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Franz Ferdinand

Written by Live Report

Alle volte per me è inevitabile associare certi concerti ad una gravidanza. So che con questa affermazione rischio la morte per decapitazione da parte di tutte le donne che hanno passato ore ed ore in sala travaglio, ma abbiate pietà di me e delle mie libere associazioni, che in questo caso fanno riferimento principalmente al sentimento dell’attesa che governa entrambi gli eventi. Compri un biglietto, aspetti per nove interminabili mesi l’arrivo del concerto, consapevole che in quel lasso di tempo può davvero succedere di tutto. Poi il giorno del concerto quasi per magia arriva, e ti trovi improvvisamente catapultato in un Regionale Veloce con destinazione Milano, dove ti aspettano i tuoi compagni di numerose battaglie; quelli forti, valorosi e temerari, che non si spaventano nemmeno all’idea di dover passare una notte da barboni nella stazione di Milano Centrale per andare direttamente a lavoro l’indomani freschi, riposati e soprattutto profumati, per la gioia dei colleghi. Per fortuna la sorte non ci è stata così avversa: il nostro “sopporter” ufficiale avrà pietà di noi ancora una volta e ci riaccompagnerà a casa. Dopo aver sbagliato treno alla fermata Famagosta (ma secondo voi potevamo farci mancare anche questo tipo di emozioni?), arriviamo finalmente al Forum Assago per essere letteralmente assaliti, sin dalla banchina della metro, da un numero incalcolabile di bagarini che offrono biglietti a prezzi modici e stracciati (a detta loro), tanto che mi chiedo se sono l’unica scema ad averlo comprato. Sono le 21.00, il Forum è pieno, ma dei Franz Ferdinand nemmeno l’ombra. Dal palco, l’occhio stampato sul fronte del cd Right Thoughts Right Words Right Action, riproposto sulla grancassa della batteria, ci osserva: uno sguardo divino sulle nostre esistenze? Un Grande Fratello che ci scruta dall’alto? Non lo sapremo mai. Noi lo interpretiamo come un occhio severo che, pur senza proferire verbo, è capace di farci arrivare un cazziatone interiore che dice più o meno “Che cazzo ci fate ancora senza birra in mano?”. Tranquillo occhio sulla grancassa, provvediamo subito.

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Con una birra in mano le 21.30 arrivano senza problemi, e finalmente si comincia. I Franz Ferdinand si palesano in tutto il loro splendore sul palco. Alex Kapranos guadagna la posizione centrale, ed io lo amo già solo per la sua giacca di pelle, per il suo modo di saltellare sul palco e per come dice “Buonasera Milano”. La scenografia retrostante non è di grandi pretese, ma essenziale: uno schermo centrale e due grandi schermi laterali per proiettare immagini, luci ed effetti. Si comincia con “Bullet”, dall’ultimo album, e si prosegue con pezzi degli album precedenti, per un mix letale tra vecchio e nuovo. Tutto procede a meraviglia, l’energia che si sprigiona è tanta, come da previsioni: dentro, fuori e intorno è tutto un gran saltare. Intuisco l’arrivo di “Do You Want To” e mi preparo ad una carica nelle ginocchia da salto sulla luna, ma stranamente il ritmo rallenta, e così accade anche per “Walk Away”. Mi sa tanto che ci toccherà preservare l’energia potenziale per il seguito. Infatti a partire da “Take me Out”, seguita da “Love Illumination”, sarà uno scatenarsi di emozioni, voci e mani al cielo senza tregua, che solo “Jacqueline” e “Goodbye Lovers and Friend” riusciranno a mettere a freno, lasciandoci intravedere in controluce la fine del concerto. Mentre canto Goodbye lovers and friends, so sad to leave you, when they lie and say this is not the end… la mia voce si unisce a quella di altre “millemila” voci, ma mi ritrovo infine abbracciata a coloro che poco prima in metro mi facevano ridere in una maniera così spensierata, e penso che no, non ci dovrebbe mai essere una fine a tutto questo; non dovrebbe mai avere fine la Bellezza.

