Silvio Don Pizzica Tag Archive

Recensioni | luglio 2015

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A Place to Bury Strangers – Transfixiation (Shoegaze, Noise, 2015) Voto 7,5/10

Tra ossessioni, distorsioni e deliri, il quarto lavoro della band newyorchese si proclama punto fermo e di riferimento per lo Shoegaze/Noise contemporaneo. Album notevole.

Simon James Phillips – Blage 3 (Drone, Free Improvisation, 2015) Voto 7/10

Il genio minimalista australiano mette insieme un supergruppo per realizzare quest’opera in due parti per quasi due ore di droni e minimalismo. Un lavoro che ovviamente potrà essere apprezzato solo dagli amanti del genere, tra i più estremi per la difficoltà di ascolto, ma che saprà ripagare profumatamente chi avrà il coraggio di penetrarlo.

Telestar – Così Vicini Così Lontani (Alt Pop, Cantautorato, 2015) Voto 7/10

Se i Telestar vi conquistano al primo ascolto è perché sono squisitamente Pop, è vero, ma è anche perché sono stati abili nell’analizzare magistralmente il sound dei The National e nel rimodellarlo perché aderisse perfettamente alla lingua italiana. Una furbizia che gli perdoniamo, ma solo perché il risultato finale è notevole.

Chihei Hatakeyama – Moon Light Reflecting Over Mountains (Ambient Drone, 2015) Voto 6,5/10

Chi ha da sempre coltivato la passione musicale per il Sol Levante, sa benissimo quanto quella terra sia aperta alla sperimentazione. Hatakeyama è proprio uno dei maestri della sperimentazione Ambient; artista iper prolifico che tuttavia non raggiunge certo qui il suo culmine creativo.

Michele Maraglino – Canzoni Contro la Comodità (Cantautorato, 2015) Voto 6,5/10

Quando saremo abbastanza vecchi da aver bisogno di qualcosa che ci ricordi come sono stati i nostri trent’anni ci verrà in aiuto Michele Maraglino, cantautore tarantino trapiantato a Perugia, con le sue liriche ironiche e l’inquietudine Punk di arrangiamenti complessi ma mai eccessivi.

Olla – A Serious Talk (Noise Pop, Alt Rock, 2015) Voto 6,5/10

L’originalità non è forse il tratto peculiare delle composizioni dei piemontesi Olla, formazione Alt Rock che sceglie il cantato in inglese, ma senza dubbio il loro disco di esordio si lascia ascoltare con facilità tutto d’un fiato, conquistando con riverberi melliflui e un’attitudine Grunge e nostalgica.

Il Ballo delle Castagne – Soundtrack for Unreleased Herzog Movie (Prog, World Music, 2015) Voto 6,5/10

In questa colonna sonora immaginaria il sestetto Prog costruisce atmosfere cupe ed evocative, tra suggestioni cinematografiche ed echi mediorientali. Musicalmente intrigante ma con recitati non eccelsi, rimane comunque un viaggio interessante, inquietante ed esotico.

Gnac – Adesso (Cantautorato, Pop, Folk, 2015) Voto 6,5/10

Un declamare irritante penalizza un disco che sulla carta incuriosisce. Si salvano i suoni (freschi) e le melodie (accattivanti), oltre ad un barlume di saggezza aforistica che viene però oscurato dal peso asfissiante del luogo comune (“K2”).

Lef – New Vague (New Wave ) Voto 6,5/10

Non solo musica, ma anche cinema (Nouvelle Vague e cinema italiano degli anni ’50 e ’60), ispirazione per la stesura di testi e non solo. La band salernitana affonda le radici nella New Wave di stampo italiano (Diaframma), e lo fa bene, in maniera dichiarata ed inequivocabile, senza aggiungere troppi elementi di contaminazione.

Van Hunt – The Fun Rises, the Fun Sets (Neo Soul 2015) Voto 6/10

Il ritorno del Neo Soul dell’artista di Dayton è un inno alla voglia di libertà che tuttavia non convince fino in fondo. Poco coraggio, tanti rimandi e troppe canzoni che sulla distanza finiscono per annoiare.

