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Geddo – Non sono mai stato qui

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Geddo, cioè Davide Geddo, cantautore ligure d’alta scuola, propone questo Non sono mai stato qui: un disco ampio, strutturato, sfaccettato (14 brani per un’ora e qualcosa di musica) che è praticamente un’enciclopedia del migliore cantautorato italiano. C’è veramente tutto, qui dentro: c’è il Folk, il Manouche, il Blues, il Rock leggero all’italiana; ci sono fiati, duetti vocali, violini, slide guitars, pianoforti. Ci sono canzoni ironiche e briose (“Piccolina”, “Angela E Il Cinema”), episodi più pacati (“La Campionessa Mondiale Di Sollevamento Pesi”, “L’Astronave Di Provincia”, “Venezia”), brani intensi e appassionati (“Equilibrio”, “Non Sono Mai Stato Qui”). Si sentono, in controluce, anche tutti i Grandi: la tradizione ligure, De Gregori (la partenza di “Un Pugno In Un Muro” sembra quella di “300.000.000 Di Topi”).

Non sono mai stato qui è un disco suonato veramente bene, dove gli accompagnamenti non si appoggiano mai, anzi, cercando di seguire le evoluzioni stilistiche del padrone di casa senza mai strafare, senza mai lasciarsi al caso. Insomma, mi ripeto, suona decisamente bene: la produzione è ottima e il livello medio degli arrangiamenti è piuttosto alto.

Devo ammettere che stavo per partire prevenuto, su questo disco: il cantautorato contemporaneo che si rifà più massicciamente al passato rischia spesso di essere una copia sbiadita degli originali, o, peggio, una caricatura in cui toni e movenze tipiche del genere si intensificano fino a sfiorare il ridicolo. Geddo invece mi ha stupito: riesce tranquillamente ad evitare tutto ciò, soprattutto grazie al suo modo di scrivere, che è alternativamente poetico e ironico, serio e divertito, regalandoci liriche a volte intense, a volte simpatiche, ma sempre intelligenti, quasi mai sopra le righe.

Se proprio qualche critica al disco dev’essere fatta, punterei sul rischio della mancanza di originalità, che è ovvio in un tipo di musica che riprende molta della storia passata del genere. E forse sulla voce del Nostro, che è sì versatile, ma non ha il timbro magico di certi cantautori del passato. Ma questo è mero esercizio retorico: prestate un orecchio al caro Geddo e fatevi raccontare una storia o due. Male non vi può fare.

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Come Gatti Nell’Acqua – Paranoighnen Activity

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Talvolta i musicisti, volendosi allontanare dalle etichettature e dai generi, affermano che la loro musica non appartiene a nessuna categoria ben definita, quando in realtà esiste eccome. Altre volte invece il genere musicale muta, di album in album, facendo allontanare dei fans, avvicinandone degli altri. Oppure per sperimentare al massimo si cerca di non rinchiudersi in una sola idea, spaziando attraverso le diverse combinazioni musicali esistenti, come hanno fatto quattro ragazzi di Predazzo, che in questa realtà si sentono Come Gatti Nell’Acqua. Affermazione molto chiara e condivisibile, data la condizione odierna della gioventù, sballottata tra l’idea del presente e del futuro assolutamente incerto.Tutto questo viene ben raccontato nel loro primo lavoro Paranoighnen Activity, uscito a dicembre 2012 e accompagnato da una brevissima descrizione del gruppo (“suoniamo pezzi originali, spaziamo un po’ qua e un po’ la e soprattutto ci divertiamo un casino”) formato da Tobia alla voce, Eugen alla chitarra e synth, Trudenji al basso e cori e Dalle alla batteria.

