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Linfante 22 Ottobre 2016 Garbage Live Club

Written by Live Report

Il modo migliore per far sì che gli altri (il pubblico in questo caso) credano in te è essere il primo a credere in quello che fai e per crederci davvero bisogna fare le cose con il massimo sforzo, impegno, spirito di sacrificio e una notevole dose di organizzazione. È esattamente questo che fa Stefano Scrima, in arte LinFante, solista di Cremona che ha girato il mondo, tra Madrid e Barcellona, per stabilirsi definitivamente nella capitale. È proprio lui a consacrare il periodo dei concerti del Garbage Live Club di Pratola Peligna (Aq) dedicato alla reinterpretazione del Folk in tutte le sue varianti, fase che sarà conclusa dal modenese One Glass Eye il prossimo 5 novembre e che ha già visto esibirsi artisti come Give Vent e The Dead Man Singing. Dopo il Folk in chiave Punk, Emo e Post/Art Rock e prima della variante Math, tocca alla musica a metà tra bizzarrie liriche e sentimentalismo ironico de Linfante.

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Stefano Scrima fa le cose per bene, dicevamo all’inizio; realizza videoclip curati e divertenti, spende attenzione su immagine e artwork dei suoi lavori, ultimo l’Ep Piccolo e Malato uscito il 29 settembre per La Fame Dischi, e infine non ha paura di girare l’Italia in autobus e treno, tra grandi metropoli e minuscoli paesini con la sua chitarra in spalla e un’armonica nello zaino. Stefano incarna un modo di proporsi e di fare musica che troppo spesso sembra essere dimenticato dal pubblico tanto quanto dai musicisti stessi, abbagliati dall’irreale e apparentemente immediato successo che sembrano avere quelli che riescono a infiltrarsi nella malvagia macchina dei reality show. Incarna un modo di fare musica che parte dal cuore e fa a pugni con la propria anima; si nutre di chiacchiere prima del concerto, di disperato bisogno di attenzione, di difficile ricerca di qualcuno disposto a dedicare pochi minuti della propria vita per ascoltare quello che si ha da dire.

Tutto questo è emerso dal piccolo live de Linfante nel piccolo Club abruzzese; un live diverso da ogni altro suo live non solo per il rapporto instaurato con i presenti, con i quali l’artista ha bevuto e scherzato prima, durante e dopo il concerto, ma anche per la scelta artistica di non seguire alcuna scaletta precisa, evitando anche di suonare alcuni dei suoi pezzi più belli e più noti come “Muoio di Sonno”, “La Bella Estate” e una delle mie preferite, “Chiudo gli Occhi e non Penso a Te”. Ovviamente tutti i pezzi dell’Ep faranno parte della serata, da “Serenata ai Grilli” al brano dedicato alla sua città d’adozione, passando per “Una Pianta Carnivora Mi Ha Detto Che Non mi Ami Più” e il brano che da titolo al disco. Simpatico siparietto, invece, quando suonerà “L’Amaro” e un bel bicchiere di Cynar finirà sul palco/non palco tra le risate dei presenti. Dal primo album Linfante sceglie forse i pezzi più introspettivi e meno immediati, come “Mentisenti”, “Medievalità” ma anche la bellissima “Non Mi Piace Niente”. Tra le tante sorprese che, dicevamo, renderanno la serata singolare, tantissimi inediti, un brano della sua band Sydrojé, “Bacche, Rabbia e Alcol” e un paio di pezzi presenti nel suo primo demo. Alla fine saranno circa quindici i brani proposti, in una sorta di viaggio virtuale nella “carriera” ancora tutta da scrivere di questo giovane musicista, dal passato degli esordi e dei suoi progetti paralleli, al presente con l’Ep appena edito, fino al futuro con brani mai incisi e che forse lo saranno in un futuro prossimo. Un live che ha dimostrato tanto, non solo delle qualità strumentali e vocali del musicista romano, ma anche di quanto sia importante ascoltare e supportare gli artisti nelle loro piccole esibizioni, affinché ci si renda conto del loro reale valore e si possa permettergli di continuare a dire ciò che hanno da dire fino a quando avranno qualcosa da dire che ci regali un’emozione. Un live che, tra le tante cose, ci ricorda cosa sia la musica, nella sua versione più umana e viscerale.