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Niton – Tiresias

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Niton è l’incontro di tre anime e la rappresentazione in musica di quello che ne può scaturire. Zeno Gabaglio da un lato a dare vita al suo electric cell, quindi Luca “Xelius” Martegani a gonfiare e donare forza alla parte Elettronica e infine El Toxyque col suo tocco di improvvisazione e sperimentazione costruito grazie all’uso dei più svariati e anomali strumenti del mestiere. Il risultato è Tiresias, secondo album per la formazione italiana che segue l’omonimo prodotto sempre da Pulver Und Asche e idealmente riesce a sottolineare gli aspetti positivi che aveva dipinto, generando un continuo fluire di musica intuitiva che stavolta scorre senza perdere mai quella tensione nervosa necessaria a cogliere a pieno la bellezza della sua estemporaneità e naturalezza. Tiresias nasce in circa quindici mesi e prende decisamente piede partendo dall’Avantgarde dell’esordio. Tuttavia l’evoluzione stilistica, non sappiamo quanto naturale mutazione o frutto di precise valutazioni razionali, è evidente, sia sotto l’aspetto estetico grazie ad un suono più determinato, un uso più intelligente delle pause disciolte nelle note e una maggiore preponderanza della sezione ritmica a dare una potenza che mancava, sia sotto l’aspetto tecnico, da valutarsi specie in un uso ancor più ampio di strumenti non sempre al centro dell’attenzione del genere (vedi Theremin o Memorymoog). Nonostante sia totalmente assente la parte lirica, l’Electro Avantgarde dei Niton riesce bene a legarsi al mito evocato dal titolo dell’album. Tiresia è il celebre indovino cieco della mitologia greca diventato tale a causa di Era dopo che rivelò il segreto del piacere delle donne (nove volte superiore a quello dell’uomo) al sommo Zeus che lo ricompensò con la facoltà di prevedere il futuro e vivere sette volte più degli altri. La figura mitologica in questione nasconde tanto fascino che vi suggerisco di cogliere nelle opere di Omero, Ovidio e tanti altri e magari ritrovare nelle note di questo Tiresias, cercando di esplorarne gli aspetti più cinematografici, emozionali e meno nozionistici. La proibitiva lunghezza dell’opera che sfiora gli ottanta minuti non è certo il tipo di Elettronica sperimentale più agevole da ascoltare e rischia di ricondurre i Niton alle stesse imperfezioni del primo lavoro ma questa volta c’è da scommettere che la voglia di arrivare in fondo non sparirà facilmente con lo scorrere lento della loro musica.

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Dr. Quentin & Friends

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Dr. Quentin & Friends è un progetto aperto che ruota attorno alla figura carismatica di Quinto Fabio Pallottini. Lo abbiamo incontrato subito dopo il live Aspettando il Primo Maggio per parlare di presente e futuro della sua musica.

Partendo dal farti i complimenti per la recente vittoria alla finale abruzzese di Arezzo Wave e il mio in bocca al lupo per la prossima apertura a Marlene Kuntz e Lo Stato Sociale, ti chiedo subito, perchè hai vinto tu?

Quentin ha vinto per l’energia della sua esibizione e la capacità di colpire la gente e la giuria.

Di recente hai deciso di rinnovare completamente la formazione, i tuoi “friends”. Cosa ti ha portato a questa scelta?

Il motivo principale è che uno dei membri non si sentiva più parte del progetto. Un amico che ha suonato con me per anni ha scelto di non continuare ma il progetto non si fermerà mai. Solo lui ha scelta di prendere una strada diversa e gli auguro tutto il bene del mondo.

Vieni dal Punk, hai intrapreso strade Folk per poi puntare dritto sul Reggae. In realtà, la tua musica sembra essere qualcosa che va oltre le definizioni. Tu come la descriveresti? Come nasce la tua musica?

Semplicemente Paghetti Reggae; musica jamaicana suonata da italiani. Nello specifico Reggae contaminato da Rock, Punk e tanto altro. Un “metallaro” potrebbe chiamarlo Nu Reggae.

Molti credono che la forza della tua musica stia tutta nel tuo carisma. C’è qualcosa di più che finisce per colpire chi ti ascolta?

Non è la prima volta che me lo sento dire. In effetti, specie durante i live, il mio carattere è la prima cosa che ti rapisce e che aiuta a creare un certo legame col pubblico. Tuttavia riesco a colpire anche attraverso i brani, fatti di piccole storie di vita capaci di spingere all’immedesimazione al trasporto nonostante l’uso della lingua inglese.

Pensi che si possa emergere in Italia anche senza scendere a compromessi con i gusti, spesso discutibili, del pubblico?

(Ride ndr) Non ho minimamente idea di come si faccia ad emergere in Italia. Il successo vero sembrano raggiungerlo solo quelle merde dei reality che sfruttando quella merda di televisione. Io faccio solo quello che voglio fare, cercando di stare in pace con me stesso. La musica mi fa sentire vivo e l’ascoltatore italiano medio è semplicemente mediocre.

Qual è la più grande soddisfazione che hai avuto dalla tua, ancora breve, vita da musicista? E la più grande delusione?

Nelle poche occasioni in cui ho suonato con i grandi, la soddisfazione vera è stata sentirsi dire dal cantante dei Giuda che i miei sono grandi pezzi. La delusione… nessuna.

Hai da poco pubblicato un Ep. Cosa hai in programma per il futuro?

Il mio percorso è iniziato in maniera concreta due anni orsono. Devo andare avanti, pubblicando un album con inediti, cercando di esprimere tutte le mie idee e la mia musica.

