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The National – Trouble Will Find Me

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Pubblicare nuovo disco non sempre può confermare all’eccelso una nuova fase o al meglio una nuova direttrice sonora da far poi intendere agli accaniti fan sempre pronti a discreditare il loro beniamini ad ogni passo;  il quintetto dell’Ohio, The National, ci provano a rimboccare le identità del loro essere musicisti di tendenza, compongono e solidificano il loro sesto disco per la 4AD e lo mettono al giudizio degli ascolti, e subito si nota che la tendenza generale della tracklist è che tutti gli arzigogoli di contrasto, quei sogni disturbati e visioni troppo farcite da parafrasi sono quasi scomparsi per fare posto ad un groove molto, ma molto più rivolto su sé stesso, che si guarda dai piedi alle ginocchia e che apre forse un nuovo corso degli Americani..

Trouble Will Find Me si avvicenda all’orecchio con un incedere strisciante, che si apre piano piano prima di sfoderare il suo animo scuro, quel bel fangoso che tanto piace alle devozioni di un certo post-rock riletto in chiave indie, una dimensione sgranata che è languida come un tramonto d’amore, come una improvvisazione d’animo dopo una mezzanotte pensierosa; undici tracce volutamente sfocate, nebbiose e tardo romantiche – in certi aspetti – ma che seguono il loro andare fluente, la loro crescente struttura per una volta tanto lontana dai voleri forzati delle aspettative; poche orchestrazioni e nulli gli avvitamenti distorti, la stupenda voce baritonale di Matt Berninger fa da collante tra il sound sempre tenuto sui toni in minore e le atmosfere ricercate delle settime alte “I Should Live In  Salt” o nelle incursioni fool che “Don’t Swallow The Cap” semina nel suo passaggio; un disco che distilla tabù personali ed intimità “Demons” come protegge l’ossessione delle illusioni “Graceless” per portarle poi a sospirare in un febbrile ma sedimentato patos di sintetizzatore insinuante “Heavenfaced”.

I The National non sono più ragazzini di quartiere, sono maturi e hanno voglia di sperimentare, andare oltre il consueto costrutto, e questo nuovo lavoro di certo non sbalordisce, ma ha un suono dell’anima che – senza tanto confondersi – è rassicurante e mette in pratica quello che forse non riusciamo più a comprendere, persi e  distratti come siamo.

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Morfema – Tutto Bene Sulla Terra?

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Sembrerebbe una domanda retorica quella che intitola il primo album dei Morfema: Tutto Bene Sulla Terra? E pensandoci attentamente la risposta sarebbe: non tanto, data la crisi economica, l’inquinamento e la cattiveria umana. Ma la cultura, l’arte e la musica la salvano questa terra così maltrattata, abitata però da ragazzi che suonano, scrivono e girano, come il cantante Stefano Gamba, i chitarristi Virgilio Santonicola e Roberto Cucchi, il bassista Maurizio Nembrini e il batterista Matteo Zorzi che dal 2009 formano i Morfema.
Nel gennaio 2013 esce il loro primo album Tutto Bene Sulla Terra? che a guardare la copertina di sfuggita sembrerebbe tanto un album Hip Hop, per quel ragazzo seduto su un divano in mezzo alla strada con il capo chinato e coperto dal grande cappuccio, in realtà è un lavoro che suona nei suoi sei brani molto Rock, Noise-Pop, Post-Rock ma comunque è una bella grafica in quei colori di una città che lasciando il pomeriggio si inoltra nella sera.