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VIAGGI MUSICALI | Intervista agli Harmonic Pillow

Written by Interviste

10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #21.10.2016

Written by Playlist

OffSetFest @ Magazzino sul Po, Torino, 14-15 Ottobre 2016

Written by Live Report

Il Magazzino sul Po di Torino ha tenuto a battesimo venerdì e sabato scorsi l’OffSetFest, primo di una, speriamo lunga, serie di eventi che dovrebbero tenersi in vari club europei organizzati da Off Set, casa discografica ed agenzia di booking (che non disdegna produzioni di ambito visivo) con sede a Bologna attiva soprattutto nel campo della psichedelia, dell’Avant Rock e del Folk più libero. La proposta per questa prima edizione è di buonissimo livello, troviamo infatti sul palco dello storico locale dei Murazzi 5 nomi capaci di ingolosire il pubblico più esigente: Krano, Miles Cooper Seaton, Fuzz Orchestra, Il Sogno Del Marinaio ed Acid Mothers Temple.
La serata di venerdì viene aperta da Miles Cooper Seaton, artista statunitense probabilmente ai più conosciuto per la sua militanza negli Akron/Family, che presenta il suo lavoro solista Phases in Exile, disco registrato in Italia (paese al quale il musicista risulta legatissimo, tanto da aver deciso di venirci a vivere) grazie alla co-produzione di Trovarobato e Vaggimal, nel quale troviamo il supporto del combo veneto dei C+C=Maxigross. Il set del Nostro si muove con estrema classe nei territori Minimal Free-Folk del sopracitato lavoro unendo alle eteree atmosfere chitarristiche una voce non meno spirituale e profonda (che mi ricorda spesso per umore e intensità quella del Piers Faccini migliore), aggiungendo inoltre un tocco di eclettismo ai brani nelle loro parti esclusivamente strumentali capaci di prendere per mano il pubblico accompagnandolo tra lande estese e velate grazie ad una chitarra ora in odor del Fennesz più etereo ora più puramente Drone. Un live meditabondo, intenso, avvolgente e curatissimo, un’ottima apertura per questa prima serata del neonato festival.
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Dopo la breve pausa per il cambio palco è la volta di Krano, nuovo progetto di Marco Spigariol (Movie Star Junkies, La Piramide di Sangue, Vermillion Sands) che presenta il suo primo disco, Requiescat in Plavem, uscito lo scorso Aprile per Maple Death Records. Marco e la sua band propongono atmosfere tipicamente anni Sessanta: Folk, Blues e Country qua e là sporcati e storti da attitudine ed esigenze personali, come quella di cantare in dialetto veneto; un dialetto ben lontano dal suonarmi familiare ma così ben incastrato nel sound proposto da farmi pensare che la scelta di usarlo sia quasi stata inevitabile oltre che assolutamente azzeccata. Live godibilissimo (ben più di quanto inizialmente immaginassi) che apre la strada agli headliner di questa prima serata: Il Sogno del Marinaio.
L’attesa per questo trio delle meraviglie composto da Mike Watt al basso e da due dei più grandi talenti dell’underground nostrano, Stefano Pilia alla chitarra ed Andrea Belfi alla batteria, è piuttosto palpabile. Mike Watt è stato tra i più importanti protagonisti della musica indipendente mondiale con i Minutemen (senza dimenticare le importanti esperienze con band come i Dos ed i fIREHOSE) e per quanto riguarda Il Sogno del Marinaio credo basti ascoltare i 2 lavori sin qui pubblicati da questo progetto (La Busta Gialla del 2013 e Canto Secondo dell’anno successivo) voluto da Stefano Pilia per capire che ci sarà da divertirsi. Ed i tre sul palco effettivamente se la godono alla grande, forse proprio Mike, col suo entusiasmo da ragazzino, più di tutti, ed insieme a loro se la gode tutto il pubblico accorso al Magazzino sul Po che pezzo dopo pezzo diventa sempre più caldo ed entusiasta per uno di quei live che si vorrebbe non finissero mai. Definire il suono di questo trio è praticamente impossibile, durante il set i generi toccati sono i più vari. Si va dalla morbida spigolosità tra Post e Math Rock della dissonante “Skinny Cat”, all’ondeggiare tra passaggi minimali, psichedelia dal sapore orientale e puro Blues-Rock di “Nanos’ Waltz”, dalla trascinante meraviglia “Us in Their Land” che si muove tra Noise, Math Rock e Prog, alla marcia tra Psych e Alt.Rock di “Animal Farm Tango” col suo coinvolgente finale, ed ancora il Jazz-Rock (Avant) dall’umore Punk dell’intricata “Partisan Song” e così via per un’ora, senza concessioni di tregua, andando a concludere con “Zoom”, una sorta di improvvisazione corale (anch’essa splendida) dove il trio ospita sul palco Miles Cooper Seaton. Così tra riff della madonna, stop&go altamente goderecci e pregevoli cambi di ritmo (come avrete intuito difficilmente i brani si concludono col mood iniziale), il grande eclettismo e la cosciente follia del trio, sorretto dal titanico basso di Mike, regalano un live set di altissimo livello, personalmente tra le più belle cose viste negli ultimi mesi. Un’esecuzione più che convincente ed assolutamente superiore ai già interessanti livelli delle pubblicazioni. La ricerca naturale e divertita del trio unita all’evidente piacere di suonare insieme ed alla bella risposta del pubblico liberano nell’aria quella sorta di benessere collettivo che si prova dopo aver vissuto un gran concerto. Un live tirato, asciutto ed esaltante, tre musicisti di un altro pianeta (che tra l’altro si alternano alle parti vocali) che concludono così questa entusiasmante prima serata firmata Off Set.