Pensi che ci siano ancora veri talenti in Italia? Hai qualche nome da suggerirci?

Sinceramente non sono molto interessato alla musica italiana. Mi gasa quella strafica di Levante.

Le tue liriche sono prevalentemente in inglese. Un limite per il mercato italiano ma spesso una necessità espressiva. Credi che sia questa la scelta giusta? E perchè?

In realtà credo non sia poi cosi’ importante la lingua o il significato delle parole. La melodia conta davvero. Capisco che in Italia sia un limite non riuscire a farsi capire ma chi è davvero colpito da una melodia troverà il tempo di capire anche le parole. Quello che dobbiamo trasmettere sono soprattutto emozioni e a questo basta la musica.

Cosa vorresti trasmettere nello specifico? Credi di essere riuscito, fino ad oggi, nel tuo intento?

Voglio che gli altri provino esattamente le stesse emozioni che io provo nel momento in cui compongo una canzone.

Dammi il nome di un artista Indie italiano che credi abbia più successo di quello che si merita…

Lo Stato Sociale (ride ndr)

Nel tuo ultimo lavoro in studio sembra emergere la voglia di dare più risalto all’aspetto vocale (cosa che rende il sound più “Pop”) piuttosto che alla musica, mentre nei live le ritmiche gonfiano il tutto di una forza e un dinamismo maggiore. Hai la necessità di capire ancora la tua strada o è stata una precisa scelta fatta a tavolino?

Il sound è in continua evoluzione. Più suono e più riesco a farmi un’idea di quello che posso creare. Non avete ancora ascoltato nulla e quello che deve venire sarà qualcosa di unico, vedrete. Il sound che ho in testa non è esattamente quello che avete ascoltato.

Dove credi di poter arrivare, mettendo da parte i sogni e le illusioni e provando a ragionare con freddezza?

Sky is the limit

Quale credi che sia la cosa più importante nel fare musica? La capacità di essere innovativi, la tecnica, la coerenza, l’anima, la capacità di cogliere i desideri della gente o cos’altro?

Passion. La passione

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Jean Jacques Perrey et David Chazam – Ela

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L’inizio di questa folle collaborazione tra il musicista francese David Chazam e il maestro dell’Elettronica Jean Jacques Perrey si ha intorno al 1996 quando, alle iniziali pubblicazioni, seguirono le prime considerazioni che marchiavano le loro note come musica incredibilmente strana. Solo l’ascolto potrà spiegarvi il perché e questa nuova opera, Ela, non è da meno in tal senso. Il punto più alto della loro carriera comune arriverà nel 2002, con il leggendario Eclektronics che, per certi versi, sembra autodefinire alla perfezione il genere di musica realizzato dai due. L’opera mette i transalpini al centro dell’attenzione di tutta la scena mondiale e non tardi arriveranno gli apprezzamenti più importanti da parte di artisti di portata internazionale. A distanza di anni dalla loro creazione in studio, Jean Jacques Perrey et David Chazam mettono insieme materiale live, inediti e quant’altro, in questo Ela per chiudere il cerchio e avere la possibilità di riaprirne uno nuovo, sia per quanto riguarda le esibizioni dal vivo che in merito al lavoro in studio. Un’opera a dir poco necessaria per tutti coloro che nell’Elettronica cercano la vera follia freak, uno spirito da bambini che in età adulta tendiamo a soffocare, piuttosto che la rabbia o il divertimento delle piste da ballo o l’inquietudine di suoni sommessi. Altre parole non servirebbero  che a  farvi perdere altro tempo.

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La Scimmia

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Silvio “Don” Pizzica ha incontrato Lorenzo Faustini, la mente dietro al progetto capitolino La Scimmia. Alla scoperta di un modo di concepire il fare musica, autenticamente antico ma avanguardistico nel suo recupero della totale libertà espressiva.

Ciao Lorenzo. Tu sei voce e parole dietro al progetto Indie cantautorale La Scimmia. Nella realtà dei fatti la tua è una band, un progetto aperto o cos’altro?

È un continuo divenire. Cago canzoni come se fosse un bisogno fisiologico; chi mi sta vicino suona con me.

Perchè La Scimmia? Perchè questo nome? Cosa nasconde e cosa vorrebbe evocare?

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La Scimmia è una brace d’estate, carne con l’osso e vino rosso, chi più ne ha più ne dia; è un elogio alla terra e una bestemmia contro un Dio alieno spazzino.

Da quale esigenza nasce la tua voglia di fare musica? Cosa puoi aggiungere al panorama indipendente italiano?

Non voglio aggiungere nulla. Mi trovo a far musica ridotta all’osso, senza campionamenti e scopiazzatura. Sono quello che hai visto, mi sento di rischiare ma non mi va di mentire; mi piacerebbe che l’indi andasse verso l’essenziale senza cercare di scimmiottare la musica pop commerciale delle major. In questo mi sento di aggiungere qualcosa. Togliendo; forse.