Tutto inizia con “Prop” nel quale si sentono piacevoli momenti chitarristici anche abbastanza lunghi e parole che sfortunatamente non si distinguono molto bene, che diventano malinconiche ma con molti punti di forza nel secondo brano “Hassan”. “Malibù” invece si presenta molto Pop-Rock nella sua concezione romantica, “cercherò un po’ di sonno per aver visione ancora di te” che si trasforma in un lungo testo fatto di rimpianti in “Hermione”. Nel penultimo brano “Montmartre” ancora tanti i momenti e le sfumature rock in un impasto sonoro molto molto piacevole, che però si rinchiude nella struttura un po’ ripetitiva (dei brani) e nella vocalità che dovrebbe lasciarsi andare. “12.13” è il brano che chiude l’album e nel quale troviamo ancora una volta una percezione malinconica del mondo “non mi accorgo del rumore che conosco, diventa buio davanti a me, guardo avanti e non vedo niente”, tutta plausibile dati i tempi che corrono in Italia soprattutto per i giovani e in maniera particolare per la musica.
Un album quello dei Morfema nel quale si sente l’amore per la dimensione live, come loro stessi sottolineano nella loro brevissima biografia. Infine quindi potrei dire che Tutto Bene Sulla Terra? è un primo lavoro soddisfacente, che però manca di inquadrature testuali e marchi vocali nei quali immedesimarsi totalmente. Sperando che con il tempo questi elementi si possano trovare nei lavori futuri e noi gliel’auguriamo.

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Bicchiere Mezzo Pieno – Il Contrario di LOL

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Inizio col dirvi che il voto che ho appioppato a questi stramboidi del Bicchiere Mezzo Pieno per il loro esordio Il contrario di LOL è un voto gonfiato. Nel senso: prendendo le sei canzoni di questo variopinto Ep autoprodotto una per una e valutandole singolarmente, probabilmente non arriverei a tanto; e, similmente, senza aver letto la loro presentazione al disco (disponibile sul loro Soundcloud), difficilmente sarei stato così bendisposto.

Intendiamoci, non sarei sceso di molto: Il contrario di LOL è divertente, scritto e suonato bene, colorato e simpatico, pieno zeppo di cose diverse. C’è il Rock, generico e ampiamente declinato in tutte le salse; c’è il Folk, da chitarra acustica e da lunghe code parlate, quasi teatrali; c’è un’infarinatura Punk nell’anarchia totale delle variazioni sul tema. Il Bicchiere Mezzo Pieno è un frullato di spunti, di idee, di visioni allucinate (o forse anche troppo lucide).

I punti in più il Bicchiere Mezzo Pieno se li piglia per tutto l’impianto architettonico che sottende a Il Contrario di LOL: l’idea dell’arrangiamento misurato al contenuto del pezzo, o le citazioni, infilate per analogia o contrappasso, così come i sotterranei riferimenti “meta” al senso dell’Arte, e quindi della Musica e della Canzone (“Non Chiedermi ti Prego”, “Cabaret”) – un tocco sensibile che, forse, dev’essere ancora sviluppato al massimo, per centrare il punto con più efficienza, più sicurezza, più chiarezza (verso l’ascoltatore – non diciamo, per l’amor di Dio, “medio”… però ecco, se magari non fosse assolutamente necessario leggere un papiro di spiegazioni varie per capire tutto questo, non sarebbe male… no?).

Ecco quindi confessati i miei peccati: un voto leggermente gonfiato, causa intelligenza suggerita, ammiccante, semi-nascosta. Attendiamo nuovi sviluppi per poter elargire voti più sinceri, ma con gli stessi applausi.

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“Diamanti Vintage” Frank Zappa – Hot Rats

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Disco che fece saltare i già esplosivi fine Sessanta, la miccia accesa vicinissima alle polveri eccitate della controcultura americana, non ancora al massimo dei suoi fuochi d’artificio. Dopo la sbornia con le Mothers of Invention, Frank Zappa, il joker supremo di Baltimora, riforma la line-up della formazione, chiama a sé i violinisti Don “Sugar” Cane e Jean Luc Ponty, il mito Captain Beefheart, Underwood e una jungla di ritmiche e da vita agli Hot Rats e al primo album omonimo con questa nuova band pirica il boom non si fece certo aspettare, l’America perbenista non si sentì più al sicuro.

Distanziato di pochissimo dal precedente Uncle Meat, il disco è una geometria stralunata e ricca di etiche al contrario, un forgiato immaginario rock oltraggioso, contro a tutto, controcultura della controcultura, scene off e Living Theatre che riesumano vizi immacolati dell’underground appiccicandogli addosso particolarità oltre limite; un disco che -se rapportato con le produzioni antecedenti- porta le sue direttrici verso il mondo Jazz Progressive, mondo in cui Zappa sembra votato e in cui innesca un groviglio di sperimentazioni succulente che rimarranno nella storia, come il gioco di sax free che psichedelizza la speciale “The Gumbo Varations”, inno e bardo insuperato della prosopopea del cosmique zappiano.

