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Streetambula 30/08/2014

Written by Live Report

Necessaria premessa. Streetambula per me e per tutti noi di Rockambula non è un evento come gli altri perché se non si può definire esattamente la festa della nostra webzine è palese già dal nome che proprio noi siamo parte importante di tutto l’apparato organizzativo avendo oltretutto realizzato le preselezioni che hanno coinvolto oltre trenta band da tutta Italia. Sarò di parte, dunque, ma lo sarò nella maniera più professionale possibile.

Streetambula, tra le tante altre cose, è un contest/festival che si svolge l’ultimo sabato di agosto ormai da due anni in una piccola cittadina piazzata al centro della Valle Peligna, territorio ameno nel cuore dell’Abruzzo. Il palco, come da tradizione, è montato in una delle piazze principali di Pratola Peligna (AQ) e non c’è nessun biglietto d’ingresso da pagare per vedere ben otto band emergenti più un artista di punta che quest’anno è stato Miro Sassolini (Diaframma, S.m.s.). Ovviamente, sono sul selciato che nelle ore seguenti sarà calcato dalla grande folla molte ore prima l’inizio ufficiale dell’evento. C’è fermento per un’edizione che si preannuncia spettacolare per la qualità delle band e per l’ospite d’onore e comincia ad avanzare il timore che la pioggia possa rovinare tutto. Alle diciassette e trenta il presentatore d’eccezione (Angelo Violante, meglio noto come Borghese) dovrebbe salire sul palco e iniziare a introdurre la serata ma ecco arrivare la paventata pioggia, non quella leggera prevista da qualche sito web il giorno prima, ma un temporale di quelli che non ne vedevo da mesi e la paura che si possa annullare una serata organizzata tra mille difficoltà da un anno intero comincia a diventare una convinzione.

Tuttavia, sarà per le preghiere di qualcuno, le imprecazioni di altri verso il cielo, sarà per l’ottimismo di Miro Sassolini, intorno alle 19:00 il cielo si apre, si scorge un arcobaleno, lo staff tecnico toglie i teloni, sistema il palco e decide che si potrà partire, con ritardo, con qualche taglio, ma si potrà fare il concerto, come previsto. Borghese sale sul palco e con lui Piero Vittoria, giornalista musicale freelance che presenta il suo libro Viaggio di un Freelance tra Parole e Musica che raccoglie le migliori e le più interessanti interviste fatte ad artisti del calibro di Mango, Gino Paoli, Caparezza, Boosta e tantissimi altri. Oltre a lui, altri ospiti saliranno sul palco, dal sindaco del paese, Antonio De Crescentis, che si mostrerà attentissimo alle dinamiche riguardanti la musica live sempre più protagonista nella vallata, fino al factotum dei Two Fates, Giuliano Torelli, dalla voce dei Sixty Drops, i quali regaleranno anche un poderoso dj set, al giornalista Andrea Di Nisio. Quindi si parte con il contest vero e proprio, mi siedo nella postazione dedicata ai giurati insieme a Sassolini e a tutti gli altri e si comincia con la band Laika Vendetta. Una vera e propria bomba; i ragazzi di Alba Adriatica non mi erano per niente nuovi, pur trattandosi di un progetto non più vecchio di tre anni, eppure c’è una differenza sostanziale tra l’ascoltare la loro musica in cuffia, apprezzandone stile, tecnica e tematiche e ritrovarsi invece investiti dalla potenza che si sprigiona dal cuore del loro Alt Rock, a partire dalla voce del carismatico leader Emidio De Bernardinis; oltretutto proprio lui arriverà secondo nella speciale classifica dedicata alle migliori voci della serata, ricevendo apprezzamenti senza fine da uno che della voce ha fatto il suo credo, proprio l’ex Diaframma, il quale riconoscerà a De Bernardinis la capacità di toccare dinamiche vocali non semplici senza mai scomporsi.

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Dopo i Laika Vendetta, è dura per gli altri salire sul palco ma, per buona sorte di tutti, tocca ai Malamadre, freschi vincitori del Pescara Rock Contest e tra i favoriti preminenti per gran parte degli addetti ai lavori. Quello che ci si aspetta è uno spettacolo indimenticabile, almeno a quanto detto da chi li ha visti di recente. Io, che non sono tra questi, muoio dalla curiosità di ascoltarli e vederli e magari colmare qualche dubbio sortomi nell’ascolto casalingo delle tracce. I Malamadre sono una di quelle band che le cose le fa per bene, si vede dal loro progetto che si mescola al fumetto e si vede da come sanno stare sul palco eppure stasera non è la loro serata migliore, come mi confermerà anche lo stesso Giuliano Torelli, uno dei primi sponsor della band abruzzese. Tuttavia, non tutto scivolerà via senza troppo clamore, perché la voce di Nicholas Di Valerio è di quelle che quando le ascolti poi non le dimentichi presto e, alla fine, sarà proprio lui a vincere il premio Musicalmente alla migliore performance vocale della serata.