Ho visto qualcosa difficile da inquadrare. Minimale come dici tu ma comunque pieno di sé. Come descriveresti la tua musica e un tuo spettacolo senza usare etichette?

Un buon connubio tra fumo e arrosto; ha il sapore delle canzoni suonicchiate dai nostri padri in vacanza in Grecia.

Bella definizione. Ascoltandoti mi è sembrato di notare una certa attenzione ai testi e ad un atteggiamento sarcastico e irriverente. Non credi però che in Italia si dia poca importanza alla musica, nella sua parte strumentale?

Si. Ascolto prettamente musica italiana quindi non saprei dirti. Chi ha curiosità vince sempre.

Torniamo al discorso su major e musica “commerciale”. Ormai le differenze stilistiche tra Indie Pop e musica leggera sono minime. Stanno cambiando i gusti del pubblico “alternativo” o il tutto è da ricercarsi in precise scelte di mercato volte a coprire diverse fette di fruitori con il minimo sforzo e con prodotti simili?

Maledizione spero di no. Ascolto musica che mi da emozione e quasi sicuramente rime semplici come cuore/amore non mi interessano; devo poter ascoltare Franco Califano come gli Antony Laszlo, ma la cosa fondamentale è che quello che hanno da dire non sia costruito per arrivare. La mia canzone nasce e muore in un ora, 4 sigarette, e mezzo vino. Nuda e cruda è l’esigenza di un momento, quasi uno spasmo non controllato dei muscoli; quindi non faccio distinzione tra commerciale e non commerciale se non è passione è solo merda.

Domanda difficile. O almeno ci provo. Perché qualcuno dovrebbe ascoltare La Scimmia?

La Scimmia è un esistenza romana in zona Divino Amore. È una storia raccontata al bar mentre si sfidano i vecchi a tresette. Si può ascoltare come no.

Torniamo alla musica italiana, tua vera passione. Qual è l’ultimo vero talento in musica spuntato nel nostro paese?

Gli Antony Laszlo etichettati Inri. Mi è piaciuto anche l’album Ecce Homo di Andrea Laszlo de Simone che fa parte del duo ma gli Antony Laszlo sono decisamente più fruibili. Iosonouncane è la scoperta dell’acqua calda ma con Die è in leggero calo. Il Capra (ex Gazebo Penguins); John de Leo con Grande Abarasse ha toccato vette cosmiche. Me ne piacciono tanti.

Parliamo della tua polemica con Borghese. Hai criticato con durezza un suo brano e a lui non sono piaciuti i tuoi toni. Pensi sia impossibile essere sinceri e senza ipocrisia tra “colleghi” o il problema sta solo nelle modalità della critica? Il limite tra “fascismo”, come l’ha chiamato lui, e libertà d’opinione è tutto nel rispetto e nella forma?

La libertà non è star sopra un albero, non è nemmeno il volo di un moscone che parla d’amore. La libertà è partecipazione. Non lo dico solo io; non conosco altri modi che l’estrema schiettezza e l’impulso. Non sarei La Scimmia

E allora ci provo. Dimmi un artista indipendente tuo connazionale che non riesci a tollerare?

La domanda è semplice. Non tollero nessuno al di fuori del Capra, Iosonouncane, Antony Laszlo, e John De Leo.

Torniamo a La Scimmia. Avete obiettivi precisi a breve e lungo termine? Cosa state preparando e dove credete di poter arrivare?

Non credo di realizzare mai un cd. Non ho bisogno di sentirmi raccolto. La Scimmia sarà sempre un continuo fruire. Un torrentello che si perde nel bosco. Magari andiamo a San Remo.

Ultima domanda secca. Più stupidi i Nobraino o il popolo degli hater a tutti i costi? o magari Roy Paci?

I Nobraino non erano malaccio e non so chi siano gli hater; intuisco odiatori. Roy Paci lo andai a sentire una dozzina di anni fa al Villaggio Globale a Testaccio. Non si esibi perchè non lo aggradava l’audio; così è stato. Non me ne vogliano i Nobraino e mi baci il culo Roy Paci

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Pre-Cog in the Bunker – Pre-Cog in the Bunker