Dieci brani i cui testi fortunatamente dicono qualcosa, a differenza di molti altri gruppi emergenti e non, parlando della fede in Dio, dell’esistenza di altre forme di vita, dell’importanza del lavoro, disensazioni malinconiche, della paura, dell’amicizia e della voglia di sognare.  Tutto questo per il gruppo è un modo di comunicare, spesso in rima, quello che nella vita è importante, non pensando sempre all’idea che la scrittura deve sempre parlare dell’amore, della felicità o della tristezza legata ad esso. Spesso nelle canzoni, soprattutto in quelle più commerciali, è così, ed è una noia assoluta, perché dopo il primo brano non c’è più un’idea originale. Quindi i testi che contengono dei pensieri e delle riflessioni, ben vengano. Testi che in questo album vengono espressi attraverso un cantato poco classico, quasi parlato e talvolta sboccato, non inteso con parolacce, più che altro con finali molto aperte e libera intonazione, ma tuttofa parte del lavoro complessivo anche un po’ Punk, che inizia con una parlata alla Lino Banfi per sfociare in un timbro alla Caparezza in “Funky Cristo”. Si prosegue con “Il Blues Degli Alieni” e tutto, voce e accompagnamento, rimane in questa atmosfera, che subito cambia in “Turbopolka Del Lavoratore, in ritmo ternario e intenzione molto popolare, quasi da sagra (che va messa a punto nel ritmo, che talvolta presenta delle indecisioni). Il Funky e il Reggae si mescolano in “Qui Puoi!” con cori che dovrebbero autenticarsi un pochettino. L’atmosfera rock, invece, prende piede in “Botte e Lividi, quinto brano che all’inizio sembra ricordare Vasco Rossi ma poi cambia tangente quasi verso i Deep Purple, come in “Scimmia Maledetta”, simile alla precedente, ma più comprensibile come urlo di sfogo, nel suo breve esistere. “Come Gatti Nell’Acqua, settimo brano dell’album, si apre con un arpeggio suonato sotto il lamento sembrerebbe di un bimbo, che subito scompare per cedere lo spazio al ritmo e cantato incisivo e veloce. “Vampiri” e “Tante coccole” invece, dopo degli intro strumentali abbastanza presenti, si muovono in atmosfere rock, con sonorità simili a tastiere hammond nella prima, e metal che sfocia nello Ska nella seconda, allontanandosi dall’immaginario del titolo che fa presagire una ballata. E per finire “Tu Vuoi Ballare Con Me” è l’ultimo brano che chiude questo lavoro, che per certi versi ha tanti pregi: generi disparati, completamente diversi ma coesistenti, scrittura significativa dei testi e organizzazione musicale pensata. La voce e il colore degli strumenti non fanno impazzire, a differenza della grafica di tutto il disco, molto moderna e particolare, ma questo dipende solo ed esclusivamente dai gusti personali.

 

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Misachenevica – Come Pecore in Mezzo ai Lupi

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Misachenevica è un nome veramente figo per una rock band, un nome talmente bello da influenzare tutto l’ascolto del cd (davvero!). Ti piacciono subito senza una reale motivazione, hanno un nome grandioso e nessuno può farci niente, sono quelle cose che ti rendono grande o sfigato dall’inizio. Arrivano dal nord est e ci sparano in presa diretta l’album Come Pecore in Mezzo ai Lupi sotto etichetta Dischi Soviet Studio. Il rock italiano più classico degli anni novanta come linea da seguire per orientarsi dentro questo lavoro non sempre coerente con le proprie potenzialità, nel senso che assaporo dei pezzi grandiosi e dei pezzi sinceramente superflui, come presenze indesiderate durante la migliore festa dell’anno. Una festa mesta per evocare i Marlene Kuntz del primo periodo catartico, una potenza meno sviluppata ma comunque sempre dietro l’angolo quella sprigionata dalle chitarre dei Misachenevica, meno graffianti ma molto emozionali. Misachenevica, devo sempre ripetere questo nome fino allo svenimento, ne sono rimasto troppo attratto. Misachenevica. Come Pecore in Mezzo ai Lupi in qualche maniera mantiene viva quella schiera di adoranti sognatori del primo indie (italiano) che vedevano perse le proprie speranze e non riuscivano più a riconoscersi in nessuna manifestazione musicale attuale, le pecorelle smarrite che ritrovano la retta via per rimanere nell’argomento lasciato percepire dal titolo del disco (anch’esso di una bellezza fuori dal comune).

