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Mark Lanegan & Duke Garwood – Black Pudding

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Mark Lanegan non è nuovo alle collaborazioni e questo connubio con Duke Garwood è azzeccatissimo. Chitarre sovrapposte, arpeggi eleganti e percussioni abissali per farci trasportare in questo fondale che è la musica di Lanegan. Garwood è un ottimo chitarrista e Mark, in un’intervista, rivela di aver sempre sognato di lavorare con lui un giorno, marketing a parte. Tutto il resto lo fa la sua voce che molti paragonano a Tom Waits o alla profondità di Leonard Cohen. Ed è così, nulla da eccepire, voce meravigliosa, stupenda. Qui voglio solo sottolineare che in questo album in particolare, la cadenza Minimal Blues la fa da padrona anche sulla voce. E se qualcuno dicesse che ascoltandolo tutto si annoia, probabilmente non si è lasciato trasportare da questo mood che riporta il Blues sui palchi del Rock. C’è da dire che chi si aspettava un lavoro simile agli ultimi da solista troverà sicuramente uno scostamento, soprattutto con il Lanegan degli esordi, ma nulla di stravolgente siamo comunque più o meno in linea con il precedente Blues Funeral uscito l’anno scorso. Probabilmente l’avanzare degli anni sta tingendo sempre più la sua anima “nera”.

Il titolo dell’album la dice lunga sulle loro intenzioni, Black Pudding, letteralmente “Budino Nero”. Non ci vuole molto a capire, ascoltandolo troverete ambientazioni Blues fatte da sfumature nere e malinconiche tipiche di questa musica. Tra i brani consiglio l’ascolto di “Mescalito” stupenda ballata lisergica con drum machine di sottofondo ad alzare il tiro o la passionale “Sphinx” che contribuisce a rendere l’ album un cult.  “Death Rides a White Horse” con la splendida chitarra di Garwood, un ronzio di violino in sottofondo,e la sua infinita poesia è il pezzo che più riassume questa impresa. “Cold Molly” e le sue percussioni sintetiche che la rendono incredibilmente sensuale (provare per credere). E “Shade of the Sun” brano fortemente spirituale dove Mark chiede a un Dio, indifferente nei suoi confronti e che vuole allontanarlo, di liberarlo dalle sue pene: “Kept a hammeringawayat the gate / I kept a-knocking / But I was far too late”. Tutto questo accompagnato da perfette ritmiche e arpeggi profondi di chitarra nel puro stile dei due.

Nel complesso l’ascolto conduce ad un’atmosfera che potrebbe essere perfetta per una colonna sonora di un film, ha tutte le carte in regola per condurre una narrazione on the road. Un connubio di chitarre Blues con la profonda voce di Lanegan, indiscutibilmente eccezionale, accompagnata da Garwood con i suoi  sottofondi campionati al dettaglio per centellinare la pienezza del suono e completare questa strepitosa opera.

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Le Pistole Alla Tempia – La Guerra Degli Elefanti

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Si presenta bene fin dal primo brano, questo La Guerra Degli Elefanti, degli incazzati Le Pistole Alla Tempia. Un disco, e una band, con le idee chiare, e, perlomeno musicalmente, concepito benissimo, tra cavalcate Rock gonfie e distorte, arrabbiate e sintetiche (l’opener, che è anche la title track, “Non ti Cercano Più”) e ballate più intime ma pur sempre appassionate (“Insieme e Basta”). Una voce che ricorda quella di certi Negrita, un impianto che quanto colpisce duro ricorda un Il Teatro Degli Orrori alleggerito, o qualche visione di profilo dei Bachi da Pietra.