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Come si può unire il mondo della letteratura fantascientifica al suono sporco del Garage Noise d’ispirazione pluridecennale? A questo prova a rispondere il duo Sci Fi Alt Rock abruzzese composto da Miriam Di Sabatino (batteria, voce e cori) e Antonello Recanatini (chitarra e voce) miscelando un rozzo e aggressivo Punk Noise a liriche chiaramente ispirate agli scrittori di genere come P.K. Dick o Asimov. Come nella migliore tradizione Garage anni 80 la materia prima dalla quale nasce il suono targato Pre-Cog in the Bunker è un Blues sporchissimo e minimale, elettrico e violento nonostante la formazione in duo consapevolmente senza linea di basso a fornire nuova potenza alla sezione ritmica. Partendo da questa inclinazione, i due prendono strade sorprendenti, puntando dritti alla creazione di melodie quasi cantautorali ma costruendovi intorno muri di suono distorto grazie ad un’attitudine Punk resa palese dalla scarsissima attenzione agli aspetti formali, sia di tutto quello che ruota attorno alla musica (artwork, immagini, ecc…) sia proprio sotto l’aspetto tecnico. Se Antonello Recanatini alla chitarra si mostra in tutta la sua capacità di trascinare e stupire, usando la chitarra come un rasoio stile Shellac (se lavorasse maggiormente sull’effettistica sarebbe qualcosa di straordinario), meno puntuale ma non per questo meno poderosa è Miriam Di Sabatino alla batteria mentre i veri grandi limiti che in un certo senso possono quasi considerarsi manifesto di un certo modo di (re)interpretare la materia Garage li troviamo alla voce (di entrambi) non troppo precisa nella pronuncia in inglese e neanche troppo convincente e appassionante in quanto a timbrica. Non è la qualità dello strumento quello su cui puntano i Pre-Cog e fondamentalmente non ce ne frega un cazzo perché quando arrivi alla fine e ti trovi ad ascoltare un brano come “To Berlin” la consapevolezza di aver imparato più da questi marci e polverosi ventisei minuti che non dall’ostentazione onanistica di qualche disadattato turnista di una tribute band ascoltato per caso alla sagra del paese è tanto grande da farti uscire di casa incazzato come una bestia, iniziando a ricordare quanto ti faceva stare bene e male al tempo stesso la rabbia che avevi da ragazzo, quando sognavi di morire giovane, sognavi di non morire mai dentro.

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Don Turbolento – ПОЛИ ЖОКС

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Un nome esotico per il terzo album del duo Dario Bartolotti e Giovanni Battagliola, stampato nell’artwork a caratteri ancor più evocativi insieme ad un logo apparentemente di difficile interpretazione ma che altro non è che la sagoma del monumento di Podgaric di Dusan Dzamonja (lo vedrete meglio nel videoclip del singolo) eretto a memoria di uno dei tanti massacri della seconda guerra mondiale, la rivoluzione della Moslavina. Considerato una delle opere più brutte al mondo, racchiude in sé un profondo valore spirituale e tale concetto parzialmente ricalca l’opera dei Don Turbolento.

Nati dalla passione per il Funk, il Rock e l’Electronic, la band, il cui nome si rifà ad un pezzo degli svizzeri Yello, sceglie una strada Electro per confezionare un concept album il cui nome, Poli Voks, si ispira ad un vecchio sintetizzatore russo, poderoso ed esteticamente bellico e che affronta il tema della guerra ma più in generale della naturale ed a volte involontaria inclinazione umana per il male.

Oltre a forgiarsi di pura attitudine Electro Industrial (“Nails in my Throat”, “Like Morphine”, “Toom Doom”), i dieci brani della tracklist divagano per strade Synth Pop (“The Hunchback”, “Step Off”) e Dance (“Back In(to) the Void”) tanto quanto New Wave (“No Light No Sound”, “Null”, “What It Takes”, “Decay”), puntando su immediatezza e semplicità e su basi potenti, talvolta cattive, trascinanti, poste sullo sfondo di una vocalità soffocata, non troppo invadente e leziosa ma neanche ricca di talento. Nonostante una ricerca del suono non proprio di valore oltre la norma, sta proprio nella ritmica e nelle basi, specie quando cariche e robuste, il vero punto di forza di Poli Voks. La parte vocale fatica a proporre melodie accattivanti e arranca nel tentativo di farsi scivolare di dosso i più comuni cliché della scena Pop sintetica. Nello stesso tempo, l’intero album non ha la perizia di incutere con solerzia il concetto che sta alla base dello stesso risultando invece piuttosto anacronistico. Orrendo il brano di chiusura, fino all’ultimo secondo e se un primo paragone che mi è venuto in mente, per descrivervi l’opera dei Don Turbolento, è invitarvi ad immaginare i Depeche Mode che suonino insieme ai Cabaret Voltaire non posso che sottolineare le titaniche distanze che intercorrono tra questi mostri sacri appena citati e la formazione bresciana, convincente solo a tratti ma su cui ho la voglia di sperare ancora.

