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White Lies – Big Tv

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Ascolto: serata da divano, senza pretese.

Umore: discreto senza pretendere molto da sé stessi.

White Lies, che bella band. Vi ricordate gli anni 80? Li conoscete davvero o ne avete solo sentito parlare e quindi ne avete parlato di conseguenza, alimentandone la fama? Riformulo la domanda, vostro onore. È vero, era una domanda pretenziosa. Intendevo dire: siete abbastanza vecchi da sapere cosa davvero c’era in quelli che sono stati tramandati come i favolosi anni 80? Io sì; permettetemi di spiegare: negli anni 80 c’era l’esplosione della produttività affarista yuppie e contemporaneamente la vecchia macchina produttiva che perdeva pezzi con le fabbriche che chiudevano. C’erano le orrende spalline e le giacche colorate e la pelle nera dei primi punk. C’erano gli sfigati di nicchia e c’era Sharon Zampetti della terza C. C’erano, nella società come nella musica, degli eccessi che rendevano squilibrata la percezione di quasi tutto; tutto aveva un bianco ed un nero e quasi sempre il bianco e il nero erano in antitesi. O ascoltavi e ti incupivi a bestia con la New Wave oppure ti gasavi emettendo urletti per i Duran Duran (grande band che abbiamo cominciato a considerare tale venti anni dopo quando le adolescenti son diventate mamme e quando ci siamo sentiti più sicuri della nostra personalità per smettere di odiarli solo perché immensamente belli).

Perché questo sproloquio? Vostro onore, presto detto, non sto divagando. I White Lies sono assolutamente anni 80 e lo riconosci da molte cose: dal modo di cantare di Harry McVeigh (simpatico anche da vedere con quel visetto da British polite boy un po’ paffuto stile cicciabombo dei Take That), sempre su tonalità basse e baritonali alla Jim Kerr dei Simple Minds, dai riverberi usati sul rullante o sulla stessa voce, dagli archi sintetici usati a mo’ di tappetone su cui stendere trame di chitarre rarefatte e martellanti, dagli arpeggiatori bassi e da quel modo di intendere le linee ritmiche dritte che più dritte non si può. Del resto, lo dico da quando avevo i calzoni corti, se la canzone e l’arrangiamento sono fatti come si deve la batteria non ha alcun bisogno di schiodarsi dal quattro quarti (vero Rolling Stones?). Rispetto ai primi due lavori la produzione (di Ed Buller, già a lavoro con gli Suede) è più sofisticata e il suono più mainstream, rimanendo comunque coerente con l’impostazione della band; Big Tv è più bello da sentire sull’impianto di casa, qualcuno direbbe estetizzante, per me è semplicemente più figo.

PERO’. In ogni mio processo mentale c’è sempre un’arringa difensiva o un’ipotesi accusatoria che comporta un “però”.

PERO’ i White Lies sono moderni e non sono tristi.

Però i pezzi sono ben architettati e ipnotici ma non soporiferi, ti fanno muovere la testa su e giù come se stai ascoltando i Joy Division ma pure il bacino come se fossi ad ascoltare Simon Le Bon e soci. Senza dimenticare il battito delle mani e lo scrollo alternato delle spalle con o senza spalline.  Si vostro onore, mentre ascoltavo Big Tv mi sono sorpreso a dimenarmi tra il divano e il frigo: lo confesso. Vostro onore sono un po’ coglione? Si, vostro onore. Ma è un gran disco del terzo millennio, altro che anni 80. Ho concluso vostro onore.

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Push Button Gently – Fuzzy Blue Balloon