Il pezzo “Figlio illegittimo di Kurt Cobain” lanciato come singolo impressionabile del disco (e qui sotto potete spararvi il video) tira da subito fuori una cattiva essenza di rock duro, primordiale e con una struttura melodica pop orecchiabilissima, si impara subito la strofa di un ritornello studiato alla perfezione e canticchiarla non è poi così male. Indubbiamente non parliamo del disco dell’anno, per quello bisogna guardare altrove ma non tutto è da prendere alla leggera, la band appartiene sicuramente alla fascia buona della musica italiana, quella che sovrasta la cattiva di molte migliaia di distanze. Ebbene il nome della band gioca a loro favore e incuriosisce un vago ascoltatore, se mi trovassi a scegliere un disco alla cieca sopra uno scaffale di un vecchio negozio di dischi la mia scelta  cadrebbe senza esitazioni sopra di loro. I Misachenevica hanno già il potenziale commerciale nel sangue, una produzione più attenta e mirata li renderebbe competitivi sotto ogni punto di vista. Come Pecore in Mezzo ai Lupi al momento rimane un bel ricordo con tantissimo bisogno di conferme future, il vero rock si vede alla distanza.

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Cut/Julie’s Haircut – Downtown Love Tragedies (Part I & II)

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I progetti che includono solamente cover sono spesso visti con occhio critico, si pensa subito alla perdita di ispirazione, ad un facile appiglio per acquietare un poco gli stomaci voraci degli ascoltatori.
Personalmente non la vedo proprio così e rompo una lancia a favore di chi ancora oggi crede nella cover. Chi la violenta, la rivolta, dandogli un proprio significato, oppure chi la conserva, magari la rende meravigliosamente scarna (pensate ai brividi provati da Trent Reznor nell’ascoltare “Hurt” rivista da Johnny Cash!) mantenendo lo spirito e la naturalezza delle vibrazioni “originali”. In entrambi i casi la cover ha il suo sporco perché e la band registrando una cover si mette in gioco più che mai.
Questo che abbiamo davanti è un progetto indubbiamente ambizioso. C’è da dire che si parla di due nomi che a mettersi in gioco sicuramente non hanno paura. Un 7’’ splittato con due cover soul interpretate da due formidabili band del nostro paese molto legate tra loro. I brani in questione sono “Emma” degli Hot Chocolate (versione originale) interpretata dai garaggioni bolognesi Cut e “Who is he and who is he for you” di Bill Withers (versione originale) stravolta dalla psichedelia dei Julie’s Haircut. Potete capire come la scelta di queste due canzoni sia ambiziosa quanto singolare per due gruppi che nel panorama nostrano ci hanno abituati a ben altri sound.

Partiamo dai Cut, che per altro di questi esperimenti sono pratici (per esempio la rivisitazione del classicone di Prince “Sign O’ the times”). “Emma” gioca sulla dinamica: prima intima, lontana migliaia di pianeti dalla Terra, poi il chitarrone che ci risbatte sul pavimento, ma nonostante la botta non ci svegliamo. Rimane tutto onirico e confuso. Il sogno però non è per nulla piacevole, è straziante, agonizzante. La voce, l’hammond e le chitarre di Ferruccio Quercetti e Carlo Masu marciano indisturbate in questa odissea spaziale accompagnata dal semplice e dinamico groove di batteria. La versione degli Hot Chocolate viene conservata, certo meno black, ma altrettanto intensa e forse addirittura più straziante. In questo episodio la “tragedia d’amore” fa male. Bella pugnalata inaspettata, una lenta agonia.
I Julie’s Haircut si sa, sperimentano a tutto andare senza mai trovare un punto fermo. In continuo movimento e mutamento (e sia chiaro ci piacciono così!). Qui rubano il riff di “Little Johnny Jewel” dei Television e sparano una versione tastierosa, vetrosa, tetra e anche qui distante e spaziale. Si rimane in aria, appesi. Forse questa cover risulta snaturata della semplicità della soul music e sarei curioso di sapere cosa ne penserebbe il buon vecchio Bill Withers in mezzo a tutti questa elettronica e questi accenni post punk. Si perde il ritmo ballabile ma non la tensione, che viene addirittura amplificata dalla band di Sassuolo in un crescendo sintetico, piccola salita che arriva dritta allo strapiombo.
Questo split funziona, è “genuino” (lo dicono gli stessi Julie’s Haircut!), arricchisce e scarnifica le perle “originali”. Le gratta a mani nude per riappiccicarci sopra vestiti nuovi, conservando li da parte i vecchi pezzi, pronti ad essere rincollati da un momento all’altro.