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La serata successiva del festival è aperta alle 22 dal live Heavy Rock delle soundtracks firmate Fuzz Orchestra con un’esibizione centrata soprattutto sull’ultimo Uccideteli Tutti! Dio Riconoscerà i Suoi. Cosa dire? Si tratta di un gruppo che ho visto suonare dal vivo ormai tantissime volte, sono tosti, passionali, energici ma allo stesso tempo meditativi. C’è Fabio “Fiè” Ferrario che con precisione maniacale, tramite giradischi e mangiacassette, lancia i famosi monologhi e discorsi rubati al grande cinema italiano degli anni 60 e 70 (gettando i dischi sul palco una volta andato il loro tempo), che svolge un gran lavoro al pianonoise e che ringrazia il pubblico a mani giunte e con tanto di inchino dopo ogni pezzo; c’è un altro gigante della batteria, Paolo Mongardi, preciso, istintivo, potente, uno dei musicisti che più mi piace veder suonare oltre che ascoltare, motivo per il quale la prima fila, che sempre si tenta di guadagnare, con i Fuzz Orchestra con gli Zeus! e via dicendo diventa una specie di obbligo personale, fin qui sempre ben ricompensato, e c’è Luca Ciffo con la sua chitarra indemoniata che marchia il suono della band estendendo, comprimendo e irrobustendo ulteriormente il tutto. Una delle migliori live band nate negli ultimi anni in Italia, un trio che non si risparmia. Genuini, sudati, intensi e bravissimi, come sempre.
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Dopo di loro tocca al nome di punta del festival, i giapponesi Acid Mothers Temple, nella loro veste più celebre (Acid Mothers Temple & The Melting Paraiso U.F.O.). La band guidata dal chitarrista Kawabata Makoto propone lunghe suite (mi pare di contarne sei, mi pare non durino mai meno di venti minuti) che abbracciano psichedelia, Noise e Kosmische Musik senza disdegnare passaggi più Jazz, Blues e Rock (ovviamente sempre suonati in modo alieno). Dopo la prima di queste suite Higashi Hiroshi, col volto semicoperto dalla lunga chioma grigia, avendo dei problemi col suono dei synth colloquia col tecnico del suono per risolverli, ma una band folle come quella in questione non può certo smettere di dare spettacolo nemmeno per un minuto e dunque ecco che il chitarrista Tabata Mitsuru, improbabilmente travestito da donna, offre uno spettacolino osé che diverte il pubblico come Makoto, il leader della band non può trattenersi dal fotografare il collega sorridendo di gusto. Tornati alla normalità (si fa per dire) parte l’unico dei loro pezzi (la loro discografia è infinita) che riconoscerò durante l’esibizione, pezzo che immagino riconosceremo in molti: “La Novia”, uno dei loro maggiori successi. Brano meraviglioso che parte da canti gregoriani a cappella per poi evolversi in soluzioni psichedeliche dal sapore indiano che a loro volta si trasformano in una psichedelia nettamente più anni 60/70 (un qualcosa tra Pink Floyd e Velvet Underground) ma molto più rumoristica. Arriva poi una suite che partendo da una versione estremamente Psych di “The Wizard” dei Black Sabbath va a legarsi a qualcuno dei loro innumerevoli brani e durante il suo tragitto si trasforma in un acidissimo Blues prima di andare a spegnersi in un muro Psych Noise (un applauso alla sezione ritmica, e non solo in questa occasione) che i volumi, stasera più alti del solito del Magazzino (mai visto così pieno) esalteranno ancor più facendo quasi tremare le mura del tempio. Stessa sorte di “The Wizard” toccherà ad un brano dei Gong che qui i Nostri, sempre legandolo a qualcosa di loro, renderanno ben più cosmico, spostandosi poi verso un suono massimalista e tornando infine a qualcosa di più cosmico e psichedelico nella parte finale. Insomma, questo concerto è una giostra freak, assolutamente godibile anche se per i miei gusti in alcuni momenti fin troppo eccessiva, per quanto ciò non tolga che questo gruppo di pazzi ci abbia regalato l’ennesimo gran bel concerto di questo piccolo grande festival alla sua prima edizione, e con loro fanno 5 su 5.
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Se chi ben comincia è a metà dell’opera chi comincia più che bene (sicuramente questo il caso dell’OffSetFest) a che punto dell’opera si trova? Non è nient’altro che il primo passo ma dopo due simili serate non si può che augurare a questo festival lunga vita e grandi viaggi in tutto il continente, sperando che crescendo chi lo organizza non si dimentichi di questa prima edizione e regali nuovi passaggi lì dove tutto ebbe inizio (Torino, Magazzino sul Po).