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In un mese dove l’uscita del nuovo disco dei Pearl Jam doveva essere l’evento musicale dell’anno (ma non lo è stato) fa molto piacere recensire il nuovo lavoro dei Push Button Gently, che dall’Italia fanno capire ai colleghi americani che il Grunge non è morto e che avrebbero dovuto impegnarsi di più. Alla composizione e all’arrangiamento dei brani partecipano: Nicolò Bordoli (chitarra – voce) ex Dirty Sanchez, Natale De Leo(basso), Francesco Ruggiero (batteria) e Julio Speziali (voce – chitarra) di Endigma e Keibe che ha anche registrato il tutto. Il mastering è stato curato invece da Lorenzo Monti al “Le Mont Studio” di Morbegno (So). L’anima di Eddie Vedder & co. sembra essere stata per tutto il tempo della composizione nella stanza in cui il gruppo si è dato da fare, soprattutto in “The Bottle” e nella successiva “Tarpit Cock and the Bazoukie”. Che il gruppo ami sperimentare a livello sonoro è già chiaro dai brani più brevi “Weirdo Will”, “Incoming”, “Go to be Ready” (o got come si legge nel loro bandcamp ufficiale) e “After all this” (che ha l’ingrato compito della chiusura). Esperimenti che ai più potrebbero apparire senza senso ma che se ascoltati nel loro intero contesto hanno un perché e persino un ruolo fondamentale (se non vi dovessero piacere potete sempre mandare avanti il cd in fondo). Un po’ di Stoner, un po’ di Rock anni Settanta e persino qualche influenza da parte dei Radiohead rendono nel complesso piacevole il tutto. In “Kilgore Trout” ci sono persino dei bassi alla Offspring e una voce effettata alla Damon Albarn dei Blur. Sembra quindi non esserci un filo conduttore ma in realtà il senso di tutto ciò è proprio nella varietà dei suoni, mai scontati e banali e sempre curatissimi. Apprezzabile e degno di nota è anche l’artwork di Giorgia Barbieri che non farà certamente rimpiangere l’assenza di un booklet che avrebbe però dato un tocco di classe in più soprattutto se fosse stato curato dalla stessa persona. Non lasciatevi quindi sfuggire questa piccola gemma del sottobosco Indie italiano!

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Kings of Leon – Mechanical Bull

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Chi se lo sarebbe aspettato? Chi avrebbe predetto che un gruppo (come tanti?) di ragazzotti zozzi arrivati dalla campagna americana sarebbe passato dal folgorante quanto grezzo esordio di dieci anni fa ad essere un combo di super rockstar mondiali? Da eccitare poche liceali nerd ad eccitarne migliaia ad Hyde Park? E soprattutto chi non ha pensato che all’incredibile successo di “Sex On Fire” sarebbero seguiti soltanto dei goffi tentativi di rincorsa? Beh, in effetti il successo avrà pure deviato le teste dei Kings of Leon ma, a sentire cosa producono in questo 2013, l’ha deviato in una strada che risulta essere incantevole da percorrere.

Dopo “Sex on Fire” (che era solo il biglietto da visita di un disco mastodontico e mainstream come Only by the Night) è arrivato un disco buono ma un po’ troppo sicuro come Come Around Sundown e soprattutto sono arrivate le liti, gli atteggiamenti sfrontati e una vita a New York City che di certo non ha aiutato i quattro ragazzi della radura. Questo Mechanical Bull era la prova del nove, o dentro o fuori dall’Olimpo del Rock’n’Roll. Già pronto ad essere etichettato una copia della copia, comodo rifugio per potersi permettere una vita sopra le righe. E invece arriva come un lampo a ciel sereno la maturità, la consapevolezza di una band che sul filo dei trent’anni dimostra di essere in splendida forma. Il patto di sangue ora (i quattro in questione sono tre fratelli e un cugino) va oltre la semplice intesa musicale, scava nelle vene e trova un sound sempre più personale, moderno e aperto a miriadi di influenze.

L’attacco del singolo “Supersoaker” mette in chiaro le cose, questo è un disco di Rock’n’Roll compiuto ma che non perde lo smalto in vestiti alla moda o dentro gli iPod dei runners che fanno jogging a Central Park. Non c’è spazio per pezzi spacca classifica, ma solo per grandi canzoni, suonate da una band che esce dalle casse come una sola entità. Niente “Sex on Fire” o “Radioactive” dunque, ma brani ragionati, costruiti e plasmati insieme. Tirati e mollati con dinamica magistrale, senza tendere o rilassare troppo la corda. Una giostra con salite e discese, onde altissime ma mai troppo veloci. Eppure tutto questo racchiude la frenesia degli esordi e l’aspetto più fashion degli ultimi dischi, nulla si scarta ma tutto muta e le parti si complementano meravigliosamente. Si, perché forse la potenza gigantesca dei Kings of Leon è proprio quella di essere evoluti senza stravolgimenti, tutti gli accostamenti ci risultano così naturali. “Don’t Matter” ruba la grinta e la sporcizia di “Molly’s Chambers” mentre subito dopo la linea di basso di “Beautiful War” ci accarezza la pelle. La voce di Caleb manda il pezzo in vetta, il ragazzo ha sempre più carisma e tecnica. Gratta via lo strato roccioso dalle corde vocali per trovare un cuore morbido. “Temple” è una vera bomba che ti esplode nelle orecchie, la miccia prende fuoco facilmente in un ritornello pronto ad incendiare gli stadi. In “Comeback Sory” arrivano le maggiori influenza Southern Rock, dove l’ipnotica chitarra di Matthew dona all’aria il rustico sapore della campagna. Il rullante di Nathan e le pennate di Jared ci introducono “Wait for me” e “Tonight”, due ballate groovose e dinamiche, che ti aspetti da questi Kings of Leon così completi. La loro sezione ritmica rimane senza dubbio una delle migliori in circolazione.