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Il Video della Settimana: The Sheets – It’s Goin’ Around

Written by Senza categoria

Andrea Di Bartolomeo, Davide Coccagna, Stefano Befacchia e Edolo Ciampichetti vengono da Montorio al Vomano, paesino in provincia di Teramo ma la loro musica è quanto di più distante si possa immaginare dalle terre abruzzesi. Gli Sheets, attivi dal 2011, pescano a piene mani dal mondo del Britpop degli Oasis (incredibile la somiglianza tra la voce di Andrea Di Bartolomeo e quella di Noel Gallagher) passando anche per Stereophonics o gli intramontabili Beatles. People Like Us è il loro primo album, è la loro voce, è la loro passione trascritta in musica. L’album è composto da undici brani in puro stile Britpop, quarantacinque minuti di energia, sentimenti, passione. “…questo cd è semplicemente come siamo noi ed è per gente come noi!”.

“It’s Goin’ Around” è il primo singolo dell’album e il videoclip sarà visualizzabile qui di seguito e in homepage per tutta la settimana.

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3 Fingers Guitar

Written by Interviste

3 Fingers Guitar è un cantautore Post Punk, un animale elettrico, una “quasi” one man band. Chi è Simone Perna, quanto c’è di lui in 3FG, e come è arrivato a fare questo disco, Rinuncia all’Eredità?
Fare questo disco è stata una necessità. Più che in altre occasioni. Ho dovuto farlo per liberarmi da cose rimaste in cassetti chiusi per molto tempo ma che continuavano a riproporsi comunque davanti ai miei occhi.  Quindi sì. In 3 Fingers Guitar c’è molto di me.

La scelta di suonare quasi tutto da solo è nata da una necessità o è una precisa scelta artistica? Doversi bastare è più facile o più difficile rispetto alla vita (sul palco e in studio) con una band?
Direi una necessità pratica che è diventata una scelta artistica di conseguenza. Una situazione del genere ti dà sicuramente autonomia e questo è un vantaggio. Per fortuna non vedo grandi svantaggi, è una condizione che ho scelto abbastanza conscio di tutto quello che comporta. Alla fine si riduce tutto alla motivazione che ti muove a fare le cose.

È difficile inquadrare la musica che fai. In Rinuncia all’Eredità” c’è del cantautorato, come dicevamo, insieme ad un’urgenza che sta a metà tra Punk e Blues. Ci sono attimi intensi, graffianti, ma anche panorami quasi sospesi, ossessivi. La pasta sonora dei tuoi pezzi, l’ambiente in cui li immergi, i vestiti che cuci loro addosso, sono frutto di un calcolo o di un lanciarsi a capofitto nell’improvvisazione più pungente?
Quasi tutti i pezzi sono nati da scampoli, piccole idee, riffs minimali di chitarra o loops ritmici ripetitivi. Quindi di lì l’improvvisazione certo, lo sviluppo di strati sonori istintivi, nati sul momento, a servizio di strutture a volte nate spontaneamente e altre volte invece meditate a lungo. Diciamo che entrambe le cose a cui ti riferisci coesistono.

Parliamo del disco. Qual è il brano “centrale”, quello a cui faresti riassumere la narrazione dell’intero album? E invece quello più ai margini?
Il brano centrale è sicuramente la title-track. Lo snodo narrativo del concept è lì. Un padre sul letto di morte, un figlio che lo ritrova lì, dopo anni di assenze reciproche e rancori. Un confronto cruciale di esistenze riflesse.  Non so individuare quello più ai margini, hanno tutti, chi più o chi meno, a che fare con lo stesso tema e sono legati tra di loro.

La scelta di farlo in italiano, dopo i primi lavori scritti in inglese, da cosa è dipesa?
Dal fatto che in primis l’inglese non è la mia lingua madre. Per un po’ il gioco ha retto ma quando il problema si è posto in termini di autenticità espressiva ho rivisto le mie posizioni nei confronti dell’italiano. Perché apparentemente l’inglese è una lingua  più musicale, più semplice da trattare in termini di rime e assonanze all’interno di un testo musicato. Quando però mi sono ritrovato a cantare su un palco un pezzo in inglese rendendomi conto di non essere convinto appieno del senso sia grammaticale che strettamente comunicativo di ciò che stavo dicendo, mi sono reso conto che era il momento di cambiare. Quello che volevo far arrivare al pubblico in quel momento non ero in grado di farlo uscire appieno.