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Xiu Xiu – Plays the Music of Twin Peaks

Written by Recensioni

Probabilmente non esistono molte persone nel mondo occidentale che non associno il nome Twin Peaks al capolavoro di David Lynch d’inizio anni 90. Se qualcuna di queste però sta leggendo la mia recensione, sappia che si tratta di una serie televisiva realizzata dal maestro del surrealismo cinematografico che racconta della morte della giovane Laura Palmer e delle indagini che ne sono seguite dentro una misteriosa cittadina al confine tra Stati Uniti e Canada. Chi sa di che parlo troverà riduttiva e semplicistica la mia descrizione ma non è questo il luogo per parlare della pellicola che invito tutti a riscoprire, in attesa dell’agognato seguito. Quello di cui discutiamo oggi è invece l’ultimo lavoro di una band meno nota del telefilm ma che meriterebbe più attenzione e almeno una volta nella vita una vostra presenza a un live.

Gli Xiu Xiu sono un’eclettica formazione californiana che ruota attorno al talento di Jamie Stewart e che, nel corso degli anni, ha visto più di una volta stravolto il proprio stile tanto quanto la sua compagine. Partendo da una materia prima New Wave, hanno esordito con lavori sperimentali degni di nota come Knife Play o A Promise di stampo sintetico ed elettronico, profondamente inclini ad ambientazioni malinconiche, sconfortate, mortifere, tragiche, tutto fino al capolavoro Fabulous Muscles in cui, mantenendo intatti i punti fermi estetici, hanno amplificato la loro vena Art Rock al massimo. Da qui in poi (era il 2004) hanno messo al mondo un numero impressionante di opere che non hanno disdegnato di accarezzare territori diversi e più morbidi come il Pop (“Angel Guts: Red Classroom”) ma anche lo Spiritual e l’Avant Rock oltre ogni immaginazione, con pochi lavori degni di nota e tante porcherie, specie in tempi recentissimi con Neo Tropical Companion Hearts, Tired of Your World… Peru e Kling Klang eppure quello che mi ha sempre spinto a tenerli d’occhio è un incredibile coraggio dovuto a una necessità di mantenere intatta la loro (in realtà sua, perché è Stewart il cuore degli Xiu Xiu) libertà espressiva.