In buona sostanza questo album è grandioso, mette nel piatto tutto quello che sono stati e sono i King of Leon. E ci restituisce una band in grado di descrivere alla perfezione l’albero che ha tirato su in questi dieci anni (è un caso che una traccia si chiami “Family Tree”?). Albero curato dalla dura radice ai suoi frutti più freschi.

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Les Enfants – Persi nella Notte

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Nuovo EP per Les Enfants, band milanese dall’immagine accattivante ed affettuosa: musicisti, ma soprattutto amici (e scout, a quanto pare), che passano il tempo nella loro sala prove non solo a scrivere questo Persi nella Notte ma anche a costruire cose, fare in generale arte varia, e chissà cos’altro. Persi nella Notte, che dura più o meno un quarto d’ora e contiene quattro canzoni più un “Intro”, è un flusso ininterrotto di suoni, spesso notturni, sempre sognanti, sospesi, che stanno tra l’hip degli Arcade Fire e una circolarità alla Wild Beasts. La scrittura è semplice, diretta, lineare e ciò che conquista sono le sonorità, azzeccatissime: i quattro accordi che ruotano lenti come la luna nel cielo, sopra ritmiche dall’economia indovinata, tra soundscape di basso e synth punteggiati di accenni di glockenspiel come stelle, e una voce piena, gonfia di effetti e riverbero, a declamare decisa e quasi disumana nel buio.

Un disco velocissimo, leggero, furbissimo, se vogliamo, cosciente fino alla fine dell’inserirsi in una precisa nicchia di pubblico e quindi utilizzando tutte le armi a disposizione per conquistarla. Intendiamoci, questi Les Enfants mi sembrano persone serissime e rigorose, e dietro ciò non riesco proprio a vederci alcun calcolo: è il loro modo di fare musica che ha un appeal molto contemporaneo e molto “alla moda”. (O forse sono io ad essere un outsider e a non capirci un cazzo. È possibile. Forse addirittura probabile. Me ne farò una ragione).

Persi nella Notte è il disco che vorresti non ti piacesse, perché la band ti sembra addirittura funzionare troppo bene, compatta, sorridente, felice. La felicità, in questi tempi zannuti e ghignanti, è quasi fastidiosa. Poi ti accorgi di essere ancora umano, e vuoi solo sorridere con loro, abbracciarli uno per uno e riascoltarti il disco per capire come diavolo fanno. “Forse da piccolo dovevo fare lo scout, maledizione”.

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Never Trust – Morning Light

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Parte dal 2009 la lunga rincorsa dei Never Trust alla conquista di una posizione di rilievo all’interno del panorama Hard Rock italiano e non. Step fondamentale di questa ardua e sempre onorevole impresa, i Nook Studios di Cleveland, USA, dove la band lombarda registra il loro primo album intitolato Morning Light.  I premi ai contest, le perfomance come opener a colleghi più affermati e gli ottimi live,  diventano, già dall’acquisto del biglietto per gli States, un cereo ricordo, un passato reale, ma solo nell’esperienza formativa personale della band. Per tutto il resto del mondo, conta poco, quasi nulla. Tutto ruota intorno a quelle 11 tracce registrate in terra straniera. Troppo importante l’impatto del primo disco per commettere errori e rischiare di cancellare tutto ciò che di buono li ha portati fino a Cleveland. Ebbene, i Never Trust tornano dal paese a stelle e strisce con un prodotto assolutamente interessante. Fin dalle prime battute della canzone di apertura “Fade Away” il loro Hard Rock (nel loro stile risuonano echi degli Halestorm, dei Fireflight o dei Paramore) e il timbro di voce ringhioso della bravissima cantante Elisa Galli lascia piacevolmente soddisfatti.