Chi è il padre, e cosa ha lasciato in eredità? E perché, soprattutto, ci si sottrae a questo lascito?
Il padre e un’allegoria. Rappresenta il passato. Un passato fatto di traumi che non riusciamo a risolvere e che condizionano il nostro presente. Mi spiego meglio: in generale nella nostra vita e nei nostri rapporti umani inseriti nella società in cui viviamo  ci può capitare di avere a che fare con cose non particolarmente piacevoli. Cose che ci segnano, che ci fanno star male e che ci portiamo dentro. La cosa terribile che ho constatato a volte  in me e negli altri è questo sentirsi inconsciamente autorizzati a far star male altre persone sulla base di ciò che abbiamo subito noi in precedenza. Un modo per liberarsi dei propri traumi che in realtà non fa altro che generare altro dolore e alimentare sensi di colpa. Una cosa tremendamente autocompiaciuta e che a volte  serve a giustificare la parte peggiore di noi.

Perché il codice morse nel booklet? Un divertissement casuale o una precisa aggiunta a posteriori?
Il codice morse è stata un’idea di Cinzia La Fauci di Snowdonia Dischi che ha curato con estrema attenzione la parte grafica. Una scelta estetica minimale che mi ha convinto subito. Ma è soprattutto un modo per comunicare  alcuni sottotesti dell’album. Sta alla pazienza e alla voglia di chi si appassiona all’ascolto del disco decifrarli.

Sono affascinato da questo modo di saper intendere il cantautorato in modo anche molto diverso da quello che anni di De André, De Gregori, Guccini ci hanno fatto sedimentare nelle orecchie: anche oggi i loro epigoni imperano, col risultato, spesso, di rallentare le possibili evoluzioni della cosiddetta “canzone d’autore”. So che tu, invece, ti ispiri ad altre realtà: Claudio Rocchi, Fausto Rossi… cosa pensi di aver inserito nelle tue canzoni che si ispira a questi “grandi outsider”?
E’difficile parlare di ispirazione per me. Nei confronti di ciò che ascolto e che mi appassiona mi vedo come una specie di spugna che assorbe cose anche diversissime tra loro. Nel caso dei cantautori italiani a cui ti riferisci, nelle Border Nerves Sessions (4 video-cover rispettivamente di Juri Camisasca, Fausto Rossi, Federico Fiumani e Claudio Rocchi) ho voluto rendere omaggio ad autori che amo e che hanno un approccio alla canzone in cui mi ritrovo. Viscerali, istintivi, a volte grezzi nella forma ma sempre molto personali. Attenzione però. Si può essere epigoni di chiunque. Il punto per me è assorbire il più possibile dalle cose che mi coinvolgono e mi colpiscono (quindi certamente  anche De Andrè, De Gregori..) e cercare poi di dare una forma che mi convinca a quello che faccio.

Un altro cantautore sui generis che è uscito da poco col disco nuovo è Vasco Brondi (Le Luci della Centrale Elettrica). È evidente che per tanti motivi i vostri dischi siano distanti anni luce, ma io ho trovato anche qualcosa che forse li lega: il tentativo di sposare l’idea di “cantautore” con questa urgenza Post Punk (nel tuo disco è ovunque, in quello di Vasco affiora qua e là, nei suoni, nelle strutture dei brani) che, in qualche modo, tenta uno sradicamento dei cliché che la canzone italiana si porta dietro anche nei suoi lati più “indipendenti”. Questa Rinuncia all’Eredità la possiamo intendere anche in un senso “meta”? Ignorare, o meglio ancora, spezzare i topoi che ci precedono e creare qualcosa di veramente nostro, anche assumendoci la responsabilità degli errori e delle difficoltà di comunicazione che, inevitabilmente, ci troveremo ad affrontare? In altre parole: c’è nella tua musica il tentativo cosciente di renderla “nuova” e quindi, in qualche misura, “difficile”?
Se da ascoltatore  hai individuato nel mio disco una proposta  nuova e personale la cosa non può far altro che farmi un grande piacere e ti ringrazio davvero tanto. Da parte mia però, non riuscirei mai a  partire da delle  premesse programmatiche nella mia musica. Mettersi lì e dire: “Oh! adesso diamo una bella  scrollata a questo cantautorato italiano e facciamo un bel disco innovativo e difficile!” non è proprio da me; la vedo come una cosa un po’ rischiosa che potrebbe  condizionare  la creatività in fase di realizzazione dei pezzi.

