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Nada – Occupo Poco Spazio
Tra la frastornante e nota “Ma che Freddo fa”, targata 1973 e l’ultima traccia del suo ultimo album “Sulle Rive del Sangue” c’è davvero un abisso, una voragine profonda sì, ma mai così tanto da non poter essere colmata. È forse l’equilibrio su cui l’artista livornese continua a reggersi, una specie contrappeso tra tradizione melodica e vocazione alla ricerca musicale a rendere il suo percorso così interessante, anche dopo 40 anni di carriera . Occupo Poco Spazio esce per Santeria/Audioglobe nel marzo 2014, accompagnato dal primo singolo, “L’ultima Festa” . A rivestire l’involucro di Occupo Poco Spazio c’è la solita e un po’ dannata eleganza della cantautrice livornese, che non discorda affatto con l’instancabile audacia della sua indagine artistica, divisa tra letteratura, contaminazione musicale e cantautorato. Quello di Occupo Poco Spazio è un Pop lucido, sapiente, introspettivo che racconta storie marginali, piccoli baleni di provincia, parole che infilzano lo sguardo sulle vite che si sfiorano ogni giorno. Un disco molto femminile Occupo Poco Spazio, che si concentra sulla figura della donna, sulla sua immensa interiorità e sul suo ruolo sociale, martoriato ancora da luoghi comuni e conformismi. Aleggia su tutti i testi, il filo sempre sotteso della solitudine imperante e delle innumerevoli contraddizioni quotidiane, ogni giorno sotto ai nostri occhi. Il disco, arrangiato e prodotto da Enrico Gabrielli e registrato in presa diretta alle Officine Meccaniche di Milano, rivela immediatamente come in questo suo nuovo lavoro, Nada abbia ampliato ancora di più la sua ricerca di sonorità rinnovate (come in “La Mia Anima”, “Sonia” o “La Terrorista”) ma che, nel contempo, non abbia totalmente abbandonato la sua tendenza verso brani più melodici, dunque più vicini alla sue prime produzioni (“Questa Vita Cambierà”, “L’Ultima Festa”).
Giardini di Mirò – Rapsodia Satanica
Sonorizzare un film muto pare essere una sfida ben accettata dai gruppi italiani più “alternativi” (per non scomodare l’abusato aggettivo “Indie”). Molti si limitano al live diretto mentre la pellicola scorre sopra le loro teste, ma qualcuno osa di più. E si sa che i Giardini di Mirò nell’osare sono dei maestri, sempre musicalmente eccelsi e senza limite alcuno. Poi a guardare indietro nel tempo il gruppo emiliano vanta già la colonna sonora del film “Sangue – La Morte Non Esiste” (anno 2005) e proprio una sonorizzazione del film muto “Il Fuoco” (1915), poi diventato un vero e proprio disco nel 2009. Niente di nuovo insomma, o forse qualcosa si. Rapsodia Satanica prende ispirazione, ma anche il nome, dall’omonimo film del 1917 di Nino Oxilia e vede la partecipazione della diva di inizio ‘900 Lyda Borelli. La ricerca delle immagini con i suoni è un lavoro meticoloso e certosino, che sfocia però in un disco tutt’altro che calcolato al millisecondo. Molto diretto e compatto, che conserva la sua emotività e la sua drammaticità nonostante la peculiarità sonora. L’album, totalmente strumentale, è diviso in arie, la prima è molto semplicemente “Rapsodia Satanica I”: note di chitarra partono con una lentezza esasperante, quasi a richiamare senza fretta il demonio, poi invocato a gran voce da una danza Noise che fa tremare la spina dorsale. Nella parte numero “III” si passa inaspettatamente al Blues (e quale migliore musica per onorare il diavolo?), il brano è dominato da una chitarra che sbrodola pentatoniche e da una armonica a bocca. Sempre lenta, ripetitiva, inesorabile marcia verso gli inferi. I ritmi cambiano solo con “Rapsodia Satanica XIII” dove si crea un indeterminato stato di pace, calma apparente, la freschezza che richiama la giovinezza “comprata” al demonio dalla ormai attempata signora del film (non avete visto il film? potete farvi un’idea qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Rapsodia_satanica).
“XVII” è la svolta. In questa odissea di 7 minuti si sente la tempesta che sta per invadere la quiete, la tensione sale lungo le ossa. Il piano e i fiati sono distanti, come un’onda anomala che sta per sfracellarsi contro la nostra faccia, ma senza far rumore. La botta sorda arriva una batteria dritta e sicura che si tuffa in un suono melodico, cupo, basso pompato e chitarra che non abbandona i suoi arpeggi infernali. Le note poi ritornano subito distanti e l’ultimo episodio “XXI” è lontanissimo, un eterno cadere verso il basso, un fosso infinito che emana vibrazioni dalle pareti. Il tonfo poi si fa violento, rumore puro, Elettronica spinta e malsana che ci regala però l’ultimo rantolo: prima echi disperati da girone dantesco e poi le campane che decretano la fine del viaggio. Un ritorno alla rassegnazione della realtà o un nuovo e orribile mondo davanti ai nostri occhi? I Giardini di Mirò ci lasciano con il dubbio e, dato lo scenario, in fin dei conti cambia ben poco. La cosa fondamentale è che ci portano davanti agli occhi un paesaggio che va ben oltre la loro musica. Io che pensavo di annoiarmi, mi ritrovo con i peli delle braccia ben rizzati e con quel gelo che piglia dritto nello stomaco. Sono onesto, il film non l’ho guardato e non lo guarderò. Mi bastano queste immagini descritte magistralmente con le note per capire che questa è arte priva di confini e di etichette. E questa band è un gioiello, da lucidare piano, minuziosamente. Per scoprire tutti i suoi lati irregolari e incredibilmente pieni di luce e stracolmi di ombre.