Canzoni cariche di adrenalina che aumentano i battiti cardiaci e spingono a smanettare sul tasto + del volume, grazie ad un’ottima batteria che smartella come deve, chitarre decise e violente, precisi assoli. L’energia che trasmettono in ogni pezzo è notevole e il loro sound corposo e allo stesso tempo melodico rende l’album davvero godibile fin dal primo ascolto. Pezzi come, per esempio, “Honey”, “Lucky Star” o “Against the Tide” sono corroboranti ed intense, palesano senza mezzi termini la grinta e la passione dei quattro musicisti. Non mancano, inoltre, momenti leggermente più soft come le belle power ballad “What is Mine”, “Heartbreak Warning”  o “Rebound” le quali regalano momenti più orecchiabili, alleggerendo l’album e mettendo ancora di più in evidenza le doti vocali della cantante.

L’aria degli States ha decisamente giovato alla tempra dei Never Trust, i quali possono ritenersi davvero molto soddisfatti di questa opera prima. Un lavoro completo e ben arrangiato carico di grinta e sudore della fronte che rappresenta esattamente l’essenza musicale di questa giovane band. Se riusciranno a conquistare tutti sarà solo il tempo e l’ascoltatore finale a  deciderlo. Noi per ora alziamo i pollici e lasciamo che il Rock faccia il suo corso.

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Virginiana Miller – Venga il Regno

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Ritornano i Virginiana Miller, ritorna il loro Rock, leggero nella forma ma denso nei contenuti, sbilenco, d’autore. Il nuovo lavoro si chiama Venga il Regno, e ci consegna una band con un’identità precisissima: una voce inconfondibile (quella di Simone Lenzi), sia nel senso più prosaico di espressione canora che in quello di visione poetica, e un sound accessibile, ma con soventi cambi di registro che aiutano a non bloccare l’ascolto ma a mantenerlo vivo.

Venga il Regno è fatto soprattutto da canzoni, belle canzoni: “Una Bella Giornata”, il singolo d’apertura, è il classico apripista, orecchiabile ma per niente stupido, con un preciso senso Pop e un bel tiro consistente (e un testo splendido: “È inutile / lo sai / restare lì nascosta / non è mai troppo presto / per rimettersi in piedi / e rialzare la testa / e se non è domenica / se non sarà più festa / andrà bene lo stesso / perché la vita ti vuole / perché ti vuole adesso / in questa bella giornata / l’aria è pulita / la strada asciutta / la pioggia goccia a goccia / è già caduta tutta”). Ci si scurisce un po’ in “Anni Di Piombo” (secondo singolo) anche se, forse, un po’ meno di quello che ci si aspetterebbe. I Virginiana Miller sono così, chiaroscuri: non sono fatti per vivere di estremi; vivono di spostamenti, di atmosfere, di metamorfosi. Hanno un sapore retrò, da film d’autore (e non sarà un caso il David di Donatello vinto con “Tutti i Santi Giorni”, canzone che dà il titolo all’omonimo film di Paolo Virzì, ispirato ad un romanzo dello stesso Lenzi). Sono crudi e dolci, sono schietti ed eleganti (vedi la commistione di sonorità morbide e testo tagliente di “Nel Recinto dei Cani”: “Venga il regno / e sia dei cani”). Sono spiazzanti: ti preparano alla lentezza e poi procedono per scatti (“La felicità è un dono / passa di mano / e poi si dimentica / raggio di sole / che illumina / si posa sui volti / la felicità è una cosa degli altri”, da “Due”).

Venga il Regno è un disco solido, in cui musiche e testi si attorcigliano e si inseguono, a volte si allontano, a volte combattono, ma sono sempre nel punto giusto, nella direzione che serve. Non troverete nei Virginiana Miller gli alfieri di chissà quale nuovo modo di intendere la musica, ma certamente si confermano dei capaci e affidabili “costruttori di canzoni”. Avercene.

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Matta-Clast – De Morbo

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I Matta-Clast producono, nel loro studio e con la loro Matta Sound, un EP per nervi tesi: diretto, duro, spigoloso. Il loro Rock meticcio si tinge di sonorità Heavy quando spinge, tra batteria Hardcore Punk e voci gutturali e confuse, mescolandosi poi con inserti d’Elettronica grezza e minimale. De Morbo predilige la brevità e l’incisività al discorso composito: brani corti e sottili come graffi, che ruotano attorno a riff inquieti e testi da filastrocca.