Torniamo a domande più leggere. Come porterai in giro il disco dal vivo? Sarai da solo o ti farai accompagnare da qualcuno?
Sia in duo, con in più la batteria di Simone Brunzu (che suona sull’album)  sia da solo. Cerco di adattarmi a seconda delle situazioni.

Dopo Rinuncia all’Eredità cosa farai? Hai altri progetti in corso? Novità di cui ci vuoi parlare?
Ho già qualche pezzo pronto e parecchie idee a cui dare una forma più definita. Ma per il momento mi sto concentrando sul disco appena uscito e a portarlo in giro coi live.

Grazie per la chiacchierata, alla prossima!
Grazie a te per le domande Lorenzo, a presto!

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L’evoluzione storico/tecnica del Record Producer. Quinta Parte.

Written by Articoli

“Silvano Pistola”, il nuovo video dei Moostroo

Written by Senza categoria

“Silvano Pistola” è il primo singolo estratto da MOOSTROO, omonimo disco del trio bergamasco MOOSTROO. Il brano racconta e mette in scena una storia di provincia come tutte quelle contenute nel lavoro d’esordio del gruppo (disponibile dall’11 marzo 2014 sul sito del gruppo e su Bandcamp). Silvano/a, figlio adolescente di una famiglia arricchita, viene ricoperto di cose e alla fine si trova tra le mani ciò che meglio d’altro può funzionargli da terapia famigliare: una pistola. La sua non è una soluzione auspicabile, ma solo il risultato di un’educazione anaffettiva che sostituisce con gli oggetti e il possesso ogni possibilità di scambio umano. “Silvano Pistola” nasce da un’idea di Franz, bassista dei MOOSTROO. La regia è dello stesso Franz e del cantante-chitarrista Dulco. Le riprese ed il montaggio, nonché la post-produzione, sono di Paolo Bonfanti – Calamari Production. Gli interpreti nel video sono: Roberta Agazzi, Matteo Lodetti delle Capre a Sonagli e Francesca Biava.

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Paolino Paperino Band – Porcellum

Written by Recensioni

Qualche giorno fa vi ho raccontato, con una certa vena di eccitazione e sana inquietudine, di un disco chiamato Pislas, ristampato qualche mese fa, e di una certa band dallo strampalato nome, Paolino Paperino Band. Se avete letto quelle mie parole, avrete capito che cosa questi cinque ragazzi abbiano simboleggiato per la nostra gioventù ribelle a modo nostro; poi però succede che questa stessa formazione dallo sconclusionato nome, Paolino Paperino Band, decide di tirar fuori un album nuovo, oltre vent’anni dopo da quel mezzo capolavoro e ci tocca quindi smetterla di sognare ad occhi aperti pensando a tempi ormai andati e valutare con onestà intellettuale questo Porcellum. Che cosa è cambiato dai tempi di Pislas a oggi, nella loro musica? Poco, se guardiamo allo stile puro eppure tanto e non certo in senso positivo. Gli undici brani di Porcellum seguono le stesse dinamiche Punk degli esordi ma non riescono a proporsi con la stessa potenza, scivolando in maniera più lineare, senza troppi cambi di ritmo e riducendo al minimo quelle follie soniche che ci parevano ergere i nostri su un livello di superiorità rispetto ai colleghi italiani.

Anche in quanto a temi e testi, lo stile è quasi immutato, con un cocktail di attacchi al sistema e a nemici quasi reali e di spessore sempre cercando di velare il tutto in un’ironia che stavolta pare forzata oltremisura e poco incisiva e realmente divertente, a differenza di quanto succedeva venti anni fa. Oltre la nostalgia e la malinconia che evidentemente deve aver colpito anche loro, vista l’autocitazione di “Fetta”, storico brano dei Paolino (“fetta di salame o di prosciutto, fe-fe-fe-fe-fetta con il ketchup, con lo strutto”) resta tanta amarezza e delusione e anche quel fastidioso senso di malessere di chi sbatte la faccia contro la dura realtà. Cristo Santo, non ho più diciotto anni, non è più tempo di “giri morti” in macchina a zonzo, fumo e birra e i Paolino Paperino Band non sono più gli stessi forse perché noi non siamo più gli stessi o forse perché, certe cose possono dirle solo dei ragazzi un po’ fuori di testa e non degli adulti rimasti troppo ancorati al passato. La nostra rivoluzione è fallita eppure resta quella tristezza che mi ricorda che sognare che il tempo si sia fermato a venti anni fa, in fondo non costa nulla.