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PornoVarsavia – [O]

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Di traverso o negli angoli meglio celati dell’underground patriottico, i novaresi PornoVarsavia  meritano un posto di eccellenza alla voce ”AmplificatIndomitIndie”, perché attraverso il complesso groviglio di ispirazioni elettriche di cui si dotano, tracimano esplosioni e dilatazioni psicotiche che nel loro – per il momento – piccolo around fanno avvertire gli spostamenti d’aria di chi è oggetto destinato a piccolo culto per iniziati.
Con Cristiano Santini (Disciplinatha) alla produzione, [O], questo il monogramma del disco, è un intenso pathos rabbuiato in dieci tracce che drizzano il pelo, catturano e movimentano una scena uditiva che va dall’indie venato di wave “Bla bla NYC”, “Luz Mala”  al rock con inflessioni grunge “Odilia”, “Fango e polvere” senza schifarsi per nulla di colorare qua e la citazioni psichedeliche “Il fronte è lontano” ma giusto un accenno per restare sopra ogni sospetto; il quintetto si carica liricamente di un social-poetry che penetra molto nell’ascolto, un’espressione che apre veemenza e criticità, lasciandosi accostare nella sua imprevedibilità, nella sua stesura elettrica con volontà e attenzione.
Non mancano percorsi da sviluppare ulteriormente, da “raddrizzare” dalle loro pendenze anonime e fuori riga come l’indigenza strutturale che caratterizza la pretenziosità Ferrettiana di “Sei gradi di libertà” o il barocchismo prog epico che annienta “Il giorno che fugge”, ma sono solo piccoli nei che nella trama generale del disco passano via senza demonizzare, poi al passaggio della spiritualità Disciplinathesca che rimbomba in “Carogiulio” il valore di questi pezzi è messo al sicuro ed il senso “tirato” del pathos generale altrettanto. I PornoVarsavia devono ancora mettere a nudo quel 5% che gli rimane per mostrarsi in tutta la loro opalescenza grigia, per tutto il resto già una formazione spigolosa e cerebrale pronta per arrancare qualche gradino più in su dei gironi calienti dell’underground.

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Lorian – Demo BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Vito Solfrizzo, voce e basso, Cristian Fanizzi, chitarra, Alessandro Spenga, batteria, e Domenico Lippolis, piano, hammond e synth, formano i Lorian, giovane gruppo barese, che dall’inizio del 2012 propongono, assieme ai loro brani originali, anche i grandi successi del passato (Pink Floyd, The Police, U2, Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Santana). Una demo, la loro, formata da tre brani: U.R.A. (Utopia Realmente Astratta), L’Ombra del Sole e Gladio, dove il rock, di stampo assolutamente classico, è il genere predominante, con tinte di progressive e qualche puntino di funk. Buoni i soli di chitarra, gli arrangiamenti e l’uso dei cori. La parte vocale, invece, rimane sempre un po’ standardizzata e uguale a se stessa, quando potrebbe andare oltre le proprie capacità, sperimentare nuovi colori e modi di esprimersi. La strada è ancora lunga, ma i migliori amici per i giovani musicisti sono il tempo, la sperimentazione, totale, perché no anche sfrenata e lo studio, il resto è solo fortuna.

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In-Hour’s Mind – S/t

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Vi darei ragione se diceste che non c’è niente di terribilmente innovativo in questo scarno e spartano prodotto dei milanesi In-Hour’s Mind, ma se un disco lo si dovesse giudicare esclusivamente dal numero di volte in cui lo si tiene incollato all’orecchio, dovrei essere molto, molto più generoso.
Un’elettronica lineare, naif, ma forse proprio per questo più psichedelica, più allucinata. Synth, campioni, batterie, una voce distante e mascherata, ritmiche ossessive, lead impeccabili nella loro semplicità, ritornelli da saltare, sudati ed esaltati, sotto un palco. È un electro-rock per niente fighetto, è grezzo, ignorante, rasoterra – ed è questo, per me, il segreto della sua piacevolezza immediata.
I quattro pezzi di questo non-ep (tre originali dai titoli rubati a personaggi del mondo di Super Mario – non credo casualmente – e una cover dei Soulwax, Krack) scorrono infatti tutti abbastanza facilmente, ma devo ammettere che la vera sorpresa del disco è stata l’apripista, Yoshi, che continuo, non so perché, a canticchiare insistentemente, da giorni. Non so se la colpa sia da imputare alla voce anthemica, o a questa ambientazione da videogame anni ’90 (espressa alla perfezione da un video parecchio lo-fi, ma che centra esattamente il punto).
In generale, nonostante l’orecchiabilità delle tracce più riuscite (la già citata Yoshi e la conclusiva Daisy), l’operazione mi sembra, in qualche modo, incompleta… però si porta dentro dei semi molto interessanti: se gli In-Hour’s Mind sapranno sfruttarli a fondo, e con più metodo, mi prenoto già da ora una copia del loro prossimo disco.