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Showstar – Showstar

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Il quarto album omonimo (che ipotizzo possa essere presto rinominato Sorry no Image Available, causa copertina, come accaduto per il self titled dei Kyuss) traccia il vero punto di non ritorno per la band belga, ormai attiva dal 1996 e che mai è riuscita davvero a persuadere il pubblico, a partire dall’esordio We Are Ready del 2003. Un transito tanto importante per Chris Danthinne (voce e chitarra), David Diederen (chitarre), Antoni Severino (basso e voci) e Didier Dauvrin (batteria) quanto in linea con le produzioni precedenti e che continua a perseguire la strada disegnata dal Jangle Pop degli Smiths seppure con un’attitudine Indie moderna e fresca, in contrapposizione alle liriche talvolta crude, disincantate e non troppo raggianti (“lavora, lavora, lavora fino alla morte”). In tal senso, non si potrà certo confutare una discreta crescita compositiva nell’ultimo lavoro targato Showstar, una maturità che ha reso le dodici tracce vagamente encomiabili e credibili pur se gonfie di innumerevoli similitudini e rimandi.

Shoegaze il più pulito possibile, veloce e danzereccio (“Adults”, “Casual”) si miscela al già citato Jangle Pop di morriseyana memoria (“Nightbird”), di tanto in tanto squarciato da falsetti che vanno dai Beach Boys ai più vicini Everything Everything (“Casual”). Chitarre taglienti scuola Parts & Labor (“Mistakes on Fire”, “Rumbling”), ritmiche cadenzate (“Rumblings”) e un sound che, inevitabilmente, tanto deve ai mitici Stone Roses (“Mistakes on Fire”, “Rumblings”, “The Trouble Is”, “Full Time Hobby”, “(I Wish I Was) Awake”) al quale si aggiungono brani dalle melodie più dirette e insistenti (“The Liar”) e altri lampi più intimi (“Follow me Follow”) che sanno trasformarsi in vere bombe soniche (“Happy Endings”).

Non aggiunge molto al suono degli Showstar la voce di Angela Won-Yin Mak che si affianca a Chris Dantinne in “Smile. No”. Showstar è disco della maturità, lo era fin dalle premesse ed in parte lo conferma l’ascolto, eppure non può essere considerato un vertice dentro una discografia tanto piatta. A tratti banale, ripetitivo, ridondante, anche troppo gelatinoso nella sostanza, è l’ennesimo buco nell’acqua di una band alla quale non è il caso di chiedere di più.

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Lourdes Rebels – Snuff Safari

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La sola visione della fenomenale copertina vintage di Snuff Safari è capace di evocare suggestioni fuori dal tempo anche se ben collocabili in uno spazio circoscritto. Un po’ la stessa cosa che accade con le pellicole di Quentin Tarantino, specie nelle sue produzioni estreme come Grindhouse o Machete. Se osate anche voltare e sbirciare il retro non saprete più a quali convinzioni aggrapparvi di fronte al primo piano di un cavallo dall’occhio turbato. Superata la destabilizzazione emotiva innescata dalla contemplazione dell’artwork, opera di Luigi Bonora, l’unica via di scampo per la nostra serenità d’animo parrebbe essere l’ascolto ma riconosceremo presto che questa strada è solo un altro contorcersi nella follia.

Dietro il nome Lourdes Rebels si cela il duo parmigiano concepito dallo stesso Bonora e da Rodolfo Villani. Partendo dal progetto solista di Bonora per poi divenire coppia a nome Milkane e Fuck-hyrya, nel 2012 giungono all’attuale Lourdes Rebels, nome ispirato dai letterati francesi Huysmans e Zola (del primo si ricordi Le Folle di Lourdes e del secondo Viaggio a Lourdes) e dal film Lourdes di Jessica Hausner. La conseguenza di questa nuova fusione tra le due menti e del loro lavoro Electronic Freak è appunto Snuff Safari, opera musicalmente sarcastica in due tempi e sette brani la quale mette insieme schiamazzi animaleschi come i ruggiti suggeriti dalla cover, suoni retrò, ritmiche e melodie psichedeliche, voci confuse e lontane che solo raramente accennano veri canonici canti; e poi tastiere distorte, sampler, chitarre elettriche, drum machine e microfoni filtrati, tutto a costruire un sound soffuso e caotico che, pur dando l’idea di echeggiare da una realtà parallela, celebra in maniera decisa atmosfere orientali ed esotiche.

Una sorta di pastiche mistico e sensuale che, per certi versi, si lega all’ultima opera dei C’mon Tigre e che riconduce alla parte spirituale ricordata dalla citazione cattolica nel nome stesso della band. Tuttavia, l’aura trascendentale è essa stessa avvolta in un’ironia granitica e brutale, svelata del resto anche da quel termine, Rebels, che da un lato sbeffeggia simpaticamente gli amici Abraxas Rebels e le gang motociclistiche anni Settanta, dall’altro fa riferimento alle “condizioni di ribelle” in cui si trova un credente nei miracoli “all’interno della nostra società capitalistica e liberale”. Snuff Safari è opera complessa nella forma e nella sostanza, sperimentale e di difficile collocazione ma nello stesso tempo è in grado di concedersi con facilità a un ascolto più leggero, grazie alla capacità di generare situazioni soniche alternativamente distensive e veementi. Un biglietto da visita a prima vista indistinto in un vortice di colori e per questo affascinante per tutto il fertile mondo dell’Elettronica sperimentale italiana.