Liricamente passano dalle stoccate ficcanti di un pessimismo diretto e brutale (“qui ti fa tutto schifo e lo sai / ma ci sei nato e ci morirai”, da “Ealù”) a piccole pennellate di saggezza spicciola, ma non per questo meno sensate (“come elefanti che si fanno la guerra / si combattono e è l’erba / a rimanere schiacciata”, ispirata ad un proverbio africano, dalla title track). Mancherebbe solo una spinta in più, un salto ispiratore, uno sguardo appena più personale, che ci faccia decisamente stracciare la veste e gridare al miracolo, ma per la funzione destabilizzante che un disco di questo tipo può (e vuole) avere, i racconti minimali girano a dovere, incanalano la rabbia e la disillusione e l’amaro che questo mondo ci lascia dentro in modo essenziale ma funzionale. Rimane un po’ la delusione per certe cadute di stile, sottolineature un po’ troppo retoriche, tentativi di racchiudere vicende complesse in una canzone (“Cesare”, ispirata alla vicenda di Cesare Battisti, o “Nazione Sleale”) che raramente portano a risultati interessanti se non si hanno le capacità poetiche adatte (e qui si rischia, si rischia grosso).

La Guerra Degli Elefanti è in equilibrio tra l’immediatezza hard del Rock alternativo, breve e fulmineo, con certi richiami sia alla scena contemporanea indipendente che al glorioso Rock italiano degli anni ’90, e alcuni sprazzi riflessivi e più sfaccettati (penso all’intermezzo verso il finale di “Sylvia”, a “Casa Bianca”, brano lento, toccante e misurato, o l’ultimo pezzo, “Nazione Sleale”, con forse, come dicevamo, troppa retorica, ma snocciolata su di un altrimenti godibile tappeto di chitarre acustiche e violini). Un buon lavoro per Le Pistole Alla Tempia, che spero riescano nel tempo a limare le imperfezioni (soprattutto nelle liriche), per giungere ad un insieme sempre forte, sempre trascinante, ma più sensibile, meno cheesy. Le potenzialità ci sono tutte.

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Bakunin – Bakunin EP

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Ispirati forse dal padre russo dell’anarchia moderna, i Bakunin, con questo nome e album omonimo, ci presentano un extended play d’esordio Garage Punk che va a pescare spuntinelle vecchie generazioni rocker degli anni Settanta. Di strada da fare i Bakunin ne hanno tanta; non riesco a trovare elementi innovativi nella loro musica. Chitarra, basso, batteria non fanno nulla in tutti e cinque  i brani per uscire dalla canonicità di un ci “stiamo provando” e risuonano già sentiti e noiosi alle mie orecchie. Ora il lavoro va sempre premiato ma in questo caso non sento né ricerca del suono, né nel ritmo, né un modo originale di cantare a squarcia gola. I gruppi Garage Punk in Europa e USA stanno facendo passi in avanti in questi ultimi anni, cercando sempre nuovi modi per spiattellarti la realtà addosso; provate ad ascoltare i canadesi Metz o i più vicini danesi Ice Age (anche se tacciati di essere filo Nazi per i tatoo) per avere conferma. Questo lavoro non ha niente d’esaltante se non la voglia di emergere della band e la spensieratezza tipica del Punk.

I Bakunin hanno ancora molta strada da asfaltare. Soprattutto dovrebbero discostarsi, se intendono ampliare il proprio pubblico e cercare di farsi spazio nelle solite litanie Punk Rock improvvisate. Chiariamo un concetto: non è che se il Punk è facile da suonare allora basta un ritmo serrato, una chitarra distorta, voce urlata e spensieratezza. Potrebbe bastare tutto ciò ma se non ti muovi dalle “solite cose” non fai passi avanti e vieni percepito come “scontato” da chi ascolta. Nel complesso l’album è pieno di licks, refrain, riff e triads già sentite e superate. Ascoltate “I Wanna Get You” per un lik scandito a 4/4 sul rullante, “I Love You” per un refrain che sa di già ascoltato o il riff iniziale di “Mum” e “Street” per le triads. Di certo non manca la grinta ma da sola non basta, non ci si può fermare alle apparenze ma bisogna andare oltre e creare un progetto con un’idea ben precisa.