Hot Rats è un progetto sostanzialmente sperimentale, con poche linee guida e molte infiltrazioni Bop, definizioni e termini sonori che si scavalcano a vicenda per dare fondo a un amalgama generale squisita e molto incentrata nel piacere di suonare un multistrumentale energetico che non ha precedenti, libero nelle partiture, anarchico nel cammino: fuori dei canoni e delle teste benpensanti il ghigno drogato di Beefheart in “Willie The Pimp”, la rilettura ammorbidita e molto freak di “Sons Of Mr. Green Genes” – già contenuta nel disco Uncle Meat – il viaggio alterato dei confini oppiati di Hammond e piano “Little Umbrella” o le ipotenuse scombussolate che “It Must Be A Camel” lascia a fine giro, come un arrivederci in una forma pura di allucinazione.

Zappa e gli Hot Rats in quel lontano 1969 saranno destinati a raccogliere i frutti di una meticolosa semina che tutt’ora è linfa, ispirazione e suoni di cui ogni band a venire non potrà mai farne a meno, come i dieci comandamenti, come l’ossigeno per vivere di musica e non solo.

 

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Mr. Furto & Lady Paccottilla – Water Blues Ep

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Un mondo acqueo e distorto, dove il blu della profondità diventa Blues, disordinato e semplice. Parlo del (piccolo) universo di Mr. Furto & Lady Paccottilla, duo di Cremona (gentiluomo lui, fanciulla lei, basso lui, batteria lei). Water Blues, questo il titolo dell’EP, contiene 5 brani, di cui uno, la title track, sta sotto il minuto e mezzo ed è più che altro (o almeno credo) una scusa per dare il titolo al disco. Si dicono curiosi di capire quale etichetta può venir loro affibbiata: secondo me fanno (per l’appunto) del Rock-Blues con una punta di Lo-Fi (la batteria, dritta e lineare, in primis, ma anche la semplicità caciarona delle linee di basso, distorte e blueseggianti, e la voce, cupa, scura, gonfia – che esce molto bene in un pezzo energico come “Endless Riot”, suona creepy quanto basta in “Stonhead”, nel resto naviga). Insomma, sono tipo i  White Stripes (e glielo avranno detto tremila volte), ma non è solo per il duo uomo-donna con lei alla batteria, è il mix di Rock/Blues/semplicità dell’insieme che porta la mente ai coniugi White. Poi, ok, non ne hanno la follia né il virtuosismo – ma vabbè, stiamo parlando del maledetto Jack White, non ci sono paragoni che tengano.

Mi ha cambiato la giornata, questo Water blues? Non molto, devo ammetterlo. Ma qualcosa d’interessante c’è: saltando a piè pari la prima parte, il disco si eleva all’arrivo di “Endless Riot”, muscolare e ficcante, per poi volare alto con “Kazakh March”, brano che chiude l’EP, e che più si discosta dal modus operandi messo in atto nel resto del lavoro. Meno Blues, più ossessivo, più intrigante (a mio modesto parere).
Insomma, stoffa ce n’è, curiosità di vederli dal vivo pure, manca forse un po’ di delirio, uno scombinare le carte più radicale, più energico. Forza, e avanti con un full lenght. Fatemi sapere.

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Perturbazione – Musica X

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I Perturbazione si sono costruiti, nel tempo, una reputazione adamantina e inossidabile: fin dall’ottimo In Circolo (passando per Canzoni Allo Specchio e Pianissimo Fortissimo,  arrivando a quel capolavoro che è il doppio Del Nostro Tempo Rubato) hanno saputo porsi come alfieri del pop indipendente semplice ma intelligente, curato ma diretto, malinconico e simpatico insieme.
Col nuovo Musica X, che esce in allegato col mensile XL, proseguono sul percorso tracciato fin dagli esordi in lingua italiana: canzoni brevi, immediate, di un pop anche radiofonico, orecchiabilissimo, da canticchiare fino alla nausea. Allo stesso tempo continuano a raccontare (e raccontarsi) nel loro distintivo timbro agrodolce, in cui riflessioni quotidiane si mescolano a voli pindarici di carattere più generico, ma sempre con pacatezza, con umiltà.