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Sinezamia – La Fuga BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Il rock’n’roll si butta in vena un siero freddo e nero in questo album dei mantovani Sinezamia, band già attiva da diversi anni e dal sound a dir poco “fuori moda”. Vicini ai primissimi Litfiba, alla new wave e non di certo ad orizzonti più ruffiani a cui molti gruppi del loro calibro puntano in questi periodi.
La scelta è decisa ed è pure premiata. Il freddo fa da padrone già dal primo galoppante basso di “Ghiaccio nero” e la gelata continua in tutti i sette brani dell’album tra richiami psichedelici e tecnicismi metallari. “Venezia” è un castello incantato che esalta la grande compattezza dell’organico, mai sopra le righe e sempre ben bilanciata nonostante i virtuosismi dei cinque ragazzi. “Occhio elettrico” suona distante con i colpi di doppia cassa che rimbombano nelle orecchie. In “Ombra” nasce il timore è che l’oscurità copra la furia, il sangue che pulsa nelle vene rischia così di essere pericolosamente rallentato. I dubbi vengono spazzati via  dalla title track “La fuga” dove la voce di Marco Grazzi quasi acciuffa l’estro di Pelù e la chitarra di Federico Bonazzoli taglia in due la nebbia e i miei dubbi con un assolo d’altri tempi.
L’ultima parte è affidata a “Frammenti”, schiacciata da una tastiera troppo squillante e artificiale, ma l’amalgama della band comunque si eleva sopra le (discutibili a mio avviso) scelte di suoni e incolla i vari pezzi sparsi per la via, restituendoci una oscura, ma furiosa dose di rock’n’roll.

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Tetrics – Tetrics

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I Tetrics si presentano con quest’album omonimo dove rockeggiano, blueseggiano, a tratti raggeaggiano, facendo il verso al rock italiano “classico”, anni ’80/’90, ma senza, ahimè, lasciare traccia alcuna nell’orecchio dell’ascoltatore.
Sono tre le grosse critiche che si possono fare a questo lavoro: al primo posto, la voce del frontman Marco Plebani, che non raggiunge nemmeno una lontana sufficienza. È una voce stanca, sforzata, senza un minimo di verve, che a tratti sfiora il ridicolo – lo dico senza alcun intento denigratorio, ma per consigliare un eventuale sviluppo tecnico, o magari un uso diverso, delle capacità vocali del cantante: ne gioverebbe tutto il progetto.
Il secondo problema sono i testi, che si fermano troppo spesso alla rima baciata e ad un immaginario ormai liso e consunto – alcool, amori velenosi e carnali, rock’n’roll – risultando a tratti ripetitivi, a tratti scontati.
Ultimo, piccolo neo: a parte qualche episodio effettivamente “fuori canone” (vedi la terza traccia, 9:07), il resto s’appoggia decisamente al già sentito, al già visto, al già esperito (cosa che accade troppo spesso, di questi tempi… sarà che si è già suonato – e detto – di tutto? Chissà).
In conclusione: lo sforzo dei quattro Tetrics è apprezzabile, ma il prodotto finale necessiterebbe di una buona sessione di make-up anche solo per rendere possibile un ascolto totalmente finalizzato al piacere onanistico di fruire di un rock italiano molto, molto classico. Se poi l’obiettivo è di rimanere nella testa, di comunicare qualcosa di duraturo all’ascoltatore, serve molto, molto di più.

