfoggiare il sorriso più ironico e dissacrante esistente in natura. È quasi poetico, quasi commuove: il simbolo stesso della morte è, al tempo stesso, l’emblema del più importante meccanismo di difesa che possediamo contro di essa. Ne sanno qualcosa in America Latina, dove teschi e scheletri prendono vita e colore per essere memento e contrasto rispetto all’idea europea, cupa e soffocante, di una morte incappucciata e mietitrice. Lo sanno bene anche gli Esquelito, che riportano, in maniera leggera e disimpegnata, questo colore e questo divertimento nelle cinque tracce del loro ultimo EP, Youwho. La band, confesso, è riuscita a conquistarmi già dalle poche righe di spiegazione del disco, dove trapela un mondo immaginario ben costruito e per l’appunto coloratissimo, sfavillante, tra il Chiapas e i Caraibi, con il loro spirito guida (l’omonimo Esquelito) a combattere danzando (o almeno così lo si immagina) lo spaventevole e mitico Chupacabra, in un Messico da cartolina, cartone animato, sogno lisergico d’altri tempi.

Gli Esquelito ci portano in viaggio attraverso canzoni semplici, immediate, anthem ossessivi  Post-Folk (“Esquelito”), ritmiche prima esotiche, poi Punk, in un meticciato lineare ma piacevole (“Eternit Love”, dalla linea di basso infestante e l’andamento essenziale). Si toccano il Rock’n’Roll della West Coast e il Pop da canticchiare senza pensarci, per poi finire dritti in una giungla di tamburi, delay, metallofoni e… scimmie (“Monkeyz”). Si cambia spiaggia, da un tramonto sussurrato alle urla notturne di domande e risposte che si incatenano (“One Million”). E ci si ferma sulla strada battuta di un Rock leggero, acustico, e molto americano, per chiudere con nostalgia e un pizzico di malinconia (“Weekly Leaks”).

Nel complesso, gli Esquelito hanno messo insieme un disco che si regge sulle proprie gambe, anche se avrebbe bisogno di qualche osso in più: personalmente, mi convincono di più gli esperimenti con ritmiche inusuali e strutture meno ovvie – come “Eternit Love”, ad esempio – mentre gli episodi alla “One Million” mi lasciano più indifferente. Forse un maggiore focus sulle caratteristiche peculiari della band potrebbe aiutare l’incisività e la presa generale del progetto. Di sicuro, il ghigno bianco di questi scheletri potrebbe avere ancora tanto da dirci: nascondiamo la nostra maschera messicana nel cassetto e attendiamo con speranza il seguito di Youwho.

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Pearl Jam – Lightning Bolt

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La premessa necessaria è che chi scrive questa recensione è una fan dei Pearl Jam. Non una di quelle che va a tutti i concerti, compresi quelli oltreoceano (e ce ne sono parecchi all’interno del Ten Club, l’associazione di fan dei Pearl Jam attivissima da anni nel mantenere i contatti tra la band e i loro ascoltatori), ma una di quelle che suona in una Tribute Band e comunque un paio di date per tour (in Europa) se le fa. Lightning Bolt è stato un album molto atteso e ha subito fatto parlare parecchio di sé, spesso in modo molto negativo. Il disco si apre con “Getaway”, un bel brano d’ispirazione Punk che inizia con un riff in palm muting tutto incentrato su un giro di quattro powerchord sostenuto dal giro di basso e dalla precisione della batteria di Cameron. “Mind Your Manners”, primo singolo di Lightning Bolt, è subito diventato un tormentone per l’uso che ne è stato fatto nella campagna di lancio: tiratissima e urlatissima, è clone o semplicemente costruita sulla falsa riga delle antecedenti “Spin the Black Circle” e “Do the Evolution” (specie per la tematica socio-polemica del testo). Contiene quello che probabilmente è l’unico assolo simile a quelli cui McCready ci ha abituato in vent’anni, per quanto qualcuno potrebbe ulteriormente obiettare sulla brevità. “My Father’s Son” è probabilmente la prima vera canzone debole del disco che, fino a qui, non aveva proprio nulla da invidiare agli album precedenti. “Sirens” è un capolavoro.