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Chelidon Frame – Framework

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L’esperienza Chelidon Frame nasce nell’autunno dello scorso anno ma muove i suoi passi e affonda le radici molto più in là negli anni, negli albori della Musica Concreta e negli studi di Pierre Schaffer che, nel 1948, teorizzò una nuova consapevolezza sonica basata su effetti acustici esistenti successivamente elaborati, generando musica tendenzialmente elettronica ma partorita da elementi concreti.

Riprendendo in mano quest’idea e passando attraverso Pierre Henry e John Cage, Chelidon Frame confeziona un’opera che miscela l’Ambient dei Prospettiva Nevskij, al minimalismo di Alessio Premoli, nome che si nasconde dietro al progetto. Tutto questo con occhio rivolto al futuro, grazie ad un uso comunque mai eccessivo di droni e divagazioni Noise. Nelle cinque tracce più “Intro” dell’esordio Framework, ci sono le fondamenta della musica Elettronica, la storia stessa del suo autore, le opere più eteree di Brian Eno, la spigolosità di Kevin Drumm e la sensibilità Modern Classical di matrice nordica di Jòhann Jòhannsson, cosa suggerita già dalla lettura celere dei titoli di taluni brani (“JikSven”, “Antartica”).

Dopo la gelida opening che sferza l’atmosfera come freddo polare, sale un’inquietudine oscura, fatta di grevi note ripetitive come tempo scandito da ritmiche minimal e sottilmente celate dietro rumori vaghi, quasi a disegnare l’aurora boreale, tinta solo di tutte le tonalità del grigio (“Taikonauta”). Ancor più conturbanti e impalpabili i quasi otto minuti di “JikSven”, nei quali si scorge una debole sensibilità Rock dentro un cosmo elettronico, in grado di dare forza da Film Score all’album. Nonostante queste prime intuizioni, non esiste un vero filo conduttore, una precisa chiave di lettura che leghi la tracklist, trattandosi di un insieme di brani originali e altri già pubblicati e qui soltanto remixati. È la musica stessa a fare da trait d’union, il legame simbiotico tra le terre più fredde del pianeta e lo spazio siderale è la musica (“Cosmic Hypnosis”). In “Nvs_k3” l’ aria torna pulsante di rigida introspezione mentre a chiudere l’album, i quasi dodici minuti della minimale “Antartica”, la quale, nella seconda parte e in conclusione, regala cenni di Neo Classical gonfi d’una speranza e positività mai ascoltata nei minuti antecedenti, pur mantenendo ferma una certa ambiguità emotiva. Framework è uno straordinario lavoro di un musicista poliedrico e coraggioso che non mira certo all’originalità ma riesce comunque a pizzicare le corde dell’anima e farci sognare, fosse anche un sogno da cui svegliarsi in tutta fretta.

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Hypercolor – Hypercolor

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Quando si parte da premesse di stampo Jazz Rock basato sull’improvvisazione è sempre forte il rischio di confondere il limite che separa “la qualità dello strumento” dall’”anima di chi suona”, per parafrasare il sempre vivo Giovanni Lindo Ferretti. Sono due facce ben distinte che raramente collimano e quando lo fanno scatenano dei terremoti che lasciano il segno nella storia del Rock. Quanto questo accade nell’opera omonima degli Hypercolor, trio newyorkese composto da Eyal Maoz (chitarra), James Ilgenfritz (basso) e Lukas Ligeti (batteria)? Per dare una risposta plausibile non vi basterà un singolo ascolto delle tredici tracce d’esordio e tantomeno potrete udire il tutto con limitata attenzione.

Perché, come avrete intuito, la materia prima che i musicisti della grande mela si apprestano a (de) costruire è tutt’altro che sostanza di facile fruizione e lo stesso varrà per il risultato finale. Jazz Rock sperimentale, cenni di No Wave, incursioni fugaci nelle tradizioni del continente nero e tra le martoriate terre d’Israele, chitarre tesissime e ritmiche nevrotiche capaci di capovolgere il sound nel giro di una nota. Qualcosa di straordinario, detto così, ed invece con l’incedere del tempo il sapore che resta in bocca ha il tanfo di corde troppo anacronisticamente Hard Rock per suonare sincere e la stessa coppia Ilgenfritz/Ligeti  non riuscirà mai a tirare fuori il coraggio per soggiogare quel manierismo ridondante e un po’ antipatico di Maoz.