A questo punto arriviamo a Plays the Music of Twin Peaks, una scommessa apparentemente persa in partenza viste la difficoltà di ridare linfa a una colonna sonora che è stata incredibile a tal punto da aver reso l’opera di Lynch ancor più intensa, terrificante, inquietante e memorabile tanto che bastano un paio di note di Angelo Badalamenti per far venire la pelle d’oca a noi trentenni che con l’incubo di Bob siamo andati a letto ogni sera.

Chi invece sa bene di cosa parliamo starà chiedendosi in che modo possano aver proposto questa parziale rilettura ed è quello che mi sono chiesto anch’io e che ho scoperto solo poco fa. Certamente lo stile tetro, perturbato e disperato degli americani ben si sposa con l’opera di Badalamenti eppure forte è il rischio che le esasperazioni sonore da loro adorate finiscano per stravolgere eccessivamente gli originali. Quello che, invece, hanno fatto ottimamente gli Xiu Xiu è stato abbassare i toni sugli aspetti loro meno consoni come quella certa eleganza jazzistica e quella soavità a metà tra Chamber e Dream Pop, per amplificare le parti più crude, brutali, senza per questo esagerare nell’interpretazione personale e suggerendo un punto di vista diverso allo “spettatore”, ora meno vittima sessuale e sacrificale al fianco della Palmer e più vicino alle figure malefiche del film. Tutto è meno tormentoso; le postille rumoristiche dilatano l’eccitazione e spezzano quell’inquietudine donando maggiore energia; la voce, nei pochi casi in cui compare, è perfetta nella sua disuguaglianza con l’originale per seguire l’impronta di questa versione disarmonica dei brani e il senso di angoscia è comunque riproposto con una forma dissimile (si pensi al lungo monologo -anzi no, ma non vi rovino la sorpresa- finale, “Josie’s Past”). Questo Plays the Music of Twin Peaks non può e non deve essere visto come una semplice riproposizione di vecchie canzoni e brani di una grande serie e soprattutto non deve essere inquadrato collegando le sue note alle immagini che avrete bene impresse nella mente se avete visto la serie. Quelle icone, le tende rosse, la luce soffusa, la nebbia del nord America, gli abiti sensuali delle ragazze del One Eyed Jacks, la convenzionalità yankee della casa di Leland, l’oscurità del bosco, sono già state descritte con perfezione e minuzia da Badalamenti e queste nuove trasposizioni non riuscirebbero a dare lo stesso effetto. Per riuscire ad apprezzare al meglio il collegamento tra audio e video dovreste vedere una versione di Twin Peaks che non è mai stata impressa su pellicola, mai probabilmente immaginata, una versione in cui ogni momento è vissuto nella testa disturbata dell’assassino.

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The Dead Man Singing 15 Ottobre 2016 Garbage Live Club