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Primal Scream – More Light

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Certo, le folgorazioni e le stimmate che Screamadelica ha fatto portare sullo spirito e sulle corporalità di una generazione sonica erano ben altro, ma  – col senno di poi e trasfigurando i Primal Scream in questi primi tredici anni degli anni 00 – quello che si può dire e giurare con mano alzata e che sono la prova vivente di un simbolismo Rock coi contro cazzi, una particolarità importante nella scenografia sterminata del Rock che seguita a bruciare storia e sound al pari di una fiaccola perenne che illumina ancora strade e fisse da percorrere.

Bobby Gillespie e Soci tornano a sonorizzare i nostri giorni con “More Light” sulla distanza quinquennale che lo separa dal precedente (insoddisfacente per molti agguerriti fan) Beautiful Future, e guardando la “gente che affolla” questo album – Kevin Shields, Mark Stewart, David Holmes e, udite udite, Mr. Robert Plant, già viene l’acquolina in bocca circa quello che ci aspetta, ed è una rigenerazione di alto livello, una variazione sul tema che la band si fa carico e ne fa una sequenza di sentimento, lampi e gioia intime che tengono sotto controllo, saldamente, una audizione privilegiata e piena di regali suspance.

Con gli Stones e carature Welleriane in ogni parte del corredo sonoro, i Primal Scream rilanciano sonorità e raffiche di felicitazioni radiofoniche che sono strettamente emozionali, tolgono di molto quell’acido con cui li abbiamo conosciuti e prendono in prestito atmosfere mid-armoniose, con fiati e spruzzi di sandalo orientale che insieme alla psichedelica di base e strani concetti (rispettabilissimi) di una Manchester ancora (virtualmente) in fibrillazione, formano un sound totale fecondo e in certi casi minimale “Elimination Blues”, “Relativity”; ma è la consistenza, la roboanza e l’uso Rock dello spazio intorno che sobbalza al Funk sincopato che sbrana “Culturecide”, il giro noise “Sideman”, la valutazione di un area franca dai ritmi spaccati “Turn Each Other Inside Out” o la stravagante ballata corale e folkly che esce da “It’’s Alright , It’s Ok” a fare di questo disco un bel rientro per questa formazione cha – sfidiamo chiunque a dire il contrario- ancora  è “massa critica e massa distorta”, giovane con i muscoli tonici.

Chi ha arte, la fabbrica e la diffonde non muore mai, Gillespie e Soci sopravviveranno ad Armageddon e crisi di stile, e (meno male) che noi non ci possiamo fare niente!

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Vietcong Pornsurfers – We Spread Desases

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Beata ignoranza. Quanto mi piacciono i gruppi così diretti e sfrontati. Pochi fronzoli e buona musica rabbiosa. Sbava dalle casse e mischia la sua saliva con il sudore che si genera già dal solo tasto play del lettore CD.
I Vietcong Pornsurfers (e il nome è già un “fottutissimo” programma) vengono dalla Svezia ma per loro fortuna non si sente troppo. Tutto si può dire ma non di certo che siano i soliti cloni di Backyard Babies, The Hellacopters o Hardcore Superstar.Certo, i maestri scandinavi echeggiano non troppo lontani nelle sonorità dei quattro ragazzacci, ma la base rimane ancorata al vecchio Garage Punk americano e all’Hard Rock più veloce e grezzo che ci sia. Allora onore a leggende come Iggy and The Stooges, MC5, Misfits e Motorhead. Il risultato? Rozzo come un topo di fogna e frenetico come un bolide ai 200 kilometri orari.

