Avete presente una band di nome Hollow Sunshine, mediocre formazione a metà tra Shoegaze e Funeral Doom Metal? Probabilmente no! Other Houses non è nient’altro che lo pseudonimo del vocalist di quella band, Morgan Enos ma non aspettatevi nulla in questo Bad Reputation di quell’esperienza passata. Proviamo a mettere da parte la copertina orrida che ritrae Enos photoshoppato male davanti al pianeta Saturno (almeno quello mi pare, non ho mai amato la geografia astronomica) photoshoppato male davanti ad un cielo carico di stelle e lasciamo anche perdere la scelta dei caratteri che neanche in un b-movie anni 80. Concentriamoci sulla musica del cantante multistrumentista (chitarre, batteria, synth, laser) aiutato solo al basso in “Yellow and Starship” da Reuben. Bad Reputation è fondamentalmente un album di un Songwriter Pop che prova a contaminare quest’attraente vitalità di facile ascolto con elementi propri di stili diversi e più settoriali, dal Lo Fi, al Post Punk, al Grunge, al Folk passando per una Psychedelia cosmica propria di qualche decennio fa. Tutto questo è fatto con molta cautela e l’aspetto melodico resta decisamente il nucleo palese dell’intera tracklist insieme agli arrangiamenti semplici ai limiti della banalità. La voce è fastidiosa, arrancante e i suoni scelti per arricchire lo scheletro strumentale dell’opera e l’apparato melodico sono ai limiti della decenza. Le stesse melodie, sulle quali si potrebbe provare a cercare l’ancora di salvezza, sono poco incisive, quasi bozze di qualcosa che non è mai nato, aborti artistici d’ispirazione malsana. Se l’idea era di omaggiare i grandi nomi del Pop Rock statunitense anni Sessanta/Settanta oppure quella di riprendere la strada delle band Power Pop Lo Fi degli Ottanta non possiamo che costatare un fallimento senza via di scampo.
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Motherfucker – Confetti
La vera dichiarazione d’intenti di questo nuovo album della band ateniese Motherfucker è racchiusa nell’immagine di copertina, in cui, disteso sopra un freddo parquet, giace un braccio inerme, ricoperto di sangue, coriandoli e brillantini superstiti di una festa e un tatuaggio che recita don’t quit, non smettere. Se il messaggio concettuale nascosto in questa visione può essere interpretato sotto diversi punti di vista e lasciamo a voi scegliere la strada dell’ironia e sarcasmo dello show must go on o quella di una rabbiosa lotta alla rassegnazione, da un punto di vista stilistico tutto è più chiaro. In Confetti, come nella sua cover, si miscelano colori e note che potremmo definire speranzose ma anche il suo contrario. Dunque, una certa violenza sonora è squarciata da una continua ricerca melodica, la voce meccanica e fredda danza con ritmiche che martellano cercando di non fracassare nulla. Il sound nel suo insieme è insipido, con una registrazione non sappiamo quanto volutamente grezza. Rinuncia a ogni sorta di sperimentazione, mette da parte il possibile lato Psych Rock facendo scivolare la sezione ritmica dietro la voce e punta dritto alla creazione di brani che possano suonare tanto crudi quanto digeribili. Con lo sguardo rivolto agli anni 90 del nord est statunitense, i Motherfucker provano a tracciare lo stesso solco di band come Cloud Nothings o Japandroids capaci di miscelare, con ottimi risultati, Noise e Pop ma qui, non solo è diverso il punto di partenza che è piuttosto da fissare nel Post Hardcore classico albiniano, ma anche il risultato è ben lontano da ciò che ci si sarebbe aspettati. Il grosso limite di Confetti non è nell’evidenza di queste intenzioni, ma piuttosto nel non essere riusciti a chiudere un cerchio che potenzialmente poteva avere un senso. Portare un genere tanto brusco e violento come quello degli Shellac a un pubblico magari meno propeso a certe ruvidezze, sarebbe stata una buona scelta ma quelli che dovevano essere i punti chiave, quindi ganci, melodie, vocalità, ritornelli e riff alla fine suonano come tentativi malriusciti di ottenere qualcosa di esclusivo. Quando Erika Rickson (drums), Erica Strout (guitar) e Mandy Branch (bass) pestano i piedi sull’acceleratore o creano strutture strumentali deformi il sound acquista corpo e credibilità ma è proprio nel momento in cui entrano in scena quelli che dovevano essere i momenti di svolta che lo scheletro crolla su se stesso. Prendiamo ad esempio la seconda parte di “I Want the F”. La reiterazione chitarristica stordita da una batteria morente alternata alle sfuriate più old style s’interrompono proprio quando ci aspetteremmo una scarica di violenza e a quel punto, se la scelta delle ragazze greche è quella di non forzare la mano sul lato brutale ma piuttosto di alleggerire il suono, non è certo sufficiente ridurre i tempi, abbassare i volumi e frenare. Quello che poteva essere un cazzotto in pieno volto sferrato dalla donna più bella che abbiate mai visto, si risolve in una tirata di capelli e qualche gridolino. Un album violento per gente non violenta.