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Nicola Manzan (Bologna Violenta)

Written by Interviste

Sta girando l’Italia in lungo e in largo per il tour legato al suo ultimo album. Si porta dietro un’esibizione live dal forte impatto emotivo. Dopo aver partecipato al concerto tenutosi a Torino, era inevitabile porsi delle domande su Uno Bianca. A domande fatte, Bologna Violenta (Nicola Manzan) risponde. Eccovi serviti.

Ciao Nicola, cominciamo dal principio. Com’è nata l’idea di Uno Bianca? Voglio dire, in Italia purtroppo si sono verificati un gran numero di fatti di cronaca nera. Come mai la scelta degli avvenimenti legati proprio ai fratelli Savi?
La scelta è ricaduta su questi fatti perchè si sono svolti in larga parte a Bologna e provincia (per quanto la banda abbia operato anche lungo la costa adriatica fino a Pesaro). Volevo fare un disco su Bologna, un po’ come era successo nel 2005 con il mio primo album. Lì era più una questione di istinto, di sensazioni trasformate in musica, filtrate attraverso l’immaginario dei film poliziotteschi degli anni Settanta (ma con sonorità moderne, ovviamente). Qui il lavoro è stato diverso, sentivo il bisogno di raccontare Bologna, ma volevo farlo partendo da una storia vera che secondo me ha sconvolto e cambiato sotto molti aspetti la città di Bologna e le persone che ci vivono.

Ti sei dovuto documentare molto per la realizzazione di questo album? Di che tipo di materiale ti sei servito per poter riscrivere in musica questa storia? Hai trovato difficoltà nel reperirlo?
Ho cominciato ad interessarmi a questa storia una decina di anni fa e quando mi sono messo al lavoro per scrivere e registrare il disco mi sono reso conto di avere parecchio materiale utile senza dover impazzire per reperire molte altre informazioni. Tengo anche a precisare che il mio intento è sempre stato, fin dall’inizio, quello di “sonorizzare” i peggiori crimini della banda, quindi la cosa fondamentale per me era capire come si erano svolti i fatti per poter poi creare una sorta di sceneggiatura che sarebbe diventata la struttura del pezzo. Quindi mi sono concentrato più che altro sulla ricerca di libri o documenti con fonti attendibili che raccontassero cos’era successo (o cosa si presume possa essere successo) e poco altro. Non mi è mai interessato affrontare tutte le questioni e le ipotesi riguardanti le azioni della banda (qui le teorie si sprecano), per me l’importante era mettere in musica dei momenti di follia e terrore.

Nelle tue esibizioni live di Uno Bianca la musica è accompagnata da immagini, scritte e video  essenziali, molto diversi da quelli che accompagnano le esibizioni dei tuoi precedenti pezzi. Una formula che aiuta a descrivere i fatti e a meglio comprendere la tragicità degli eventi, senza però far passare in secondo piano la musica. Più che un concerto i tuoi live sono una sorta di esperienza multisensoriale dal forte valore emotivo. Ci racconti com’è nata l’idea di un live di questo tipo?  
Devo innanzitutto dire che avrei voluto avere i visual anche per i tour precedenti, ma alla fine per un motivo o per un altro (a dire la verità sono tantissimi fattori messi insieme) non sono mai riuscito a mandare in porto questo aspetto dei live. Per questo disco, però, la questione “visual” non poteva essere ignorata. Non a caso anche nel disco si trova una guida all’ascolto in cui vengono raccontati i vari episodi, dando così la possibilità all’ascoltatore di poter capire cosa stia succedendo a livello musicale. Quindi ho deciso di creare un video per ogni pezzo del disco, ma non volevo fare dei videoclip veri e propri (anche perché le immagini di repertorio non sono comunque moltissime), mi interessava più che altro raccontare attraverso poche immagini, poche parole e alcuni simboli ricorrenti (come i flash degli spari e le croci). Se non ci fossero i visual penso che nessuno capirebbe cosa sto facendo durante i concerti, i pezzi sarebbero fini a se stessi e ci sarebbe addirittura il rischio che venissero ascoltati con le stesse “intenzioni” di quelli dei dischi precedenti, dandone una interpretazione grottesca e quindi sbagliata. I video della seconda parte del concerto (i cui suono appunto pezzi presi dai dischi precedenti) sono addirittura spesso più truci di quelli di Uno Bianca, ma tutto sommato vengono vissuti con più leggerezza dalla gente.