Il combo è giovane ma ha la faccia come il culo, la sfrontatezza giusta. Lo dimostra allo start con “Marcel”, chitarre distorte al punto giusto (scelta molto apprezzata), cassa e rullante da cardiopalma e la voce di Tom K a metà tra James Hetfield e Rob Tyner.   La bomba è servita e pronta ad esploderci tra le mani. Semplice e d’effetto: nulla di nuovo eppure un sound spensierato, alcolico e per nulla scontato o banale. Come altre band del recente passato i Vietcong Pornsurfers danno grandi speranze al loro genere. Con una terribile facilità sparano fuori un prodotto convinto e moderno, nonostante in tutto questo ci siano i soliti vecchi e ritriti giri di accordi Punk Rock. La stessa sensazione mi è capitata negli ultimi anni con Buckcherry, The Gaslight Anthem e Gotthard. Tutte grandissime band, a mio avviso troppo sottovalutate.

Paragoni a parte, l’album scorre e la sensazione dall’inizio alla fine è quella di correre a più non posso per scappare da una miriade di dobermann incazzatissimi. Nessuna ballata, tutte tracce killer. La botta è reale e lo stomaco la sente tutta. Dall’inizio bassoso molto Danko Jones di “Dead Track” alla viscerale distorsione vocale (lo conoscono bene il Garage eh?) di “Selfdestructive” che sfocia in un assolo impazzito simbolo di una produzione molto libertina ma non per questo meno efficace della miriade di prodotti iperlimati e infiocchettati che invadono la scena. Degne di nota “Deseases” (accompagnata da un divertentissimo video, guardate sotto!): inno alla musica di Lemmy Kilmister, ma anche grido unito per tutti i disadattati che ancora oggi credono in quella illusione che prende il nome di “Rock’n’roll”. Già perché la sensazione è che i “surfers del porno” non abbiano alcuna intenzione di piacere a qualcuno se non a loro stessi. Anche il singolo “I Hate Your Band” non scende a compromessi, nessun ammorbidente, nemmeno quando emergono i coretti più Glam/Sleaze del ritornello.
Non mi resta che rispondere alla domanda che mi affligge ogni volta che ascolto un disco del genere. Il Rock è davvero morto? La risposta più spontanea che mi viene è: vaffanculo, no!

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Kingshouters – You Vs Me

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You Vs Me è l’esordio degli italianissimi Kingshouters, quattro ventenni che citano tra le loro influenze nomi della caratura di Smashing Pumpkins, Placebo, White Lies e 30 Seconds To Mars.

Il disco, prodotto da Michele Clivati (già nei Nena And The Superyeahs e al lavoro con Dolcenera, Denise, e Francesco Sarcina, tra gli altri), suona preciso, tecnico e potente quanto serve per ricordarci che anche in Italia si possono produrre lavori capaci di competere con la musica internazionale mainstream del momento. Le ritmiche schiaffeggiano, “finte” come prevede il dress code del Rock anglosassone contemporaneo, sorpreso a voltarsi, come la moglie di Lot o come Orfeo, verso le sonorità che gli anni ottanta del secolo scorso continuano a rigurgitare. Le chitarre frizzano e pungono, come vette di iceberg immersi in mari di synth simil-Dance (vedi “Levels”, cover della hit del dj svedese Avicii). La voce non spicca per timbrica, ma supporta in modo degno melodie Pop che incorniciano il tutto senza strafare.

Certo, ci si potrebbe chiedere quale bisogno ci sia di un disco così: magari il tentativo di far vedere che anche il Bel Paese può tentare la strada del Rock internazionale (tentativo pur sempre lodevole), anche se forse, come diceva qualcuno, “chi se ne frega di essere Zucchero se c’è già Joe Cocker”. L’importante, al di là delle chiacchiere sui massimi sistemi, è che i quattro Kingshouters facciano ciò per cui sentono di essere stati chiamati, e che lo facciano bene. Sul secondo punto non abbiamo dubbi. Al resto, penseranno le orecchie degli ascoltatori e la giungla discografica. Per ora, limitiamoci a sentire questo tamarro You Vs Me col gusto un po’ peccaminoso del giocare con i vestiti dei genitori – grottesco, ma necessario, e soprattutto, divertente.