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Thee Jones Bones – Stones of Revolution Ep BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

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Sono le 18,30 di un martedì grigio, salgo le scale di casa dopo il lavoro. Sono a pezzi.Giornata stressante, non voglio sentire nessuno. Mi cambio d’abito, butto dell’acqua sulla faccia per togliere la merda di questa giornata. Apro il frigo e prendo una birra, spengo il telefono, mi butto sul divano. Aaaaah.
Dura poco, l’angoscia comincia a sbranarmi. Come un cane randagio sui calzoni. Che palle!! Uffffff.
Mi alzo, non mi va di uscire, non mi va di sentire nessuno, non mi va di fare un cazzo!! Eppure non sono sereno. Mah… Mi sparo un disco. Mmmmm…. Fresco, Fresco. Appena arrivato. Vediamo un po’. La copertina colorata mi piace, arancione. Un uomoa dorso nudo che sembra un Hippy in sella ad un cavallo, con in mano una chitarra classica.  L’angoscia sembra lasciar piede alla psichedeliadi copertina. Il mio cervello è fritto al punto giusto. L’olio di quest’ascolto comincia a gocciolare sull’mio impianto HiFi. La prima traccia Free si rivela un inno alla libertà. Superficialmente potrei dire: “Into the wild” Eddie Vedder. L’ho detto. Comunque a me il country Rock piace. Ha sempre quel sapore vintage di tempi andati e fa molto scafato. Buono…. Cazzo il secondo pezzo parte dritto. Tre strimpellate di chitarra e Allright for you. Una ballata, un misto tra RollingStones e David Bowie. Siamo passati dal country rock al puro rock’n’roll. Ci può stare, anche se finora niente di nuovo. Continuo. Ogni canzone un richiamo diverso. Una moltitudine di influenze per questa band. Sicuramente rock. Sicuramente seventies. Chitarre dure, ballate, arpeggi malinconici, cori soul. C’è tutto in quest’album. Un meltingpot. Bravi ragazzi l’esecuzione è perfetta, forse manca un po’ di fantasia e innovazione.

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London Overdrive – London Overdrive

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Direttamente dalla capitale albionica, i London Overdrive ci donano questo disco da 8 tracce dove mescolano rock molto melodico con qualche ingrediente folk (l’armonica di Satellite, l’intro di Collision) ad un’idea di pop da stadio molto british (i Coldplay di qualche tempo fa, ma senza pianoforte): il tutto, ovviamente, in inglese.
Il lavoro è fatto bene, e ci sono almeno un paio di pezzi che richiamano un secondo, terzo, quarto ascolto. Ottimo il lavoro fatto sulle acustiche, soprattutto negli arrangiamenti: rende il disco vario, saltando dal rock sostenuto ma sempre molto orecchiabile di Gasoline fino alle carezze di Back home, passando da pezzi “double face” come Sweet poison part one, che parte con un introduzione fulminea e dolce di acustiche per poi giungere ad un tiro che definiremmo “pop punk” (di quello diluitissimo degli ultimi anni) se non fosse per la voce, altro punto forte (e non potrebbe essere altrimenti, per fare un genere di questo tipo).
Un timbro che mi ha ricordato più di una volta Eddie Vedder (e non è qualcosa che si dice con facilità), forse soprattutto perché accostato a questo mistone di rock/pop/folk molto morbido, molto “smooth”.
Per gli amanti del genere, un disco da ascoltare più volte (tanto più che non vi costa nulla: è scaricabile gratis dal loro Bandcamp) e un gruppo da testare dal vivo – più in acustico che in elettrico, mi verrebbe da dire. Niente di nuovo sotto il sole, ma un disco sincero e ben fatto: ce ne sono tanti, è vero, ma forse è meglio così.