I Perturbazione danno il loro meglio nelle tracce più intime, quelle dove si mettono a nudo: sono brani emozionanti, in cui ti accorgi di essere quasi imbarazzato dalla loro schiettezza, dal loro candore; poi ti rendi conto di provare le stesse cose, e inizi a sentirti nudo anche tu. Penso a “Diversi Dal Resto”, dove ci raccontano quanto siamo tutti condannati alla banalità, o a “Mia Figlia Infinita”, una canzone d’amore disarmante, sincera, vera, travestita da canzone “di guerra”. Stesso discorso per “Monogamia” o “I Baci Vietati” (con Luca Carboni): sono discorsi che tutti ci facciamo, ma spesso in solitudine, facendo finta che certe cose non ci tocchino; e sentirli espressi con così tanta facilità è liberazione e disagio insieme.
Più generiche e su varie gradazioni di riuscita il resto del disco: la title track, inno sui generis alla musica, vissuta ovunque e comunque; la stramba “Ossexione” (con Erica Mou), litania/filastrocca sull’onnipresenza del sesso nelle nostre vite; la didascalica “Questa è Sparta” (con I Cani), che dipinge un ideale di bellezza senza il quale “si sanguina e si muore”. Discorso un po’ a parte per la conclusiva “Legàmi”, che racchiude un po’ quell’anima del disco che canta di rapporti, di relazioni, di scambi, e per il primo singolo, “Tutta la Vita Davanti”, ennesimo esempio di come alcuni gruppi indipendenti possano competere con il mainstream anche in termini di piacevolezza immediata dell’ascolto (se questo brano passasse ogni mezz’ora su una qualunque radio nazionale, il disco scatterebbe in classifica dopo una settimana o due, al massimo).

Musica X è un disco piacevolissimo, di musica leggera ma bella, scritta bene e suonata con mestiere. È intelligente, simpatico, malinconico, emozionante. È una nuova tappa del percorso dei Perturbazione ed è decisamente all’altezza della loro storia. Si parlava tanto di un cambio di sound (con la produzione di Max Casacci dei Subsonica e con l’utilizzo più intenso di qualche aggeggio elettronico), ma, anche se una differenza certamente si può notare, non è che un vestito leggermente diverso su un corpo che è rimasto lo stesso (ed è la cosa che conta). Trovata la formula, tutto il resto è puro contorno. Musica X è un disco dei Perturbazione e, elettronica o meno, vale la pena farselo cantare.

Anteprima XL. Perturbazione - La vita davanti from videodrome-XL on Vimeo.

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Officina della Camomilla – Senontipiacefalostesso