Il prodotto, nell’insieme, non è male, ma manca ancora quel tocco originale che potrebbe invogliarci a riascoltare il disco una volta finito. Note di demerito per voce e testi, la prima che stona con l’impianto generale del loro sound, troppo teatrale e pericolosamente vicina al rischio auto-parodia, e i secondi che non brillano d’inventiva e falliscono nel tentativo di incuriosirci e andare ad approfondirli. Interessanti, comunque, “Sono Migliore di Te” e l’introduzione di “Febbre”, dove i Matta-Clast riescono ad inquietarci e a tenerci stretti con spezzoni ritmici aggressivi e dissonanze ossessive. Nel resto del disco tendono a essere più apertamente lineari (“Non Sono in Me”) e questo gli riesce peggio. Un buon tentativo, insomma, ma con ampi margini di miglioramento.

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Fabio Biale – L’Insostenibile Essenza Della Leggera

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Ascolto: di corsa sulla spiaggia. Località: Barceloneta. Umore: come di chi volesse scoprire un altro continente a piedi.

Che voce che ha questo Fabio Biale. Non si può non esclamarlo dopo l’ascolto del suo primo disco. Opera prima molto  buona con alcuni bagliori di eccellenza sparsi qua e là come fiori tra una mattonella e l’altra del pavimento del giardino. Musicisti davvero capaci, arrangiamenti mai banali e archi utilizzati in modalità molto innovativa. Certo, avrei evitato la traduzione di “Psycho Killer” dei Talking Heads, le traduzioni ti catapultano nell’imbarazzo di ricordare che molti testi culto anglosassoni non significano quasi un cazzo ma linguisticamente suonano da Dio. Ti fanno pensare che se De Andrè fosse, che so, di Buffalo pisciava in testa pure a Dylan. Un po’ di indulgenza sulle facili rime e qualche verso davvero azzeccato come “terzo: una richiesta blues ma senza assolo, che se riesco lo suono io mentre volo“. Indomabilmente schizofrenico, questo lavoro ha proprio nell’eccessiva distanza tra i terreni toccati il suo limite. Fabio Biale sembra Fred Buscaglione in  “Al Mio Funerale”, tentativo rauco, ironico e ben riuscito, di immaginare il suo su un tappeto tzigano alla Django Reinhart; sembra Sergio Caputo in altri episodi più attinenti allo Swing da fiati; sembra  i Beatles di “I’m The Walrus” in “Il Fiore Non Colto”, sembra Marco Conidi in “Canzone d’Amor  Per un Nonno Addormentato” (il quale somiglia al Liga, il quale come e’ noto somiglia a Springsteen con la colite), sembra Neil Young nel meraviglioso e commovente quasi recitato “D.C “. Ecco,  l’unico limite di questo lavoro è che Fabio Biale somiglia non ancora abbastanza a Fabio Biale. Ma abbiamo tutta la pazienza di aspettarlo.

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Gibonni – 20th Century Man

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Ha una bella faccia, questo Gibonni (al secolo Zlatan Stipisic), una faccia non più giovanissima ma sbarazzina, accattivante, che te lo rende subito simpatico. E il suo ultimo disco, 20th Century Man, il primo sul mercato internazionale dopo una carriera ultra-ventennale che lo ha visto ascendere alla fama prima in Croazia e poi un po’ in tutto il territorio dell’Ex-Jugoslavia, è fatto esattamente allo stesso modo. Una faccia simpatica, sorridente, con qualche ruga qua e là che però forse non è neanche un male, forse è meglio così.

Come spesso rischiano i dischi di artisti non anglofoni che cercano di buttarsi nel vasto mare del Rock’n’Roll internazionale, si ha a tratti l’impressione che 20th Century Man abbia un sapore un po’ retrò, un po’ “ritardatario”. Ma altri episodi più felici ci mostrano un Gibonni viscerale, con un impronta quasi Soul (non tanto come approccio di genere: un uomo pronto a mostrarsi nudo, a cantare col cuore, con l’anima, per l’appunto). Penso a pezzi come l’opener “Hey Crow”, o l’intensa “My Cloud”, dove il Rock più lineare si batte con influssi Southern e inclinazioni Folk con risultati parecchio apprezzabili. Gibonni perde un po’ la strada quando cerca la consacrazione Pop, costruendo un Rock vecchiotto fatto di fiati e effetti vocali (come nella title track – e forse non è un caso che il disco si riferisca ad un uomo del Ventesimo Secolo – o nella conclusiva “Ain’t Bad Enough For Rock’n’Roll”, dal sound Aerosmith), ma appena dopo recupera facendoci percepire l’intensità delle sue emozioni (“My Brother Cain”), anche se macchiate qua e là da eccessi di retorica (“Kids in Uniform” con il coro di bambini…).