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Kali – Darkroomsession EP

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Un progetto abbastanza diverso dal comune. Infatti i Kali, band piemontese che prende in prestito il nome di una divinità indiana, ci propongono un Ep-Video-Live Darkroomsession che serve non solo come anticipazione al loro album che uscirà nel 2013 ma anche per sottolineare il profondissimo amore per l’atmosfera live.

Tre brani, “Liberami”, “Smalto Rosso” e “Radioclima” accompagnati e arricchiti nei video dalle loro emozioni live. Esperienze che poi si trasformano in parole, emozioni, flashback per dar vita ai loro pezzi che come si sente da questa anticipazione nuotano nelle acque Rock- Pop, condite con un po’ di elettronica, o forse come loro stessi scrivono un rock viscerale unito a melodie Pop, che prende vita in una Darkroom, una stanza scura in cui ci si toglie la maschera, in cui non é permesso parlare. Una darkroom che ritroviamo in tutti e tre i video, una stanza poco illuminata da quattro riflettori in secondo piano, ma certamente ravvivata dallo strano Sapiens Sapiens con i capelli rossi, nonché la cantante Federica Folino, la cui voce non prevede nel gusto vie di mezzo e quindi può solo essere odiata o amata, accompagnata poi dalla chitarra di Fabio Pastore, dal basso di Luca Sasso e dalla batteria di Andrea Morsero.

Un lavoro nato quindi su questa formula un po’ live un po’ EP, non necessariamente rilegata  alla solita classificazione, ma forse quel un po’-un po’ è l’elemento che stona, perché l’idea del progetto è buona ma il contenuto dei video appare un po’ troppo scarno, dato che ci si aspetta un po’ più di “live” rispetto a quello che c’è. Sembrano tre video uguali tra loro se non fosse per i brani che li contraddistinguono. Brani che comunque hanno in sé un buon colore Rock e una buona registrazione. I Kali dopo questa presentazione e i live in giro per l’Italia hanno in programma di passare l’estate in studio per la messa a punto dell’album e per cucirsi addosso i vestiti come i buoni sarti, ma anticipano già che non ci saranno orli da rifare o bottoni penzolanti. Noi non possiamo far altro che augurarglielo e aspettare di sentire l’album definitivo.

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Ministri – Per un Passato Migliore

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Io e i Ministri abbiamo un rapporto travagliato. Scoperti in tempi non sospetti quando li vidi aprire un concerto di Caparezza nel lontano (credo) 2008, seguiti in quell’inferno del Rocket di Milano a farmi cantare ad un metro di distanza alla presentazione del loro primo EP La Piazza, ho consumato, in quegli anni, il loro esordio I Soldi Sono Finiti. C’era eccitazione, intorno ai Ministri. Facevano rock, duro, diretto, ma anche melodico, semplice, popolare. Era la nuova canzone italiana, o almeno sembrava.

Poi uscì Tempi Bui, che a parte un paio di episodi non mi convinse più di tanto. E, dopo, Fuori, dove riuscivano a riprendere qualche filo interrotto nell’album precedente, ma dove ancora sentivo una qualche disarmonia generale.
Tutto questo per dire cosa? Che, all’uscita di Per Un Passato Migliore, primo disco (dall’esordio) senza la Universal, non sapevo cosa aspettarmi. Torneranno a fare I Soldi Sono Finiti? Ma perché, poi? Continueranno sulla strada, scalena e incostante, degli altri due dischi?