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Quando ti sei fatta la fama di smonta-cd a forza di rifilare dei 2 e invece inizi a ricevere dischi veramente pregevoli, aspetti l’inversione di tendenza da un momento all’altro. Non è ancora arrivata l’ora di ricominciare a sbuffare e storcere il naso e faticare per arrivare al fondo di un album, però, perché mi arriva questo irriverentissimo Senontipiacefalostesso, creatura dei milanesi Officina della Camomilla. Un ascolto solo e già li si ama per la loro abilità nel mal celare volontariamente tutta la profondità di cui sono capaci. Amore, disillusione, solitudine metropolitana e quella costante sensazione di asfissia dell’uomo soffocato da se stesso, sia psicologicamente, sia concretamente, tra l’architettura urbana che non ha nulla a misura d’uomo, questi ragazzi ci offrono canzoni in cui si parla di una bruttezza preconfezionata, venduta e servita come bellezza. Fanno i punk e piaceranno anche agli hipster. Il disco si apre con sonorità alla Strokes, con echi di quei gloriosi Sixties che per noi hanno un sapore così fresco e pop, che tanto emerge in “Dei Graffiti al Mercato Comunale” e in “Morte Per Colazione” e il suo eco geghegé e la frase, che colpisce per gli accostamenti, «Nell’azzurro dei cazzi miei». La scanzonatura prosegue in “La Tua Ragazza Non Ascolta i Beat Happening” (con quel «Siamo pieni di droga la la la la» che tradisce una sofferenza sociale profonda, affrontata con un’ironia graffiante resa ancora più densa dalla lallazione non sense, che invece che alleggerire il tutto fa scuotere la testa). “Agata Brioche” è quasi Folk, con un certo gusto francese per le sonorità, che si riscontra anche in “Un Fiore Per Coltello”, con molti riferimenti testuali pop (da Monica Vitti al Walkman, dal frigorifero ai quadri di piante) e autoreferenziali, in cui l’autore dice di ascoltare musica orrenda, di ribaltare i poeti e di non avere voglia di vedere nessuno, in una romantica ricerca di rifugio nella solitudine. “Città Mostro di Vestiti” è, invece, un divertissement con un’introduzione pianistica che ricalca un carillon, mentre in “Lulù Devi Studiare Marc Augé” la de-identificazione dell’individuo moderno è richiamata dall’antropologo maestro del Nonluogo, che distingue spazi realizzati intorno all’uomo e spazi, al contrario, che non hanno nessun riferimento storico, nessuna funzione aggregativa, nessuna particolare identità. Torna il rock’n’roll anni ’60 in “Le Mie Pareti Fluorescenti di Nord-Africa”, che cede di tanto in tanto il passo a una marcia, in stile Beatles. Il degrado urbano è il protagonista di “La Provincia Non è Bella da Fotografare”, mentre squisitamente Punk adolescenziale è “Ho Fatto Esplodere il Mio Condominio”. “Pegaso Disco Bar” inizia con uno sfruttamento del rumore alla Sonic Youth che cede il passo in breve a sonorità liquide, con un cambio di ritmo che diventa pesante e dilatato. “Ti Porterò a Cena Sul Braccio di Una Ruspa” ironizza sull’amore, sui ruoli, sulle convenzioni sociali ne rapporti di coppia, mentre la traccia di chiusura “Senontipiacefalostesso”, che nulla ha a che vedere col titolo, è una ballata tradizionale con tanto di archi, una sorta di delicata confessione sentimentale («Ti ho sempre chiamata, senza sapere il tuo nome»). Nessun lamento sterile, nessun compianto, nessuna autocommiserazione. In tutto il kitsch che viene descritto nel disco, in tutta la disillusione che porta a desiderare la solitudine in cui in fondo già si è, si sente una voglia di vivere con un’energia genuina e un’attitudine Punk che non cede mai, però, alla volgarità gratuita, alla provocazione tout court come negli ultimi esiti nostrani del genere (e mi riferisco al Management del Dolore Post-Operatorio). Ascoltatevi questi Officina della Camomilla perchè meritano davvero un po’ del vostro tempo.

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Stefano Bartalesi – Mezzovòtomezzopieno

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Parto prevenuto su questo disco, perché Stefano Bartalesi, che firma tutte le musiche di Mezzovòtomezzopieno, è un chitarrista: scopro dai credits che suona “chitarra acustica, dobro, mandolino, lapsteel elettrica”, e che è circondato da una band, batteria basso chitarra voce. Già mi immagino un disco fintamente colto, roba simil-Jazz o quasi-Classica. “E dai, spariamocelo”. Lo infilo in auto mentre sto andando a grigliare allegramente per il Primo Maggio, sfrecciando perduto in una campagna assolata. E Mezzovòtomezzopieno mi sorprende.

Già dal primo pezzo, “Solo Amore”, stranissimo brano uptempo sulle orme di Battisti, con un testo che non brilla ma di cui posso tranquillamente ignorare le parole per concentrarmi sulla linea vocale retrò e sulle ritmiche ballerine. Proseguo con la title track, e inizio a notare il doppio binario che caratterizza il disco: brani cantati, più “popolari”, affiancati da brani strumentali (lunghi brani strumentali), in cui Bartalesi sviluppa le sue doti chitarristiche e il suo talento compositivo. A questi ultimi appartiene “Mezzovòtomezzopieno” (la traccia), ossessivo e ritmico danzare di dobro, basso e chitarra elettrica. Più avanti, “Urlo” continua la sequenza strumentale, per poi farci approdare a “Se Chiedi”, cantata, dove si arretra un po’ rispetto alla sorpresa iniziale (è un pezzo effettivamente più classico, dove la voce di Andrea Bacchi, invece di stupire, si ritira su posizioni più impostate e decisamente meno interessanti). A seguire “Dobro Jutro” e “Aria”, cavalcate  strumentali, “I Giorni”, cantata (più intimista, col solo accompagnamento di Bartalesi alle chitarre acustiche, dobro e mandolino), e di nuovo le lunghe strumentali “Lo Scoglio” (molto orecchiabile) e “Picture In A Picture” (in cui le acustiche, il dobro e la lapsteel si inseguono tra riff catchy e suoni pizzicati ruvidi e molto naturali).

