Rockambula Tag Archive

JuJu – JuJu

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“Io e il mio Cane”, il nuovo videoclip di IO e la TIGRE

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“Io e il mio Cane” è il secondo videoclip tratto dal disco 10 e 9 di IO e la TIGRE, uscito il 10 dicembre 2015 per Garrincha Dischi tra bigodini all’aria, cuori in mano e un omaggio all’Universo.

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Guignol, il videoclip di “Salvatore Tuttofare”

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“Salvatore Tuttofare” è il nuovo videoclip dei Guignol tratto dal disco Abile Labile uscito lo scorso febbraio.

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Landlord – Aside

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Scrivere dei Landlord senza citare la loro partecipazione ad X-Factor sarebbe inutile e controproducente, nonché sintomo di incoerenza intellettuale. Se spesso queste “fortune” si rivelano in realtà controproducenti per artisti e band, stavolta stiamo assistendo ad un’interessante eccezione.
Portatori di un sound pulito e preciso, di soluzioni melodiche interessanti – anche se non rivoluzionarie – e di una delicata voce femminile (Francesca Pianini), i quattro di Rimini hanno potuto, grazie alla enorme cassa di risonanza della prima serata, portare nelle case degli italiani un sound diverso dal solito prodotto impacchettato e pronto all’uso da consumarsi in pochi mesi. I Landlord hanno davvero qualcosa da dire e cominciano a scrivere la loro storia con un EP dal titolo sibillino Aside fuori per INRI (e scusate se è poco).
Cinque tracce per poco più di venti minuti sono sufficienti a scrollarsi di dosso la pesante eredità televisiva: Let me tell you I don’t care about it / Leave it behind, get by, get by è il ritornello dell’opener “Get by” e sembra ribadire più volte questo concetto. I Landlord confidano nella bontà del proprio progetto e non abbandonano la strada maestra (in “Still Changing” il termine “stay” è ripetuto molte volte) facendo di un’elettronica sapientemente addolcita il proprio marchio di fabbrica. Royksopp, Arcade Fire e The National sono tra gli ispiratori del quartetto ma nessuna di queste influenze è così evidente da risultare sgradevole o troppo presente, tutto appare in perfetto equilibrio.

Aside è solo un assaggio di qualcosa che si preannuncia esplosivo, nonché il perfetto compromesso tra Electro, Trip-Hop e Pop, laddove quest’ultimo fa rima con ricercatezza e distinzione.
I Landlord preferiscono restare, almeno per ora, volutamente Aside e far leva sulle proprie possibilità, forti di una capacità compositiva superiore alla media e di un’attitudine elegantemente Pop che li rende padroni di un linguaggio di respiro internazionale.

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10 SONGS A WEEK | la settimana in dieci brani #20.05.2016

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Cinque canzoni brutte, bellissime

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Anohni – Hopelessness

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Anohni, già Antony Hegarty degli Antony and The Johnsons, con Hopelessness si dà alla carriera solista partorendo un disco che è epico e cupo insieme, in cui la luce e l’ombra s’intrecciano e si scontrano in un campo di battaglia fatto di drum machine e sintetizzatori analogici, beat storti e una voce angelica che è il vero punto di forza di tutto il lavoro.

Hopelessness è la colonna sonora di un party sotto le bombe, ma non nel senso vascobrondiano: è una festa che è più un rito, un rito d’espiazione, denso, epico dicevamo, intenso come una preghiera urlata; come se le bombe non fossero una metafora, ma delle bombe, delle bombe vere. E sono vere, anche se non cadono sulle nostre teste ma altrove, su altre teste, su altri corpi, che non ballano ma muoiono, davvero, oggi, ora. È un disco pieno di senso di colpa, di frustrazione, di ansia: per le bombe sganciate dai droni americani, appunto (“Drone Bomb Me”, “Crisis”), ma anche per il riscaldamento globale (“4 DEGREES”), per gli uomini violenti, cresciuti da una società che li premia e li alleva (“Violent Men”), per un presidente e una nazione imperialista da cui ci si sente traditi (“Obama”, “Marrow”), per la pena di morte (“Execution”), per la stessa razza umana che sa solo distruggere, come un virus (la title track). Insomma, Hopelessness è un disco pieno di negatività, di tristezza, di disperazione (come da titolo), e Anohni rigetta tutti questi dolori in un disco che musicalmente è invece spesso luminoso, come se la musica e, soprattutto, la sua voce potessero inglobare le parole e pulirle dallo sporco anche solo attraverso il suono.