20th Century Man pare proprio essere un disco onesto e sincero, con una produzione eccellente (Andy Wright), leggermente dislocato temporalmente, per l’appunto, nel Ventesimo Secolo. Può non essere un male: si legge tra le righe la passione di Gibonni per quel tipo di sound, e anche solo questo basterebbe forse a riscattare il deja vù di certe scelte. Se quest’aria di nostalgia, questo vento di Rock anni ’80, non vi disturba, Gibonni è un compagno credibile per una passeggiata sospesa tra i Grandi del Rock e gli stadi stracolmi che lo accompagnano nei tour nella sua terra natia (e a questo punto non fatico per nulla a capirne il motivo).

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Cani di Diamante – Le Mie Creature

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Undici pezzi che sanno di amore acido sparpagliato tra arrangiamenti Rock e solide atmosfere pesantemente Stoner, è il secondo disco in studio per i bergamaschi Cani di Diamante, il frutto delle registrazioni completamente in presa diretta si chiama Le Mie Creature uscito sotto etichetta Ulula Records.  Non si scherza affatto con una visione decisamente Rock Italian Style portata gelosamente nel cuore dai Cani di Diamante, forti influenze provenienti dalle band più conosciute del Rock tricolore a comporre questo disco vario e imprevedibile. L’imprevedibilità che Le Mie Creature crea a volte risulta uno scombussola umore per chi ascolta. Il disco è tiratissimo ma con dei suoni vecchi arrangiati e suonati benissimo, la voce “precisina” e“fiscale” potrebbe piacere (perché merita davvero) ma con il rischio di stancare già dal secondo ascolto, esaltazione della tecnica per una mancanza di stimoli, un effetto innaturale quanto costruito a tavolino. Però c’è sempre un però a cui fare capo. Togliamo adesso il fatto che non ci troviamo davanti a nessun tipo di inventiva nel campo musicale e guardiamo il disco sotto la luce di un prodotto “normale” che non vuole fare la rivoluzione. L’album si apre con “Il Cantico”, pezzo bello tosto e dritto dalle somiglianze (soprattutto vocali) molto Litfiba, comunque sia una gradevole soddisfazione. Poi arriva “Seta” con un graffio dispettosamente Grunge. Il resto lo ascolto senza troppo entusiasmo perché non mi emoziono affatto nell’udire canzoni di puro Rock esageratamente italiano con delle chitarre obbligate a suoni molto sporchi per ragione di risultato. La presa diretta della registrazione risulta insostituibile per la riuscita dell’impatto de Le Mie Creature, non riesco ad immaginare una soluzione diversa, la forza dell’album deve tutto a questa scelta. Poi Rock italiano, Rock italiano, Rock italiano fino alla fine dei sensi, con un basso pesante e martellante preso in prestito alla produzione dei Tool o dei Kyuss (a voi il piacere della scelta), e la voce assume qualcosa di diverso in “Viola Cade”.  Poi Rock italiano.

E la sorpresa che non ti saresti mai aspettato arriva proprio nel finale con “Meglio di Così”, brano in cui spicca la notevole partecipazione di Nagaila, la cantante dei viaggi interstellari. Tutto sommato ci troviamo dinanzi un disco valido con alcune problematiche riguardanti la singolarità del sound, viene inevitabile il paragone di somiglianza con questo piuttosto che con quest’altro, Le Mie Creature dei Cani di Diamante risulta poco originale (e questo si era stra-capito) ma dalla buona orecchiabilità, un disco onesto di musica italiana che comunque si difende dalla feccia che ormai siamo costretti a spararci nelle orecchie. Non sarà sicuramente il miglior disco dell’anno ma neanche il peggiore. Un disco di Rock italiano.

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Le Strade – In Fuga Verso il Confine

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Le Strade, un nome molto comune ma che accomuna le vite di quattro musicisti, Alessandro Brancati, voce e testi, Davide Baldazzi, chitarre, Gigi Fanini, basso, e Alessandro Soggiu, batteria e percussioni, che nel 2013 escono con il loro primo lavoro ufficiale. Un esordio quello de Le Strade dal titolo sincero e in questo periodo molto veritiero In Fuga Verso il Confine. Un confine oltre il quale si sogna la libertà, la dignità e soprattutto la consapevolezza di un popolo in declino come quello italiano.