Dopo aver grigliato, bevuto e digerito, torno in auto per ri-godermelo nel ritorno campestre. E metto sicuramente più a fuoco ciò che di questo disco non funziona. Lo sintetizzerei così: c’è talento, ma non c’è sforzo. Se c’è, doveva essercene di più. In che senso? Nel senso che Mezzovòtomezzopieno sembra un patchwork, un mostro di Frankenstein. E, anche se per alcuni versi questo è un bene (l’equilibrio – sebbene precario – tra musica strumentale e “virtuosa” ed episodi più popolari e di facile ascolto pare reggere anche al secondo passaggio), il resto fa sembrare questo disco un’accozzaglia di brani (anche piacevoli) messi assieme un po’ per caso e buttati lì come esercizio compositivo/virtuosistico. Non c’è qualcosa che leghi i brani tra loro (e se c’è non si nota), e in più si respira un’aria di approssimazione (qualche errore ritmico di batteria impossibile da non notare, il booklet in cui manca un titolo, i testi non eccelsi – anzi…).

Concludendo: il disco è ottimo per scampagnate ad alto volume, o anche per tuffarsi senza troppi pensieri in mari di corde, istintive e grezze, ma anche immediate e, stranamente, non noiose. Per cercare qualcosa di più, o aspettate il prossimo lavoro del Bartalesi, sperando che sia più ragionato e meno “di pancia”, oppure navigate verso altri lidi (che non mancano).

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Il Terzo Istante – Forselandia

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Forse esiste ancora musica da conoscere. Forse gli orizzonti da esplorare non sono finiti. Forse la terra non è già tutta battuta e non c’è bisogno di riadattare il solito ed ormai arido paesaggio, sperando che i cambi di stagione conferiscano a lui una veste nuova. No, forse c’è ancora chi indossa una muta da esploratore in cerca di terre mai calpestate, con il rischio di rimanere impantanato in sabbie mobili. Forse è caparbio e impavido, o forse più semplicemente ha fortuna, in ogni caso quello che a noi interessa è che riesce ad ottenere un ottimo risultato con la magnifica naturalezza della musica pop.

Il secondo EP dei torinesi Il Terzo Istante ha dunque un titolo azzeccatissimo. “Forselandia” esprime al meglio la scoperta di un nuovo mondo, ma anche di nuove indecisioni, di vecchi vizi e nuovi desideri e (forse?) di una società che vuole cambiare, che trova in nuovi orizzonti nuove speranze ma (forse?) non ha nessuna intenzione e stimolo nel raggiungerle. Tutto ancora molto vago e per questo tremendamente affascinante. Certo che se l’analisi si ferma al suono, la band suona terribilmente nuova e moderna e non solo perché sfrutta tutte le nuove diavolerie del caso (leggete la loro intervista a Rockambula sul crowdfunding e capirete come sono all’avanguardia i ragazzi) ma perché, a partire dallo strampalato combo batteria-chitarra-tastiera, il loro sound è molto semplicemente fresco e spiazzante.