Non c’è quasi nulla di acustico, tutto è arpeggiatori, ritmi sghembi, frizzoni di synth, campanelli elettronici, tutto ondeggia intorno a questa voce ultraterrena, che sale, scende e trascende. Un disco che solamente si avvicina a essere Pop senza mai diventarlo compiutamente: è un’elettronica retrò, a tratti graffiante, altre volte quasi liturgica, che non si ascolta a cuor leggero se non fermandosi pochissimo sotto la superficie (in quel caso, è accessibilissima). Hopelessness è un’accusa (e auto-accusa) esplicita e dolorosa, a volte anche troppo esplicita e troppo dolorosa; è un disco sinceramente dolente, sentito e appassionato, che accarezza le orecchie e disturba la coscienza. Forse esagerando. Forse no.

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Senatore – Bisogni Primari

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Torino è da sempre una fucina fervida di creazioni musicali, alcune nuovissime, alcune debitrici delle diverse band Alternative che, nel corso degli anni, sono più che emerse dal panorama locale. Questo secondo caso riguarda anche i Senatore.
Sin dalle prime battute di “Intro”, la band definisce il suo stile: un Indie-Pop elettronico che ammicca spesso e volentieri alla Dance, come anche nella successiva “A Sangue Gelido”: rime ossessive, accenti tonici verbali sbagliati perché sottesi alla metrica della forma musicale. Nelle tracce successive, però, le ispirazioni diventano più variegate e meno scontate: “Gli Avvocati” è un bel brano fresco ed elegante, alla Phoenix, mentre la title-track “Bisogni Primari” non può che ricordare i concittadini Subsonica (e, non a caso, il disco è stato mixato da Max Casacci in persona, presso l’Andromeda Studio). Le liriche dei Senatore si distinguono dai brani di genere simile per le tematiche affrontate: c’è la voglia di essere impegnati, c’è il bisogno di esprimere qualcosa di più del puro divertimento che il ritmo cadenzato suggerirebbe. È il caso de “L’Anticiclone Nord”, che potrebbe serenamente diventare la hit dell’estate con il suo bell’andamento scanzonato (ma solo in superficie) e richiami alla Killers.
E se si fa Dance, per quanto filtrata dall’Indie e dall’Alternative, non si può che pagare un debito anche agli anni ’90, come in “Shampoo”, che si connota subito come brano radiofonico e non può che farmi immaginare scampagnate estive in auto, coi finestrini abbassati e la musica a un volume accettabile per contrastare il rumore del vento e dell’asfalto.
Antitetica al midollo è “Disciplina Zen”, che di meditazione, calma e pace ha proprio poco o nulla considerato invece quanto musicalmente parli più di dance floor, di ascelle sudate e capelli scombinati dalla frenesia del movimento. E non credo sia un caso che il titolo scelto per la traccia successiva sia “Un Crollo Mistico”: velocità contenute rispetto alle tracce precedenti e chitarre che giocano a fare contrappunti melodici nelle sezioni strofiche per concedersi poi il ruolo di protagonista nel riff principale.
Fin qui, Bisogni Primari, è un disco più da sentire dal vivo che non nel salotto di casa, ma con “Qualche Scintilla” la sensazione cambia leggermente. Vuoi che sul piano fonico la band si rifaccia più o meno intenzionalmente ai Kasabian, come nella successiva “La Casa del Popolo” o vuoi che, come sembrerebbe confermare la chiusura con quel titolo, “Tipi Classici”, la band sta omaggiando le origini più elettriche che elettroniche (più Foals che i nuovi Coldplay – grazie al cielo!), ma il finale del disco ha davvero sposato il mio gusto.