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A. Hawkins – Demo 2012

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A volte non è questione di fare il critico stronzo, saputello ed egocentrico. A volte è veramente complicato giudicare il lavoro di artisti o pseudo artisti che magari si fanno il culo tra un “lavoro vero”, come lo definirebbe un padre un po’ all’antica e la loro passione. Il fatto è che, per quanto si possa apprezzare l’impegno e tutta la grinta di chi non ha nessuno alle spalle a pompare la loro carriera, è impossibile giudicare in maniera corretta se lo stesso musicista non riesce, per mancanza di mezzi, a esprimere completamente la propria idea di musica. Non è sempre questione di peculiarità artistica ma anche di qualità di registrazione. Non è una cosa da poco, perché influenza la proposta in maniera decisiva. Un conto è desiderare un suono decisamente lo-fi, un altro è esserne forzatamente costretti. L’importante è non fare l’errore di confondere la validità del musicista con quella della musica.
Probabilmente Alberto Atzori, alias Albert Hawkins, è uno che di musica ne capisce parecchio. A cinque anni comincia a suonare il pianoforte, a tredici la batteria e a quindici è già pronto per formare le prime band “adolescenziali”, punto di partenza obbligato di tanti che poi di musica hanno vissuto. È una di quelle persone che nascono con la melodia nel sangue, ma la cosa, molto spesso, non basta a regalare l’Olimpo. A diciannove anni decide di cimentarsi anche con le sei corde e l’anno successivo stabilisce che è ora di provare a fare tutto da solo. Da qui prendono piede l’idea del progetto solista A. Hawkins, l’idea delle quattro tracce del demo di cui stiamo parlando, l’idea di cercare qualcuno disposto a produrre il giovane artista. Dentro il demo c’è tutta la tragedia della musica italiana, c’è tutta la sofferenza di chi si fa il culo sperando di poter esprimere al meglio quella che è la propria vita, c’è tutto un mondo di talenti che non possono emergere e di merde col bel faccino che qualche pappone ha piazzato nel programma Tv giusto.
Nell’ascolto dei quattro pezzi, nel quale troviamo oltre ad Atzori, la sola partecipazione di Stefano Gueli per l’assolo di chitarra in “From A Storm”, brano d’apertura, emerge una disomogeneità preoccupante tra la varietà di strumentazione, quasi come se ogni elemento fosse un’entità a se stante che se ne fotte del fatto che si trova incastrata in una canzone. E cosi la chitarra, che dovrebbe aver nella musica di Hawkins un ruolo chiave, diventa quasi un accessorio incapace anche solo di esaltare la sezione ritmica. Nel secondo brano “I’m Here”, nel suo andamento più sfumato, inquieto e intimo, si può notare la banalità esecutiva del basso e della batteria, cosa che ritroviamo in realtà in tutto il lavoro, anche se con meno enfasi. In “Rain To Rest”, sembrano risolversi alcuni dei problemi ascoltati in precedenza, la chitarra prova a riprendere corpo e la voce, di cui tra poco parleremo, riesce a mescolarsi con maggiore efficacia al sound di Alberto Atzori, anche se seguendo una linea più precisa e monotona. Il tutto si chiude con “Rock’n Love” e il suo pseudo blues acido da strisce bianche e malinconie sixties.
Stavamo parlando della voce, se non erro. Ripeto che la qualità è scadente e quindi ogni giudizio va preso con le pinze ma di certo non stiamo parlando del nuovo Freddie Mercury. Il timbro non ha alcuna particolarità che possa rendere il suo suono unico, non ha estensione invidiabile, spesso l’intonazione non è perfetta. Diciamo non è la voce di uno che possa fare il cantante. A meno che…
C’è un’altra cosa che non mi torna. Una persona che ha studiato cosi tanto la musica, che strimpella da prima che iniziasse ad andare a scuola, che sa suonare tanti strumenti, che decide di non aver bisogno di una band che lo aiuti a esprimere le proprie idee, si mette inevitabilmente sulle spalle un grosso carico di responsabilità. Quello che ci si aspetterebbe è un uomo che utilizzi tutta la strumentazione in maniera irreprensibile e brillante e magari che sia capace di creare melodie superbe. Pensate a multistrumentisti come Nicola Manzan e la sua Bologna Violenta ad esempio, oppure, in ambito internazionale, a Luis Vasquez, in arte The Soft Moon. Invece, ad Alberto Atzori non riesce nessuna delle due cose. Basso, batteria e chitarre sono suonati in maniera elementare, quasi dozzinale, spesso senza che riescano a legarsi tra loro. Le linee di basso, in particolare, sono al limite di una prima lezione di corso per principianti e inoltre, anche a livello di melodie, non c’è traccia alcuna di qualcosa che possa dirsi sufficientemente orecchiabile oppure ricercata. Su una cosa sono sicuro. Con altri mezzi, A. Hawkins avrebbe fatto tutt’altra figura ma non possiamo ridurre a questo la scarsa proposta dell’artista. La piattezza del sound, la voce mediocre, le melodie assenti, le poche idee messe sul piatto, non sono cose che dipendono dalla qualità di registrazione. Forse A. Hawkins avrebbe bisogno di una band più di quanto lui stesso possa pensare.

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