Written by Live Report

In questi ultimi giorni si è parlato tanto, con consenso quasi unanime, del Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan.Prendiamo per buono che tale gratificazione sia in sostanza alla carriera e non soffermiamoci sulla reale portata dell’opera di Dylan considerando che mai tale riconoscimento è stato assegnato a Irvine Welsh, a David Foster Wallace o a Chuck Palahniuk. La cosa che da più fastidio è che questo premio alimenta un errore che sta dilaniando il mondo della musica. Un riconoscimento paragonabile al Pallone D’Oro a Oliver Hutton. Letteratura e Musica non sono la stessa cosa; probabilmente la Musica è anche una forma d’Arte più complessa rispetto alla Letteratura ma anche se non fosse, non sarebbe comunque la stessa cosa e considerare Dylan un poeta equivale a non considerare il valore artistico della Musica se non direttamente legata alle liriche e quindi alla poesia, nel caso specifico del Nobel. Questo è, quasi, lo stesso errore che fa il pubblico quando si approccia ai concerti. La musica (scusate la ridondanza, ma è necessaria) è un complemento tra una birra e l’altra, un sottofondo, uno svago, un motivo per fare festa e casino. Invece no, la musica è molto di più e non credo debba essere io a ricordarvelo. Anche per questi atteggiamenti, un live come quello che sto per raccontarvi, fa fatica a essere apprezzato e seguito da chi, questo ruolo della Musica, non riesce proprio a digerirlo.  Prima di narrare, però, di questo strano, incredibile e affascinante progetto chiamato The Dead Man Singing, dobbiamo iniziare a parlare del live del cantautore teramano (già con Amelie Tritesse e Delawater), partendo dal pomeriggio passato al Garbage Live Club di Pratola Peligna (Aq). A scaldare gli animi e i cuori del pubblico che sarà presente poi alla serata e appagare quell’innata brama di artistica bellezza, sarà il disegnatore Gianluca Di Bacco, autore di fumetti, diplomato all’Istituto d’Arte Gentile Mazara di Sulmona, studioso all’Accademia di Belle Arti di Bologna e grande appassionato dei racconti di Roald Dahl. Il suo obiettivo dichiarato, lo scopo della sua arte è di portare le persone a interagire con storie e racconti figurati e l’obiettivo sarà pienamente raggiunto, con tanta gente coinvolta, felice, appagata e ottimamente predisposta al live che seguirà.

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Opera di Gianluca Di Bacco

Le luci nella stanza sono ridotte ai minimi termini; alle spalle del cantautore, defilato sulla destra, c’è uno schermo sul quale saranno proiettati visual e le stesse immagini dell’i-phoneography artist Rino Rossi, rielaborate dal duo composto dall’eclettico Giustino Di Gregorio (al suo attivo un disco omonimo uscito nel 1999 per la Tzadik, etichetta di John Zorn, sperimentazioni sonore con Iver and the drIver e installazioni d’arte contemporanea con il duo Minus.log) e dal visionario architetto Pierluigi Filipponi (nonché chitarrista psichedelico con Orange Indie Crowd, Delawater e a Minor Place), saranno sparate con un proiettore addosso al musicista e quindi sulla parete nera alle sue spalle.

Work in preogress del collettivo minus.log

Work in preogress del collettivo minus.log

Chi non sa cosa aspettarsi dovrebbe aver capito che non sarà un concerto come gli altri. Le immagini iniziano a muoversi e, senza preavviso alcuno, Paolo Marini da voce alla sua chitarra e agli effetti elettronici che fuoriescono da un ipad e diverranno grandi protagonisti dello spettacolo. La sua musica è qualcosa di non semplice da definire, la voce assolutamente deliziosa tanto che saranno molti i paragoni che si divertiranno a fare coloro che avranno assistito, da quello con Roland Orzabal (Tears for Fears) a quello con Mark David Hollis (Talk Talk) fino a Dean Wareham (Galaxie 500) mentre io sto ancora scervellandomi cercando di ricordare invano a chi, quel timbro avvolgente, mi facesse pensare. L’idea musicale alla base è anch’essa di difficile definizione. L’Elettronica si gonfia di ridondanze glitch, suoni ai limiti del rumore, i pedali sono talvolta usati come un vero strumento per stuprare bonariamente le nostre orecchie in un infinito tripudio Noise. La prima cosa cui ho pensato, per i toni dimessi, mesti, incantevoli, eterei, è l’album Perils from the Sea del duo Mark Kozelek & Jimmy Lavalle (Album Leaf), anche per quella perfetta commistione tra Folk, Slowcore, Dream Pop, Downtempo, voce e liriche affascinanti ed Elettronica eppure, nel progetto The Dead Man Singing, c’è qualcosa di più, non tanto nelle capacità tecniche ed espressive, quanto nell’idea essenziale e nel suono che, come anticipato, supera certe atmosfere dimesse per sfociare in un’estetica più sperimentale ed estrema. Quello che di certo accomuna i due proponimenti è ciò che riescono a trasmettere, anche grazie alla voce; quel senso di pacata tristezza, di mortifera malinconia, d’introspettiva beatitudine. A dare ancor più enfasi allo spettacolo definito Live on the Moon, come già accennato, sono le immagini che si stagliano contro e alle spalle del musicista e quando queste sfoceranno, sul finire, in una luna enorme ad avvolgere il palco, sarà lo stesso Paolo Marini a spiegarci quello cui abbiamo assistito.