Uno Bianca è stato oggetto di critiche per una sbagliata interpretazione dei tuoi intenti; se ne è parlato molto sul web. Te l’aspettavi una cosa del genere? Cosa hai pensato quando hai letto l’articolo in questione su “Il Resto del Carlino”?
Ho pensato che a questo mondo non c’è proprio speranza… L’articolo (quello che ho condiviso su Facebook è solo uno dei tre usciti anche sul cartaceo) è stato scritto dopo essere stato un’ora al telefono con uno dei loro giornalisti a cui ho spiegato per filo e per segno tutto di me, del mio progetto e di quello che ho fatto nella vita, giusto per non lasciare delle zone d’ombra. Però niente da fare, evidentemente avevano già deciso tutto prima di contattarmi e nonostante io abbia mandato il disco alla redazione del giornale, è palese che l’articolo fosse in pratica tutto già scritto prima ancora di contattarmi. Come è palese che nessuno ha ascoltato gli mp3 che ho mandato. Questi articoli poi hanno sollevato degli strascichi di polemiche molto fastidiose, a dirla tutta. Io ho solo raccontato in musica una storia, ma evidentemente questa cosa non si può fare. Davvero non capisco.

Questa è una domanda personalissima, o forse no. Nelle tue produzioni musicali ti sei quasi totalmente discostato dal concetto di “canzone”. In Uno Bianca i testi sono quasi del tutto assenti. Tuttavia ho sempre avuto difficoltà a scollegare totalmente la tua musica dalle parole, perché non immagini la quantità di parole che viene fuori dalla mia penna dall’ascolto di Bologna Violenta. Come la mettiamo con questo aspetto della tua musica?
Eh… bella domanda… Penso che il tutto nasca dal fatto che sono cresciuto con la musica classica, soprattutto quella sinfonica e da camera (quindi molto poco cantata) e non sono mai stato molto legato ai testi delle canzoni. Mi sono sempre perso nell’ascolto dei suoni più che nel capire il significato dei testi. Quando devo fare musica mia non mi viene mai l’idea di metterci una voce o un testo per così dire “tradizionali”. Non amo cantare (e non riesco a ricordare i testi delle canzoni), ma mi piace mettere delle piccole parti parlate per dare un senso più compiuto a ciò che sto cercando di comunicare (vedi ad esempio “Morte” o “Maledetta del Demonio). Nell’ultimo disco ci sono poche parole, ma c’è la guida all’ascolto che è comunque una parte fondamentale dell’intero lavoro. Come dire, di testi ce ne sono, a volte sono poche parole, ma devo dire che spesso celano dei mondi molto più grandi di quello che può sembrare. Forse è semplicemente perché nella vita tendo ad essere logorroico, quindi nella mia musica cerco di essere sintetico.

Forse è troppo presto per parlare di bilanci, Uno Bianca è uscito da poco e tu sei a metà del Tour di promozione. In ogni caso, te la senti di dirci come sta andando? Si tratta di utopie o di piccole soddisfazioni?
Penso di poter tranquillamente parlare di grandi soddisfazioni. Il disco, pur nella sua complessità, piace molto alla gente e i concerti sono un momento molto forte, in cui il pubblico se ne sta in silenzio per quasi un’ora a guardare con attenzione e a subire la violenza che esce dall’impianto. Spesso a fine concerto scattano dei lunghi applausi a cui non sono davvero abituato e questo mi fa pensare di aver fatto un buon lavoro, che nonostante sia lontano da quello che la gente ascolta normalmente, riesce comunque ad arrivare al cuore di è presente al concerto.