Proprio questo ci riporta alla domanda iniziale e la risposta è poco simpatica anch’essa. Nessun sisma si leverà dal suolo al suono di Hypercolor, nonostante le buone premesse della cavalcata psicotica “Squeaks”. Già con “Chen” e la successiva particolarmente dimessa “Forget” il quadro si farà più chiaro e sarà tutt’altro che un capolavoro. Unico momento davvero degno di nota si avrà con la potenza Psych Noise di “Palace” ma sarà l’unica parentesi positiva, insieme alla schizoide “Transist”, di due facce entrambe senza alcuna espressione vitale.

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Aa. Vv. – The Reverb Conspiracy Vol. 3

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Nuova coproduzione per la label europea Fuzz Club Records e l’americana The Reverberation Appreciation Society, fondatrice dell’Austin Psych Fest, e nuova bomba sonica che raccoglie alcuni dei nomi più interessanti della scena psichedelica del vecchio continente. Si parte con lo Space Rock di “No Place to Go” dei londinesi The Oscillation per poi volare in Spagna con “Moon” degli Holy Science. Psichedelia mantrica dal sapore Post Punk stile Soft Moon che è anche il modo più efficace, apprezzabile e diretto per introdurci a questa compilation la quale ci regalerà non poche sorprese. Si cambia completamente sound con “You Now” dei norvegesi Deathcrush; voce femminile cazzutissima e pura potenza Psych Noise per uno dei momenti più rabbiosi e violenti dell’intera raccolta, in totale contrapposizione allo Shoegaze di chiara ispirazione My Bloody Valentine della successiva “Suddenlines”, brano eccelso opera dei berlinesi The History of Colour Tv.

Con “You Drive Me Insane”, torna una nostra vecchia conoscenza, l’islandese Henrik Baldvin Bjornsson, leader anche dei mitici Dead Skeletons e qui con la storica formazione Singapore Sling, del cui ultimo lavoro vi abbiamo ampiamente parlato e tessuto le lodi. “Meltdown Corp.” Dei nostri connazionali Newcandys segna il passaggio più Stoner di questo The Reverb Conspiracy Vol. 3 e si lega perfettamente al suono sabbioso di “Death Is on the Way” dei Sound Sweet Sound e alla successiva “Green Like an Alien” degli Undisco Kidd che figura il punto centrale della tracklist. Sezione ritmica martellante, voce marcissima e riff di chitarra taglienti come rasoi sporchi di ruggine.

La seconda parte si apre con “Ausland” che aggiunge altra carne al fuoco a un’opera la quale ha già messo sul piatto una miscela di Blues, Folk, Rock’n Roll e Krautrock da farvi uscire di testa. Si sente tanto dei Neu! nel brano dei Camera e la sensazione è che si sia davanti ad una sorta di vero e proprio omaggio al capolavoro “Hallogallo”. Prima dei nuovi nomi pesanti che scopriremo in chiusura, è la volta della Darkwave “Side Effects” dei Future la quale, sempre con attitudine Psych, incorpora quel quid sintetico che sembrava essere l’unica effettiva mancanza dell’album. Fatto il giro d’Europa, si vola ancora nel Regno Unito, precisamente a Liverpool, dai grandi Mugstar che, con “Hollow Ox”, faranno traballare le pareti della vostra stanza con un cocktail lisergico di Space Rock e Stoner interamente strumentale.

Distorsioni violente, voce cupa, sommersa, affogata in un Noise aggressivo in “Tungsten” dei sempre britannici One Unique Signal. Siamo in dirittura d’arrivo e manca qualche nominativo spesso. Nessun problema perché prima è la volta di Goat con la sua “Hide from the Sun”, mixata da Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre, che regala un sapore Apocalyptic Folk a quest’ultima parte e poi ai londinesi Lola Colt con “Away from the Water”, pezzo che fornisce anche il titolo all’album dello scorso anno prodotto da Jim Sclavunos di Nick Cave and the Bad Seeds, il quale ha trovato un discreto favore del pubblico anche in terra italiana. Post Punk psichedelico, vaghi accenni Hard Rock nella sezione ritmica, voce che ricorda i poetici lamenti d’una certa Patty Smith e chitarre evocative, distese ma inquietanti fino alla conclusione devastante con un minaccioso muro di suono, solo a tratti graffiato da una tastiera che ricorda il Blues dei Doors. Ottima la scelta di chiudere la tracklist con “As We’ve Been as One” di François Sky che qui vede il featuring di Jeff Levitz dei Brian Jonestown Massacre.

Il trip su e giù per l’Europa è concluso e le prime sensazioni sono quelle che ti fanno ben sperare e credere che di talento ce ne sia ancora tanto da scoprire. Qualche nome nuovo e vecchie leggende dello Psych Rock si sono alternati in un’opera che a essere sinceri ha poco senso, se si vuole analizzare oltre l’apprezzabilità dei singoli brani, specie per il fatto che siano già editi e quindi poco stimolanti per i più attenti seguaci della scena ma che, presa per quello che è, senza troppi entusiasmi, vi regalerà ore di puro godimento chimico.

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