E invece no. I Ministri ripartono da zero, o meglio: dalle basi. Si spogliano di tutti gli orpelli e fanno quello che sanno fare meglio: scrivono, suonano, gridano, cantano canzoni. Né più né meno. Una batteria (mostruosa, le vere fondamenta di tutto l’impianto), un basso, chitarre (dai suoni pieni e allo stesso tempo distanti, confusi e totali, con inserti azzeccatissimi, minimali ma fondamentali) e voci (su cui è stato fatto un lavoro esemplare: costruite una sull’altra, quasi mai con una linea sola, con suoni che ripropongono fedelmente il range vocale di Divi, dal sussurro profondo all’urlo graffiante), il tutto, immagino, anche con l’apporto sapiente di Tommaso Colliva (già al lavoro, per dire, coi Muse) .
E le canzoni, è soddisfacente dirlo, sono belle. Ognuna con un motivo d’esistere, ognuna con qualcosa da dire, con qualcosa che ti fa tornare a riascoltarla, per trovarci, ogni volta, qualcosa in più. Sono brani semplici, ma non è una critica. È rock italiano puro, melodico, orecchiabile ma che spinge quando s’arrabbia, che colpisce forte quando vuole fare male. Così come i testi, criptici, ermetici, ma con quel verso, quell’immagine che non puoi non fare tua, che non puoi non ripeterti nella testa a disco finito.

Ci sono quindi gli inni, canzoni potenzialmente “simbolo” (cosa che ai Ministri riesce particolarmente bene): parlo dei due primi singoli, “Comunque” e “Spingere”, che nei ritornelli dipingono un mondo perdente, sporco, distrutto, ma allo stesso tempo gonfio di voglia di vivere, di “provarci comunque”, di (per l’appunto) “spingere”. C’è la rabbia intensa e pungente di “Mille Settimane”, l’amaro di “Stare Dove Sono” (“e se a togliere i colori / fossero proprio le ambizioni?”), la durezza de “Le Nostre Condizioni”. Ma c’è anche la sofferta e cupa “I Tuoi Weekend mi Distruggono” (“la guerra è semplice ma io / che cosa voglio distruggere?”), la disperata “Se si Prendono te”, la toccante “Una Palude” (“volavo sopra le nostre case / non c’era niente di eccezionale / non è un segreto che la terra sia / una palude senza di te”). “Caso Umano” è 100% Ministri, tremendamente seria ma con un afflato ironico che sa anche divertire, così come il piccolo pastiche “Mammut”. Completano il quadro “La Nostra Buona Stella”, una delle mie preferite (“il mondo è solo una sensazione / di cose che succedono altrove / e dentro me ci sono tutti i pianeti / e le stelle lontane che mi cercano ancora”), “I Giorni Che Restano” (“per dare il nostro nome a una scuola / dovremmo morir tutti in una volta sola”) e l’orecchiabilissima (paradossalmente) “La Pista Anarchica”.
I Ministri, insomma, fanno un disco dei loro, ma andandoci a mettere solo ciò che serve, e niente di più. La loro è una poetica del “noi”, un’epica del fiore nel deserto, del cristallo in un mondo di pietre, dell’amore nella melma. È rock, è italiano, è popolare: è un compromesso solido e riuscito tra “indipendenza” e mainstream. E questa volta c’è poco da fare o da dire: si prende Per Un Passato Migliore, lo si infila in uno stereo e si fa, per l’ennesima volta, play.

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SouLOfmyShoEs – Montagne EP

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Altri quindici minuti circa in tutto aggiunti al mosaico. Come in una sorta di quadro impressionista, Soulofmyshoes aggiunge, a distanza di un paio di anni, altri piccoli, microscopici contributi al suo mondo musicale. Un progetto solista nato, pensato, creato all’insegna del minimalismo, dall’idea stessa di forma canzone, evanescente e stralunata, alla registrazione e produzione autogestite e degne del più autentico fai da te possibile. Già dalle premesse il genere scelto da Davide, autore del tutto, non può che essere un ovvio Post Rock, Indie come tanti, come milioni di altri in giro per il mondo, quelli della generazione che il Rock ormai è morto e hanno visto tutto e sono già abbastanza stufi di tutto. Tutto tornerebbe, e forse la recensione non varrebbe neanche la pena scriverla, vista l’importanza minimal, la brevità dell’intero progetto etc etc…se non fosse che…se non fosse che la classe non è acqua. E questo ragazzo, con quel paio di musicisti che lo supportano, ne ha da vendere a destra e sinistra.