C’è un’esibizione live che più ti ha emozionato finora o alla quale tieni particolarmente?
Questa è una domanda difficile… Ogni data è speciale per molti motivi e devo dire che questo tour mi sta portando anche in posti dove non avevo mai suonato, trovando un forte riscontro di pubblico anche nelle serate nei posti meno tradizionali. Le prime date, quelle all’interno del Woodworm Festival sono state molto impegnative da un punto di vista emotivo, almeno per me, visto che non sapevo assolutamente cosa avrebbe recepito il pubblico e se sarebbe piaciuto il nuovo spettacolo.

Rileggendo una tua intervista di un paio d’anni fa su Rockambula, ho sorriso di fronte alla tua risposta alla domanda “La tua paura più grande?” (Cito:  Ho paura che tutto possa cambiare da un momento all’altro e dover ripartire. Di nuovo (…) Vorrei un po’ di tranquillità). Sei riuscito a trovare la tranquillità che ti eri augurato qualche tempo fa?
Ricordo quell’intervista e ad oggi non mi sembra che le cose siano molto cambiate. C’è da dire che sto lavorando molto, quindi il periodo è assolutamente positivo, ma ho anche capito che quel tipo di tranquillità che ricercavo un paio di anni fa non è ancora così vicino come pensavo. Però molte cose sono cambiate nel frattempo, ho un’idea più chiara di chi sono e di cosa voglio e posso fare nella vita, quindi sono più tranquillo da questo punto di vista. Mi sono anche reso conto che le ripartenze fanno parte della mia vita (e penso anche di quella di molti), quindi ogni volta vado avanti senza pensare troppo al passato o a quello che è stato e cerco di dare il meglio ogni giorno.

Hai già nuovi programmi per il “post” Uno Bianca? Ci sono già dei progetti futuri in ballo?
Ho sempre molte idee che mi girano in testa, e sto anche pensando al “post” Uno Bianca, ovviamente. Attualmente sono impegnato su parecchi fronti, collaborando con vari artisti come arrangiatore, violinista o produttore, quindi tra il tour e questi vari lavori non ho molto tempo per pensare al futuro di Bologna Violenta, ma sto già cominciando a raccogliere materiale per quello che potrebbe essere il prossimo disco.

Grazie mille Nicola. Per concludere, c’è qualcosa che non ti ho chiesto, alla quale ti sarebbe piaciuto rispondere?
Grazie mille a te per lo spazio che mi hai concesso. Tengo solo a precisare che non uso synth e tastiere varie per ricreare il suono degli archi. Faccio delle lunghe session di registrazione in cui registro tutti gli strumenti. Giusto perché qualcuno parla di “tastiere” riferendosi agli archi…

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Il Video della Settimana: Massimiliano Larocca – “Invisibili”

Written by Senza categoria

Massimiliano Larocca, musicista e cantautore fiorentino, inizia la propria carriera musicale nel 1997 coniugando musica d’autore, Rock, letteratura e teatro. Nel 2001 pubblica il suo primo album, autoproducendolo, Massimiliano Larocca Canta Dino Campana nel quale le poesie del poeta di Marradi diventano canzone. Nel 2005 pubblica il suo primo vero album, Il Ritorno delle Passioni, composto da dodici brani originali ispirati dalla tradizione del Folk statunitense e dalla musica cantautorale italiana. Nel 2006 mette in scena l’opera teatrale/musicale Per un Dio Possibile – Giordano Bruno tra Eresia e Furore con la regia di Francesco Chiantese, per la quale scrive un ciclo di canzoni inedite ispirate alle vicende e alle teorie del filosofo di Nola. Nel 2008 pubblica il suo secondo disco La Breve Estate e vince il Premio Lunezia per il valore musicale e letterario dell’album.

Nel 2009 forma il supergruppo Barnetti Bros Band assieme a Massimo Bubola (storico collaboratore di Fabrizio De Andrè e autore di classici quali “Sand Creek”, “Don Raffaè” e “Il Cielo d’Irlanda”) Andrea Parodi e Jono Manson che registra in Nuovo Messico l’album Chupadero! pubblicato dalla Universal Music. Il disco guadagna la copertina della nota rivista musicale italiana Buscadero. Nel 2012 cura il progetto The Dreamers: laboratori musicali per ragazzi diversamente abili che Larocca svolge chiamando a collaborare con sé Paolo Benvegnù, Riccardo Tesi ed Erriquez, leader della Bandabardò. Ai laboratori fa seguito l’incisione di un cd con cinque brani inediti nati dalla collaborazione creativa tra i quattro artisti e il gruppo dei ragazzi che viene presentato dal vivo in due occasioni con il cast al completo.