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Less Than a Cube – Less Than a Cube

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La presenza del sempiterno Amaury Cambuzat (Ulan Bator, Faust) alle chitarre della quarta traccia (“Blue Grass”) di questo omonimo disco d’esordio dei torinesi Less Than a Cube non sarà sufficiente a salvare un album che ha poche cose da dire e finisce per dirle malissimo. Nove brani che nelle intenzioni vorrebbero rileggere un passato vecchio vent’anni e più con rinnovata vitalità ma che finiscono con lo scimmiottare chitarre e distorsioni datate in maniera tutt’altro che apprezzabile. Lo scenario lo-fi nel quale tutto sembra inserirsi finisce per suonare piuttosto forzato che non voluto e, non solo suoni e melodie danno l’idea di scarsa ricercatezza e assente ispirazione, ma anche le qualità vocali di prima (Fabio Cubisino) e seconda (Alessia Praticò) voce, entrambe in inglese, finiscono per essere non certo di alto livello e sfiorano una sgradevolezza senza alcun fascino, come chi volesse imitare J Mascis più per necessità che per volontà e Peter Murphy più per superbia che per capacità. Tra le diverse analogie col passato riscontrabili in questo Less Than a Cube, oltre al già citato Alternative Rock anni Novanta (“Blue Grass”, “Revolution”), ritroviamo ritmiche Post Punk (“Dear Secret”) e dilatazioni chitarristiche Gothic Rock (“Not Forget”, Night Song”), reiterazioni Post Rock (“Escape Plan”), accenni Art/Experimental Rock e Slowcore tra Liars e Devastations (“The World On Fire”, “The Dust”) e sferzate Post Hardcore appena accennate (“Monovolt”).

Una marea di riferimenti buttati nel calderone con confusione, senza un preciso punto di arrivo nell’obiettivo, senza palesare alcuna capacità fuori dal comune, anzi, evidenziando una certa banalità d’ispirazione e nessun punto di forza peculiare. Dispiace metterlo nero su bianco ma questa volta il “vecchio” Cambuzat non potrà salvare i suoi figliocci dalla marea di sterilità in cui si sono immersi con le loro stesse mani.

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Duran Duran – Girls on Film 1979 Demo

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Molti si sono spesso chiesti come suonassero i Duran Duran prima di diventare famosi. La risposta era venuta già alcuni anni fa, quando i membri fondatori del gruppo Nick Rhodes e Stephen Duffy diedero alle stampe Dark Circles sotto il nome The Devils, in cui raccolsero molte delle idee disseminate nel primissimo periodo della band reincidendo dodici brani dell’epoca suonandoli con strumenti vintage.

Con Girls on Film 1979 Demo siamo invece di fronte alla trasposizione sonora da cassetta a vinile e cd del primissimo demo ufficiale della band inglese. Certamente sono presenti anche alcuni limiti nell’audio, ma c’è da dire che è stato fatto davvero un ottimo lavoro di masterizzazione, oltre che a livello di artwork. La formazione non vedeva né Duffy né Simon Le Bon alla voce, ma un giovanissimo Andy Wickett, che aveva lasciato da poco i Tv Eye, band di cui John Taylor e Nick Rhodes erano soliti seguire i rehearsals in studio. La fusione fra i due gruppi avvenne così in maniera naturale e  la line up a cui si era giunti era così composta: Andy Wickett (con il nickname Fane) alla voce e al piano, John Taylor alle chitarre, Roger Taylor alla batteria e Nick Rhodes alle tastiere.

Quattro i brani qui presenti.
“See me, Repeat me” è spesso indicata come una primordiale “Rio”, mentre in realtà la primissima incarnazione del pezzo fu “Stevie’s Radio Station” (che potete trovare in una sorta di greatest hits di Andy Wickett in vendita sul suo sito ufficiale); la canzone è caratterizzata dal drumming preciso e metronomico di Roger Taylor, che si esibisce anche in rullate ben assemblate che fungono da divisorio fra i vari riff. La voce di Andy Wickett ha uno stile prettamente Punk, quasi à la Johnny Rotten; peccato che (solo in questa occasione, sia chiaro) John Taylor e Nick Rhodes passino quasi in secondo ruolo.
In “Reincarnation……”qualcuno ha sentito anche reminiscenze di “Khanada”, b-side dell’hit “Careless Memories”, che dà anche il nome a uno dei più ricercati bootleg su vinile dei Duran Duran. Questa volta però anche le tastiere e le chitarre hanno un ruolo essenziale nella struttura. Viene da chiedersi come mai una piccola gemma come questa non trovò spazio nel disco omonimo di debutto della band. Sarà stata la voglia di rinnovamento? Di certo sarebbe stata all’altezza della situazione, ma questa è in fondo solo un’opinione personale.
“Girls on Film” è nella sua prima stesura con testi e musiche molto differenti da quelli che appena due anni dopo compariranno sul primo omonimo album della band. I ritmi sono molto più veloci e risentono maggiormente delle sonorità tipiche della Disco Music anni 70; i tecnicismi abbondano ed il talento dei ragazzi di Birmingham appare più evidente facendo capire che presto sarebbe diventata per forza di cose un singolo, che pur acquistando una pelle diversa, avrebbe entusiasmato le generazioni a venire tanto da venire spesso usata come bis nei concerti anche quasi quarant’anni dopo.
“Working The Steel” ha il duro compito di chiudere questo lavoro che pur essendo stato pubblicato nel 1979 solo come cassetta demo ha un grande valore per l’intera storia musicale britannica. Forse non si stava lavorando l’acciaio come suggerisce il titolo in fase di scrittura ma di certo si forgiava un sound che avrebbe influenzato tre decadi di musicisti.