Montagne riprende il primo Ep dove lo aveva lasciato e sospira lento e intimista con la sua stessa pulsazione. In un quarto d’ora condensa originalità e stile in modo sommesso e, al tempo stesso, sorprende per il gusto nella scelta degli accordi e delle melodie che ricama. Senza urlare a sproposito e con il dovuto senso di proporzionalità avete presente Bad Timing di O’Rourke? Ecco, per capirci è lì che siamo. Quell’aria Post Rock che quando la scopri te ne invaghisci senza neanche accorgertene e quando te ne accorgi te la tieni stretta gelosamente. Quell’idea musicale che ama essere ascoltata meno volte possibile per non distruggere quella sensazione di piacere e sorpresa che fornisce quando si scopre che “la generazione senza più Rock nelle vene” è, seppur a dosi molecolari, in grado di partorire piccole, microscopiche, quasi invisibili gemme.

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Paolo Cecchin – Quanto Valgo?

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Tutti almeno una volta nella vita si sono fatti la domanda Quanto Valgo? Ma non tutti alla fine si sono dati una risposta con estrema verità, al contrario del cantautore vicentino Paolo Cecchin che su questo interrogativo esistenziale fa nascere un intero lavoro discografico, precisamente il secondo. Come per tutti i maggiori cantautori l’amore di Paolo per la musica nasce precocemente, ascolta i Beatles, i Nirvana, impara a suonare il pianoforte, la tastiera e la batteria, suona in gruppi tributo di Pink Floyd e Neil Young e da questi grandi impara tantissimo e guarda oltre fino a volersi esprimere da solo. Registra una cinquantina di canzoni, nel 2010 esce il suo primo album Nel Mio Mondo e nel 2013 Quanto Valgo?, formato da undici brani che finalmente hanno una loro precisa ragion d’essere sia singolarmente che nel lavoro complessivo.

Una cover di Ivan Graziani “Pigro”, un brano “Lettera al Mondo” scritto da Stefano Florio e nove pezzi originali di Paolo Cecchin, con testi profondi e tormentati, che spaziano parlando della libertà, dell’essere “Alternativo”, del ricordo del padre, dell’amore e della solitudine. La strada musicale è quella Rock di matrice Indie Pop, nella quale finalmente si scorgono energie diverse, più forti e adrenaliniche come in “Quanto Valgo?”, “Alternativo”, “Lei, “Confesso”, rispetto a brani più lenti come “Dentro Me” simile a una ballata “veloce”, “Da Te Ritornerò” e “Fuoco”. Un vero viaggio, delle vere storie per un album tenuto per mano, come si vede dalla copertina, al suo interno pieno zeppo di fotografie dell’infanzia, del passato e del presente musicale. Un saluto a suo padre e via verso un’arte che non viene fatta per caso, ma intarsiata minuziosamente di ricordi ed esperienze.

Un secondo album piacevole da scoprire e ascoltare, fatto per necessità di esprimersi e non per voglia di esibirsi, come spesso capita per quegli artisti/gruppi un po’ vuoti di sostanza ma pieni di apparenza. Un album concreto che va riascoltato volentieri, anzi, che si deve riascoltare se si vogliono scoprire quelle sfaccettature non saltate all’orecchio al primo ascolto. Un album dove io non trovo difetti, poi sta ai gusti di ognuno capirne i significati e trovarne i pregi…

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Venus in Furs – BRA! (Braccia Rubate All’Agricoltura)

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Come si può diventare grandi in pochi giri di stereo si potrebbe dire o senza passare per le forche caudine di qualche concordino pseudoindie, fatto sta che come la rigiriamo i discorsi sono a zero, loro, i livornesi Venus in Furs non la mandano a dire, e col nuovo disco BRA (Braccia Rubate All’Agricoltura) si lanciano sugli ascolti con una frenesia rockettara bombastica, quasi monumentale che scava e si fa intendere senza tanti convenevoli.