Perfetta nella sua semplicità, delicata e impreziosita sì dalla voce di Vedder, come molti prima di me non hanno mancato di sottolineare nelle loro recensioni, ma anche dall’eleganza delle melodie di Stone Gossard, che elabora il tema portante con pochissime note ben amalgamate tra loro. La title track “Lightning Bolt” pecca solo di una patina moderna in fase di registrazione. Se fosse stata composta ai tempi di VS, sarebbe stata una canzone potentissima. “Infallible” è molto intensa, scandita metronomicamente sia dai diversi riff sia dalla voce, ma allo stesso ammorbidita dal trattamento melodico delle tastiere. Segue, quasi senza soluzione di continuità a livello di atmosfere e in un crescendo emozionale, “Pendulum”, una ballad dall’introduzione cupa e lenta, già usata nei live del nuovo tour come brano iniziale, proprio per la grande suggestione che crea: la melodia leit-motiv delle tastiere è onnipresente, in un crescendo che sfocia in un acuto da pelle d’oca di Vedder. “Swallowed Whole” non è proprio niente di che, bisogna dirlo. “Let The Records Play” è la pecora nera del disco: stona per quel riff Blues che la sostiene e sembra essere più un gioco compositivo, una sfida ricercata per uscire dagli schemi preconfezionati, che un brano veramente sentito. “Sleeping by Myself” è pura farina del sacco di Vedder e del suo modus operandi da solista, ma questo non toglie che sia un bel brano, gradevole e leggero. “Yellow Moon” è la mia preferita: l’intro alla chitarra acustica ricorda molto “Low Light”, altro brano storico della band, ma questo non toglie che siamo di fronte all’altro capolavoro del disco, in cui il testo onirico vede la natura impegnata a riflettere e rappresentare i sentimenti della voce narrante, come in quella “Unthought Known” di Backspacer, in cui, non a caso, la luna era protagonista indiscussa.

Il disco chiude con “Future Days”, ballatona romantica con qualche accenno Folk, che nuovamente riflette le esperienze solistiche di Vedder, dolce, delicata e forse un po’ troppo Pop, ma davvero gradevole. E comunque tutto ciò che Vedder canta viene indubbiamente tramutato in oro. Insomma. Lightning Bolt non sarà un capolavoro, ma sticazzi. Si può obiettare che alcuni brani non siano nulla di che e che la disposizione della tracklist bruci le tracce più di impatto in prima posizione, svuoti il centro e si rifaccia verso il finale, ma non è che ogni album dei Pearl Jam sia stato composto di decine di capolavori uno più bello dell’altro e che questo marchi inesorabilmente il declino dei nostri. Stanno invecchiando, cambiano le priorità, cambiano gli argomenti e gli spunti di riflessione, cambia anche il sound, certo, pur rimanendo perfettamente riconoscibili. Ciò che di sicuro non cambia è che i Pearl Jam diano il meglio di sé dal vivo. E non resta che sperare che facciano un salto da queste parti.

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Vote For Saki – Ulisse

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È la seconda volta che mi trovo ad ascoltare un disco dei Vote For Saki, precisamente questa volta a passare tra i mie ascolti è un EP di sei brani chiamato Ulisse. Le mie impressioni rispetto alla volta precedente non sono affatto cambiate, anzi, la corteccia diventa ancora più spessa e la voglia di Rock invade ancora una volta le mie giornate, di questi tempi le contaminazioni sono talmente tante da perdere la memoria dell’origine. Il disco (è un EP ma lo chiamerò disco punto e basta) rappresenta la visione più vorace del Rock, inteso come musica di strada e popolarmente aperta a tutte le genti, a quelli con la puzzetta sotto il naso, a quelli che vivono di espedienti e a quelli che pensano di essere veri rocker pagando centinaia e centinaia di euro per scodinzolare nel backstage di qualche rincoglionito artista americano. Cose che purtroppo accadono ma alla passione non si comanda. Insomma musica per tutti, musica per chi vuole sentirsi vivo. Se poi mettiamo sul fuoco che il disco è cantato interamente in italiano dal frontman Riccardo Saki Carestia dobbiamo ammettere che il miracolo del Rock esiste anche in Italia. E su quest’ultima considerazione avevo quasi perso le speranze. Ma se la speranza è sempre l’ultima a morire i Vote For Saki ci cazzeggiano alla grandissima, chitarra ed armonica a bocca come nei migliori copioni del genere, capello dannatamente lungo e chilometri di strada da bagnare col sudore. Il precedente lavoro mi aveva colpito sostanzialmente nell’intero complesso, ero entrato in simbiosi con tutti i pezzi arrivando alla considerazione finale di un concept strutturato ad arte. Ulisse invece è figlio bastardo della strada, ogni brano vive di luce propria viaggiando in solitudine sul proprio pianeta, tante piccole storie diverse a comporre un libro di racconti piuttosto che un romanzo. Suoni grezzi che non disdicono mai la naturalezza delle sensazioni, brani come “Ulisse” o “Punto e Basta” regalano attimi di purezza incontrastata, il concetto di sperimentazione non entra troppo nelle loro corde ma il risultato è comunque apprezzabile sotto ogni punto di vista. Anche quando sembrano perdersi nella banalità come in “Razza Umana” trovano sempre un motivo valido per lasciarsi ascoltare con attenzione, sarebbe bello assistere ad una live performance, chissà cosa combinano questi Vote For Saki. Un disco (sempre un EP) da prendere in considerazione, la mia votazione rimane sopra una decisa sufficienza perché la band trova nel tempo sempre lo stesso entusiasmo dell’inizio, ho deciso di credere nella loro musica, ho deciso di votare per Saki. Corna al cielo!