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Ogni mese, nel giorno in cui ne ricorre la morte, è caricato sul canale personale un brano dedicato a un artista scomparso. Un cantante, un musicista, un attore, un pittore, uno scrittore e via dicendo. Sarà scelto in conformità a quanto abbia inciso nella formazione dei suoi gusti e del modo di esprimersi attraverso la musica. Il primo è stato nel luglio del 2011 con Syd Barrett. L’idea è di comporre 365 video cartoline acustiche, una per ogni giorno dell’anno, registrando 365 canzoni in presa diretta, con attitudine BLP (buona la prima). In poco più di trenta anni questa fase del progetto dovrebbe essere completata.

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Ciò che abbiamo visto è The Dead Man Singing on the Moon, una trasposizione con l’aggiunta dell’elettronica live per far esibire dal vivo il morto che canta e le immagini contro servono a farlo sentire un po’ come un morto che canta sulla luna.

A spiegazione conclusa sarà più chiaro comprendermi quando affermavo che questo non è stato un semplice concerto e anche capire perché è inutile richiedere un bis, considerando anche l’assenza di pause tra i pezzi. Il Live on the Moon è qualcosa che va vissuto prima, seguendo il canale Youtube, durante, assistendo dal primo all’ultimo minuto del live e dopo, portandosi magari a casa la pen drive contenente la registrazione audio di un live di circa trentacinque minuti, la versione video del live, i testi delle canzoni, foto e una presentazione del progetto. Poi non resta che sperare che il prossimo artista morto cui sarà dedicata una canzone, non sia il vostro, ancora vivo, artista preferito.

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #14.10.2016

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Nick Cave & The Bad Seeds – Skeleton Tree

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L’ennesimo ottimo lavoro di un musicista infinito, il più bello da quindici anni a questa parte.
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Merkel Market – La Tua Catena

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Il progetto nato a Milano solo quattro anni fa è radicato ben più lontano negli anni; sia nello stile che nelle esperienze dei quattro componenti della band, già protagonisti della scena al fianco di Zona, Pino Scotto, Node, Yak la mente è costretta a tornare indietro fino all’inizio di fine millennio scorso. Proprio per questo, la loro proposta è tutt’altro che originale: onesta gravezza Post Hardcore in lingua madre stile Negazione con  lezione Refused ben impressa nella mente miscelata all’immediatezza violenta dell’Hardcore Punk e al casino controllato del Noisecore che a tratti ricorda sia The Locust sia certi Today Is The Day.

La Tua Catena è un macigno in diciassette frammenti aguzzi, diciassette “canzoni” velocissime e dirette, costruite sulle semplici basi ritmiche fatte di due bassi e una batteria a reggere il peso delle parole urlate, cantate a fatica, stravolte, stuprate e sputate sulle nostre orecchie. La violenza non è solo narrata dalle note aggressive dei quattro ma è anche raccontata come il prodotto malsano e multiforme che marcisce e prende sapore ed odore sugli scaffali di questo orrido supermarket che è l’esistenza umana non sotto l’aspetto morale ma piuttosto comportamentale. Le canzoni sono la trasposizione ideale, la mercificazione di questi prodotti incorporei, offerti dai Merkel Market a prezzo scontato affinché assaggiando il male , chi ne è in grado, riconosca la miseria della società occidentale intesa come consumistica e falsamente globalizzata.