Un Ep che percorre le strade dell’Indie Rock Alternativo, da tutti definito ottimo per il grande potenziale sonoro. “In Fuga Verso il Confine” è anche la prima traccia del disco. Una traccia energica, ritmica, condita da cori e giochi armonici che la rendono la più interessante dell’intero lavoro. Secondo brano è “Aperti al Moralismo” che oltre a confermare quello già detto in precedenza sottolinea maggiormente la via intrapresa che svincola in “T.H.Y (Tell Him, You)” sempre ritmico, travolgente, con cori che non disturbano nella maniera più assoluta, aggiungendo quel quid in più in un brano cupo e notevole nel quale si urla il presente. Suoni arabeggianti fanno capolino nel penultimo pezzo “La Mia Ricerca Della Felicità” che risulta interessante soprattutto nelle parti strumentali che desiderano essere sviluppate. “Il Pezzo” chiude questo lavoro in un modo marcatamente malinconico da definirlo, come già è stato fatto, una sorta di requiem finale che chiude una vita già piena.

Un esordio assolutamente soddisfacente per il gruppo bolognese che dimostra una buona propensione al Rock classico per immergersi totalmente in quello Indipendente italiano, una maturità non indifferente sia per quanto riguarda i testi definiti più e più volte impegnati e sia nella coniugazione tra gli strumenti che risulta ottimale. Un buon inizio, risultato di un lavoro ben fatto e di una propensione comunicativa ben coltivata. Parecchi complimenti a Le Strade che dovrebbero servire a continuare con più forza il percorso intrapreso, senza sedersi sugli allori.

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Lawra – Origine

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Laura Falcinelli dopo le sue esperienze da vocalist con “importanti e noti” artisti come Negrita e Jovanotti  oltre che un esperienza a SanRemo nel 2000 decide di dare spazio alla propria vena artistica registrando il disco d’esordio (tutto suo) Origine cambiandosi il nome in Lawra per omaggiare una città del Ghana a cui evidentemente si sente molto legata, l’Africa gioca un ruolo decisivo per la realizzazione dell’intero disco. Il risultato è un calderone di generi inverosimile, un disco a cui la bella Lawra non riesce proprio a dare una linea artistica precisa, sembra un prodotto esageratamente forzato e maledettamente incoerente. Capisco le intenzioni di miscelare vari generi e capisco la formazione artistica a trecentosessanta gradi di Lawra ma vogliamo anche pensare che quel disco qualcuno dovrà poi sentirlo? Cerchiamo di essere prudenti nelle scelte artistiche, non bastano le varie collaborazioni di spessore per la riuscita di un disco, in questo troviamo Gianluca Valdarnini (Negrita e Roy Paci) e Alessandro Cristofori (Sara J.Morris) più il feat quasi totale di B.B Cico”Z (Roy Paci), fare musica dovrebbe essere una condizione interiore necessaria prima di risultare soltanto apparenza. La voce di Lawra è molto bella e decisamente professionale, non parliamo certo di una emergente inesperta, il suo tono molto caldo e sensuale recupera qualche consenso ad un disco improbabile e senza via d’uscita, il manuale perfetto di come esordire nella maniera più sbagliata possibile. Dieci pezzi che spaziano senza logica dal Reggae alla musica tribale africana passando per accenni di Rock in chiave Dub, qualcosa preso singolarmente riesce anche a salvarsi ma in quel pentolone ribollente non riesco neanche a trovare la forza di ripetere gli ascolti. Un altro caso di artista che non riesce al proprio debutto da solista a lasciare il segno come avrebbe sperato, certe volte è meglio rimanere nella propria dimensione piuttosto che avventurarsi in esperienze completamente negative, ma come diceva un vecchio detto: “Sbagliando s’impara!”.

Lawra troverà la propria dimensione e riuscirà a trasmetterci emozioni con le proprie doti canore che sono certamente sopra la media, per adesso Origine rimane un disco poco incisivo e senza personalità, non aspettiamo altro che rivedere Lawra in una veste tutta nuova e con un lavoro degno della sua fama. La prima questa volta non è andata bene, speriamo nella seconda.

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