Le quattro tracce dell’EP spaziano tra la psichedelia (sempre ben dosata e tenuta al guinzaglio), il rock più viscerale e la melodia dei classici italiani, mai ripudiati o intrappolati nel muro di suono. La voce di Lorenzo De Masi (anche alle tastiere) graffia la schiena già nel ballo storto de “Il Primo Difetto”, pezzo molto intelligente e dedicato al vizio del fumo. Il ritmo non si smorza e si continua con la danza tetra di “C’è Chi Non Muore”, a graffiare qui ci si mettono anche le strisciate sulla chitarra taglientissima di Fabio Casalegno, a dire il vero spesso fin troppo tagliente nell’economia del suono. Anche la mancanza del basso a volte lascia un po’ la bocca impastata, marcando una leggera mancanza di amalgama e di pasta sonora. “Ogni cosa è di Tutti” è spietata e cinica ma non scade nelle solite banalità da giovane disilluso. Le ritmiche storpie di Carlo Bellavia aumentano il senso di angoscia e ci portano barcollanti ad una frase epica: “di una cosa sei certo, nel 70 il rock’n’roll era già morto”. Certo che ascoltando questo pezzo mi viene da pensare che non sia proprio così.

L’EP si chiude con la ballata “Forselandia”. L’equilibrio è più che mai precario e l’idea geniale dello xilofono a questo punto del disco sembra quasi naturale. Spunta l’ombra malefica degli abusatissimi Radiohead, ma Il Terzo Istante paga il suo scomodo tributo e supera il pesante paragone facendo vincere la propria entità in un finale ricco di delay, suoni lontani e un crescendo che ci lascia sospesi in questo nuovo mondo. Attendiamo ancora qualche altra cronaca da questi abili e astuti esploratori. Abbiamo trovato qualcosa di nuovo all’orizzonte. Forse.

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Shed of Noiz – Re: Son

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Ci son voluti poco più di quatto anni per la pubblicazione del primo album degli Shed of Noiz, band fondata da Mattia Salvadori, Dario Sardi, Giulio Panieri e Luca Bicchielli che esordì dal vivo al premio “Rossano Fisoni” nel dicembre 2008.
L’impatto con “Re: Son” è davvero all’insegna del Rock anni 2000 con la titletrack che mette subito in chiaro che la stoffa del gran disco c’è anche se con la successiva “Inno Qui” il gruppo riesce persino a superarsi nella bravura e nella precisione, con un sincronismo davvero perfetto.
“Immutevole” invece inizia con tutta l’irruenza che avrebbe un pezzo dei Rage Against The Machine (molte le similitudini con “Killing in The Name of”) e la lingua italiana non limita la violenza sonora anche se rimarrebbe da porsi la domanda “ma come suonerebbe in lingua anglofona?”.

“Corri Dora” invece riprende la dolcezza dei Marlene Kuntz, quelli di “La Canzone Che Scrivo Per te” tanto per capirsi, ma lascia anche spazio a rari momenti un po’ più impulsivi ed aggressivi.
“Psico Area” se il disco fosse in vinile sarebbe l’ideale inizio della facciata b, per il suo spezzare il tutto, perfetta nel suo ruolo da spartiacque sonoro con “Aurora” altra traccia dalla delicatezza unica e dal testo molto profondo (bellissimi i versi “dentro il vento io mi trascinerò nel silenzio se ti incontrerò”).
“Senza Peso” avvicina l’ascoltatore alla fine (peccato!) con sonorità che ricordano da vicino i PorcupineTree di Steven Wilson e Richard Barbieri e si conquista il ruolo di piccolo fiore nel giardino del moderno rock progressivo.

“Infetto” chiude all’insegna del miglior Stoner all’italiana ma anche dei Queens of The Stone Age e Tool, tanto per non perdere i riferimenti esteri.
Una prova di esordio insomma perfetta in ogni singolo dettaglio con un drumming sempre impeccabile e preciso a far da padrone con basso, chitarre e voce non relegati  al ruolo di semplici comprimari come spesso succede in questi casi ma a quello di protagonisti di un’amalgama che ha davvero dell’incredibile.
Peccato solo che le tracce siano appena otto, sarebbe stato perfetto magari includere anche gli ep  Shed of Noiz (2009) e Primates (2010) anche per non perdere il filo del discorso di una maturità acquisita negli anni grazie anche a tanti concerti a fianco di band quali Ministri.