Girls on Film 1979 Demo, nonostante siano passati quasi quarant’anni dall’inizio della storia dei Duran Duran, suona ancora fresco, grazie anche all’immenso lavoro di produzione di Bob Lamb (che nel 1979 stava lavorando in contemporanea a un’altra pietra miliare della musica inglese, il primo disco degli UB 40). Mai i Duran Duran mi sono sembrati così istintivi nella loro musica, tenendo fede a quell’attitudine Punk che tanto andava di moda ma guardando anche a modelli quali i Japan di David Sylvian che grazie ad album seminali quali Adolescent Sex e Obscure Alternatives erano già considerati fra i padri fondatori della New Wave britannica. I Duran Duran negli anni a venire getteranno invece le basi per il movimento New Romantics e Girls on film 1979 Demo non può che essere il punto di partenza da cui è nata una leggenda.

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Harmonic Pillow – Harmonic Pillow [STREAMING]

Written by Anteprime

Esce oggi per Dischi Bervisti l’omonimo album d’esordio degli Harmonic Pillow, in speciale anteprima su Rockambula Webzine e scaricabile in free download a partire dal 23 maggio su dischibervisti.bandcamp.com

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Manuel Volpe & Rhabdomantic Orchestra – Albore

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Prova di eleganza e di gusto per il marchigiano Manuel Volpe. La sua mano da produttore e musicista si sente in questo nuovo disco dal titolo Albore pubblicato dalla Agogo Records. Interamente scritto, arrangiato e prodotto da Manuel Volpe, l’album si avvale di un eccellente team di produzione composto da Massimiliano Moccia (Movie Star Junkies), Andrea Scardovi (Sacri Cuori), Kelly Hibbert (Flying Lotus, Heliocentrics) e Volpe stesso con la preziosa supervisione dell’esperto di Afro/Jazz/Fusion Andrea Benini (Mop Mop). L’artwork è ad opera di Edoardo Vogrig. A tre anni circa da Gloom Lies Beside me as I Turn my Face Towards the Lights si ripropone sul mercato musicale con una delle più interessanti uscite del nuovo panorama discografico italiano di questo 2016, un lavoro che come pochi, nasce dalla provincia e visita regioni antiche ed altre lontane portandoci a spasso per i territori latini e quelli arabi, tra i popoli e i cori africani e i metalli preziosi delle grandi città. Un disco sostanzialmente di Lounge che coniuga pochissima elettronica ai suoni reali condotti per mano dalla sua inseparabile Rhapdomantic Orchestra. In questi dieci inediti in studio, Manuel Volpe culla e accompagna, in brani che rischiano la monotonia certamente ma che invece ogni volta sanno come sottolineare il proprio carattere e la propria personalità.

“Basrah”è una traccia molto seducente almeno quanto “Rhabdomancy” che però è più
“spirituale” affrontando temi quali il rapporto che l’artista ha con Dio. Il video di lancio, bellissimo, recita il concetto di viaggio ma soprattutto di divenire: il brano è “Nostril” ed il protagonista è un ragazzo di colore che osserva una Torino sconosciuta perché forse vi ci arriva per la prima volta. Oppure osserva la sua città in un modo che mai prima si era sognato di fare e quello che vede, in ogni caso, è una scoperta. Ed il disco di Manuel Volpe il fondo è così: una scoperta dietro il telaio di brani dolcissimi, scuri, intensi, riflessivi e assolutamente internazionali. Prova di stile contro gli inutili quanto ormai scontati tentativi di trasgressione digitali che si espandono a macchia d’olio in questa scena indipendente italiana.

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