La clip scelta questa settimana (regia di Michele Faliani e girato nel negozio Occasioni Musicali Firenze di Maurizio Pieri) e che potrete vedere di seguito e in homepage fino al prossimo sabato è “Invisibili”, brano che anticipa il suo nuovo disco di inediti in studio dal titolo Qualcuno Stanotte che uscirà in tutti i negozi e negli store digitali il prossimo 28 Aprile per Brutture Moderne con distribuzione nazionale Audioglobe.

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L’evoluzione storico/tecnica del Record Producer. Quarta Parte.

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Musica e Cinema: The Blues Brothers

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In attesa del nuovo album, esce “Storie” il nuovo video dei Near

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Esce il 4 aprile “Storie”, nuovo singolo dei NEAR, formazione abruzzese composta da Marco De Filippis (voce), Marco Gianvito (chitarra), Andrea Ferretti (chitarra), Lello De Lellis (basso), Pasquale Di Febbo (batteria), accompagnato dall’omonimo videoclip. Il progetto NEAR nasce da un’idea del loro frontman e dall’esigenza di esprimere in musica esperienze di vita in cui altri potessero riconoscersi. Tutti i brani prendono vita a partire da visioni oniriche nelle ore notturne, rielaborate poi alla luce del sole come se fossero trascrizioni sonore dei sogni. Proprio in questo modo nasce “Storie”, in cui è evidente l’evoluzione compositiva a livello di testi ed arrangiamenti ed il cui videoclip è stato interamente girato in Abruzzo da Paolo Ceritano, assistito alla regia da Francesca Capone. Durante le riprese la band è stata protagonista di diversi episodi simpatici quali le numerose cadute di Lello, l’incontro ravvicinato di Marco con dei cavalli per cui nutre tanta ammirazione quanto paura mentre i suddetti animali camminavano lungo la spiaggia o la curiosità dei vecchietti che passeggiavano per il centro della città pensando che Ada, l’attrice protagonista, si fosse sentita davvero male durante una scena. Per dimostrare la volontà dei NEAR di cercare un contatto diretto con il proprio pubblico, è stata lanciata l’iniziativa #provaaconoscerci, ovvero una serie di videoaneddoti in cui i musicisti mostrano in situazioni divertenti alcune peculiarità rappresentative dei rispettivi caratteri. Il gruppo racconta così la trama: “Due innamorati scrivono il libro della propria vita di coppia, lasciando tra le pagine ogni oggetto simbolico che ricordi i momenti importanti trascorsi insieme. Una mattina però tutto viene sconvolto: la ragazza, uscendo di casa, viene derubata della propria borsa e, nello scontro con il ladro, perderà il prezioso diario, ma non solo: il malintenzionato porterà involontariamente via anche l’ inalatore per l’asma, senza il quale la ragazza non riuscirà a superare una fortissima crisi dovuta allo shock ed allo sforzo fisico per rincorrere il ladro. Quest’ ultimo vive un’ esistenza fatta di leggerezza, vizi e droghe. Il manoscritto, nel frattempo, continua a “vivere” ed andare avanti: si nutre delle esperienze e delle emozioni di tutti coloro che, in un modo o nell’ altro, vengono a contatto con esso. Tra queste persone un ragazzo che, dopo una lite furiosa con la sua compagna, viene perdonato e ritrova la serenità; un padre di famiglia schiavo del pessimo rapporto con la sua ex moglie che gli impedisce di stare con sua figlia; un giovane che vive in modo passivo ed apatico ed alla fine di tutto troverà il libro che lo aiuterà a fare delle riflessioni sulla vita… ed infine il proprietario del libro, rimasto ormai solo, che ha perso per sempre la sua compagna e dovrà ricominciare tutto da capo. In tutte queste storie il libro è testimone di esperienze e sentimenti ed ogni personaggio vorrà lasciarvi dentro la propria “impronta”. Sono vicende intrecciate e, in fondo, sono avventure di gente comune, avvenimenti di tutti i giorni, che ci rendono tessitori di una tela intrecciata di relazioni che altro nome non ha che VITA”.

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L’evoluzione storico/tecnica del Record Producer. Terza Parte.

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