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Settembre Nero – La Dittatura Del Piano B

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Duro come l’asfalto, decadente come un antico palazzo abbandonato in periferia e spaventoso come il gruppo terroristico da cui prende il nome. Questo è il sound dei Settembre Nero. E non dimentichiamoci il nero, senza alcuna sfumatura se non quella del grigio nebuloso di una sigaretta ormai sull’orlo del filtro.
La band nasce un paio di anni fa da un’idea di Nino Tosh, musicista torinese non di certo nuovo alla scena underground per aver militato in band come Petrol, Mambassa e Betty Page. Il progetto viene portato avanti e trova poi il suo giusto equilibrio nel 2012 con l’ingresso nella band di altri due nomi altrettanto conosciuti nel panorama piemontese: Vito Guerrieri alla batteria e Franco Cazzola alle chitarre e tastiere.
Il suono e l’attitudine non sono nulla di nuovo, ma quanto c’è una botta del genere è difficile rimanere indifferenti. E la botta la si assapora maligna e assetata in questo album di esordio, che come ogni album di esordio che si rispetti, pecca di magnifica immediatezza e irrazionalità. Testi ermetici, ripetitivi, martellati in testa da melodie semplici e ritmiche da hangover violento. Pochissimi fronzoli e un cuore metallico che pompa sangue sporchissimo.

L’apertura con “Boia di sé” ci fa subito capire che di sfumature di colore non ce ne saranno molte e le luci rimarranno spesso spente, gli unici barlumi arriveranno dal fuoco e dai lampi. L’elettronica fa da padrona e il lavoro dei ragazzi dietro i beat assassini è stato magistrale. Il corpo si sbatte da una parte all’altra di un corridoio stretto, avanza strafatto a zig zag con gambe pesanti e testa ubriaca di rumore. “Fiore Nero” presenta una tastierina dai richiami new wave sotto l’uragano di chitarre, “Che Cosa Dire Di Noi” pare affievolire un poco la violenza inaudita in cambio di melodie più ragionate e articolate, senza rinunciare alla azzeccata cantilena martellante. I nervi non si rilassano mai.
L’episodio più riuscito rimane “Sexy Kitten #1”, perfetto esempio di vento analogico dal sapore rock’n’roll mischiato alla digitale e onnipresente tastiera robotica (dal vivo fidatevi che questo pezzo spacca in due gli stomaci). Il suono sembra sempre impacchettato e un po’ ovattato e rimane forte energia potenziale pronta ad esplodere, quasi come se fosse fiero di vestire underground, onorato di stare nel sottosuolo.

Oltre le sette tracce sono poi presenti vari remix più o meno tamarri ad aumentare il nostro vagare in questo claustrofobico labirinto. Il tunnel sembra riecheggiare e rimbombare anche al suono della cover Beatles “Helter Skelter”, perfettamente riadattata al suono nero di Settembre senza rinunciare ad una chitarra figlia della vecchia scuola. Si il rock’n’roll rimane vivo e vegeto anche in questo tornado digitale, e chi l’avrebbe mai detto?

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Acid Tales – Here Comes The Storm BOPS

Written by Novità

Gli Acid Tales sono un gruppo di origine molisana che vede nella sua formazione il contributo di Vincenzo Cervelli, scrittore romano. La band si forma nel 2011 e mette il Rockpiù tradizionale al centro della sua musica cercando di creare un clima da cantautorato made in USA fatto di quel mix più vario di Blues, Folk e Countryche caratterizzavano gli Stati Uniti negli anni settanta.

Here Comes The Storm è l’extended play, primo lavoro degli Acid Tales. Quattro brani di buon Rock vecchia maniera. Apre il disco “Lose… Win” chitarra ritmata e voce dura per questo pezzo di vita vissuta; si prosegue con “A New Day”, rullata e arpeggio aprono il brano che avanza in un crescendo evocativo come se cercasse di buttarsi qualcosa dietro. Sembrano la versione Rock dei Social Distortion. “Here Comes The Story” brano omonimo che da il nome all’EP è anche il brano che più lo caratterizza, una storia raccontata con assoli alla Dire Straits. Chiude questo lavoro “Lookin Truth”brano che, a mio modo di vedere,  sintetizza l’album meglio degli altri.

Nulla di nuovo sul fronte Acid Tales, un extended play ben curato che ricalca la più recente storia del cantautorato statunitense.

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