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Cinema Bianchini – Qualche Santo Sarà

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La prima cosa che penso quando ascolto “Qualche Santo Sarà” è Jovanotti. La seconda è Grignani. Non perché i Cinema Bianchini siano assimilabili a quello che fanno Lorenzonenazionale o Gianlucatroppobelloperaverecervello; piuttosto perché se da oltre un decennio due riconosciuti campioni di stecca senza tavolo da biliardo, continuano a sfornare dischi che suonino, non dico vocalmente aggraziati, ma quantomeno intonati vuol dire che intonare una linea della voce anche artificialmente (con le immani possibilità del software musicale di nuova generazione) non è così poi difficile. In pratica il discorso è: se addirittura Grignani, da cui ho sentito dal vivo assassinare (oltre le sue, poco male) anche pezzi di Battisti che voleva omaggiare, può fare un disco intonato, ma perché i Cinema Bianchini danno alle stampe un buon disco e poi lo rovinano lasciando tutte le linee di voce stonate? Se è una scelta low profile o low fi, vorrei urlaglielo in modo incontrovertibile, è solo LOW. Anche perché a tratti le linee melodiche dei pezzi di questo sono anche più che accattivanti, sono interessanti e si lascerebbero ascoltare con piacere se non fossero tutte traballanti e incerte nell’intonazione.

Un misto tra Verdena, Timoria dei tempi di “Viaggio Senza Vento” e qualche tirata più Sangiorgesca. Non posso dire che tendenzialmente non possano piacere, posso dire che sicuramente se ne accorgerebbe anche Grignani che il cantante dei Cinema Bianchini stona come un ossesso. Peccato davvero perché anche gli arrangiamenti suonano benino e strizzano l’occhio alla tradizione anglosassone e americana con un batterista in gran forma che dà vita ad un groove danzereccio e non banale. I testi sono ben scritti e nascondono anche qualche bella frasetta da ricordare e sfoggiare con qualche tipa un po’ brilla: “Ci siamo innamorati delle crisi, ci siamo innamorati dell’amore, più dell’amore che della sostanza”. Certo, spero di aver sentito male,  ad un certo punto si sente uno strafalcione grammaticale, un “non smettavamo più” ripetuto due volte in “Mercurio”, che se è una svista è una svista da pennarello rosso nell’occhio; per non dire altro. Concludendo: per essere il primo disco completo, i Cinema Bianchini esordiscono benino, indirizzandosi al segmento dei piccoli adolescenti che si vorrebbero pure emancipare dai loro coetanei discotecari, pur senza grande impegno. Dovrebbero aggiungere all’organico della band due elementi: un Autotune e un correttore di bozze.

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Nuovo album per i siciliani Entourage!

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E’ in arrivo il prossimo 20 Novembre Vivendo Colore, il nuovo album di Entourage, band siciliana composta da Luciano Panama (vox guitar piano), Francesco Piccione (drum) e Paola Longo (bass). Dopo due anni passati nel proprio studio a scrivere e registrare, la formazione torna con 11 nuovi brani di matrice prettamente rock ma che lasciano spazio alle più svariate incursioni. Vivendo Colore segue i due Ep Yoga e Supercar pubblicati dalla band nel 2012 a due anni di distanza dal loro primo album Prisma del 2010. Vivendo Colore è in streaming sul canale Youtube degli Entourage.

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