Dunque la Toscana come nuova fucina underground, e i Venus in Furs non fanno nulla per tenere il loud sotto i limiti, un incedere di elettricità e ritmo, liriche e pedaliere che da il fiatone e non da nulla per scontato se non per certi riffoni carsici – ma giusto un pelino –  alla Zeppelin che arrivano a ondate per tornarsene poi nel loro Olimpo ispirativo: sei tracce col ghigno della suadenza amplificata, un piccolo manifesto urbano che si scuote e scuote tra schegge heavy e spavalde freschezze estemporanee, e durante lo scroller della tracklist la consapevolezza netta di avere tra le mani e orecchie un ottimo lavoro underground si fa nitida, reale.

Disco d’assalto, con i denti aguzzi e qualche dolcezza nascosta, tanti gli obiettivi della società pragmatica e musical-cretina colpiti senza pietà e suonato senza nessuna remora falso perbenista, tracce che folgorano nel profondo e con altissima qualità: gli hook diabolici “Leggins”, gli Zoso diBlack Dog” che passeggiano distratti nella tracklist e in “Sotto stress”, lo Shuffle Crooner  “Nel Nome Del Padre” e due stupende innocenze inaspettate che arrivano per mettere un asterisco in più sulla tara generale, ovvero il bisbiglio alla Edda del periodo Ritmo Tribale “Via Del Cappello” e quello strabiliante tuffo Soul-Gospel in un Mississippi de’ noantri che infrange il muro della goduria straniante “Nel Blues Dipinto di Blues”.

Decisamente credibile e incredibilmente deciso.

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I Valium – Revolution

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Si definiscono, abbastanza pomposamente, “new beat, un genere nuovo, maledetto ed elegante, fantasioso e noir, che scompone l’epoca beat e la dissacra, trasformandola in un fenomeno di costume contagioso e radical chic”: sono I Valium, band salernitana con dieci anni di vita, diverse demo e un disco alle spalle (l’esordio La Maledizione Sta Per Arrivare), tornati oggi con il nuovo  Revolution, registrato nell’estate 2012 in presa diretta per dargli un calore vintage.E infatti il calore c’è tutto: il disco suona ruvido, a grana grossa, una trama spessa che dona la giusta intensità al loro Rock retrò, che prende a pieni mani (per l’appunto) dalla scena Beat italiana degli anni ’60 (“Cuore di Rubik”), sporcandola di Garage (“Io Sono un Punk”) con qualche richiamo (ma nemmeno troppi) all’indipendenza contemporanea (“15 Anni”) e al Rock italiano anni ’90, pace all’anima sua (“Tu Fai i Conti Con il Diavolo”). Ci sono chitarre taglienti, riff nostalgia, una voce piena di personalità, alta e teatrale, ed un impianto che, per la maggior parte, gioca, si diverte, ride e sorride; a volte sghignazza, più raramente ringhia, ma sempre con uno spirito da Secondo Dopoguerra, da musica suonata come una volta. Tastiere e cori ci riportano direttamente ai quei grandi gruppi italiani del passato che facevano del Rock oltre (-manica e -oceano) la loro diretta ed ovvia ispirazione (citati dagli stessi I Valium: Equipe 84, I Corvi, I Ribelli…).

Un disco per nostalgici? Certo, ma non solo. Un disco di buon Rock degli anni d’oro, fatto con mestiere e simpatia, e soprattutto senza prendersi troppo sul serio, che non fa mai male. Il New Beat? Secondo me non esiste, ma, ciononostante, perché non farsi una passeggiata sul viale dei ricordi con I Valium?

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