Messa da parte la ridondanza metaforica, ciò che resta è un disco sicuramente riuscito sotto l’aspetto dell’immediatezza e della brutalità che un po’ stanca all’ascolto ripetuto, nonostante non raggiunga i trenta  minuti, per un’eccessiva omologazione al genere, senza alcuna variazione sul tema che desti reale interesse e fornisca nuova linfa a tutta l’opera. Certo è interessante l’inserto di alcune sonorità “extra occidentali”, così come ottimo è il lavoro di Marco Di Salvia alla batteria, capace di unire tra loro tutti i brani a creare un’entità unica, ma tutto questo non basta a fare di La Tua Catena qualcosa di più di un buon disco Italian Post Hardcore per amanti del genere.

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Give Vent 8 ottobre 2016 Garbage Live Club

Written by Live Report

Reduce dalla tappa al Provo Cult Club di San Giovanni Rotondo, il Folk singer emiliano Give Vent sbarca al Garbage Live Club di Pratola Peligna (AQ) per presentare i brani dell’ultimo album Days Like Years uscito da poco per l’etichetta diNotte Records. Marcello Donadelli, questo il suo vero nome, messa per un attimo da parte l’esperienza Emo Punk Post Rock con gli You vs Everything e quella con i Moscova, stilisticamente non troppo distanti dai primi, si butta a capofitto in un progetto solista che, già su disco, suona molto più che semplicemente interessante e che, come il live dimostrerà, sarà una vera delizia per le nostre orecchie.

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Solita atmosfera intima, come spesso accade in un piccolo club di provincia ricoperto di legno, libri, good vibrations e poster dei Nofx mentre fuori scende una pioggia gelida. Give Vent è pronto, chitarra in mano, a dare sfogo a tutta la sua energia; le sue sono canzoni scritte tempo addietro, per necessità espressiva più che con la diretta intenzione di forgiare un disco. Give Vent, ovvero “dare sfogo” in italiano, ed è esattamente questo che fa il musicista, ripiegandosi su se stesso e poi tirando all’esterno la sua anima, il suo cuore e il suo stomaco, con brani tutti in inglese che puntano dritti alla parte più sensibile di noi ascoltatori, narrandoci vita, sogni, rimpianti e sentimenti autodistruttivi. La sua capacità di scrivere canzoni, creare melodie sublimi senza troppe note, senza bisogno di decorare il tutto con arrangiamenti eccessivi, è la sua forza e da questo live acustico, i pezzi spogliati completamente rivelano la loro nuda bellezza. Brani come “Ashes” o “Black Sea” sono gemme miste di profondità e potenza espressiva; “Winter Will Have An End” nella sua semplicità è una delle migliori canzoni che abbia ascoltato negli ultimi tempi. Tutti i pezzi sono un continuo alternarsi e miscelarsi delle diverse anime che si scontrano e danzano nelle corde e nelle parole di Give Vent. Emo, Punk, Acoustic Rock e tanto Folk che s’ispira a band come Against Me!, Frank Turner, The Front Bottoms e poi una voce spettacolare, dalla timbrica inconfondibile e penetrante che, dal vivo, rispecchia pienamente la buona impressione avuta già prima. Circa a metà concerto una corda della sua chitarra decide di farla finita, il pubblico esce per l’immancabile astinenza da nicotina ma nel giro di cinque minuti tutto è sistemato. Give Vent decide di andare a riprendersi i suoi ascoltatori, esce dal locale e inizia a suonare un paio di pezzi con tutti i ragazzi in cerchio attorno a lui, con sorrisi stampati sul volto che raccontano la grandezza di questa passione chiamata musica. Il concerto proseguirà in un crescendo di emozioni e qualche bis, lasciandoci tutti soddisfatti e con la consapevolezza di essere persone migliori di un’ora prima.

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Ovviamente prendo il suo ultimo disco, splendidamente confezionato a mano e numerato. Un packaging di carta grezza marrone racchiude un libretto di venti per venti centimetri che contiene il disco e le sue canzoni, raccontate attraverso splendide fotografie che è lo stesso Marcello Donadelli ad aver realizzato e, in più, per i feticisti spinti, il negativo di una delle foto, incastonato in una piccola cornice bianca. Quello che rimarrà più di tutto, però, è la consapevolezza di aver avuto l’onore di ascoltare una delle voci più promettenti del panorama Folk italiano.

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