Dall’Abruzzo, si vola a Bologna. Salgono sul palco i Minimal Joy, quelli che, almeno sulla carta, avrebbero tutte le carte in regole per essere i favoriti del nostro presidente di giuria. A livello compositivo, il quintetto che miscela Darkwave e Post Punk con Pop e Rock, mette sul palco i brani più interessanti della serata e, sarà lo stesso Miro Sassolini a dirmi che proprio loro, a suo avviso, sono i migliori ma non quelli che hanno suonato meglio. Cogliamo, infatti, qualche imperfezione di troppo e alcuni fattori sembrano spostare in basso l’asticella. I Minimal Joy fanno quello che solo band dal futuro roseo possono fare, spaccano sia il pubblico sia la giuria, qualcuno apprezza e tanto, qualcuno critica e tanto e alla fine saranno comunque la band col più alto voto del pubblico. Dopo tanto Rock, arriva on stage come una benedizione Lilia, da sola col suo portatile, la sua voce, tanti effetti, programming e una musica celestiale eppure capace di trascinare ritmicamente il pubblico, incantando e facendo innamorare i presenti. L’Elettronica che si sposa con la melodia del Pop è portata, da Lilia, a livelli eccelsi e, se qualcuno non apprezzerà le atmosfere forse troppo tenui e delicate per una piazza, gran parte degli astanti si perderà in una marea di complimenti, alcuni augurandosi di poter vedere l’eccezionale artista accompagnata da qualcuno che possa pensare solo a drum machine e programming lasciando a lei il solo compito di ammaliare con le corde vocali. Arriverà seconda, nella classifica finale ma a lei andrà il premio speciale Wallace Multimedia per la migliore presenza scenica e per una ragazza che sale da sola su un grande palco ed è costretta a stare piantata di fronte ad uno schermo è un riconoscimento alla sua capacità di riempirlo comunque quel palco, con tutto quello che la sua voce e la sua musica riescono a suscitare.

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Siamo a metà contest quando sale sul palco Gabriele Squartecchia, persona squisita e sorpresa assoluta della fase di preselezione poiché il progetto ha solo pochi mesi di vita, con la sua band, Novembre. Sarà il gruppo più controverso, quello di cui sentirò lodi e critiche più estreme. Piace tanto la parte strumentale, le melodie, i brani e piace la presa di posizione del palco, con lui, la sua giacca Ministri-style e la sua tastiera piazzati al centro come capitani d’una nave e gli altri a sudare ai lati e alle sue spalle. Sarà, invece, proprio la voce di Gabriele, il punto più spinoso della sua valutazione. Uno stile certamente non molto consueto, così tendente ad alte intonazioni, ma una timbrica impalpabile e qualche stonatura che, con una voce siffatta non possono passare in secondo piano.

Dopo Novembre, salgono sul palco, da Salerno, I Fiori di Cadillac. Ovviamente, anche loro mia vecchia conoscenza, eppure mai mi avevano completamente rapito e invece stasera mi fanno letteralmente sobbalzare dalla panca. Splendide le canzoni nonostante il loro non fosse che un non troppo originale Alt Rock dai chiari echi radioheadiani, eccelsi in fase esecutiva e tecnica e ottimo anche il modo di stare sul palco. Per me, da giurato, i vincitori sarebbero loro ma alla fine arriveranno terzi, battuti da musicisti (bravi allo stesso modo) solo per pochissimi voti.

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Siamo alle battute finali e quello che mancava alla serata è un po’ di sano Punk Rock, che nel caso dei Deathwood, è Horror Punk in stile Misfits. Per me sarà il momento di reggermi forte visto che, da quanto ricordo, quei tre mostri piazzati in linea davanti alla batteria, come un plotone di esecuzione senza pietà, mi scaricheranno addosso tante di quelle note come proiettili che sarà dura stare in piedi. E invece niente di tutto questo accade, il suono è buono ma debole, almeno rispetto alle aspettative e la voce di Pasquale Turco stasera è tutto fuorché in forma da competizione. Qualcuno non apprezzerà neanche lo stile dei quattro ma, lo sappiamo, il Punk è difficile da far digerire a tutti.

Siamo alla fine, tocca a Dott. Quentin & Friends, una delle formazioni più attese del lotto e padroni di casa; ma prima accade l’impensabile. Borghese e Sassolini sono sul palco, per una breve intervista, mentre si stanno ultimando i preparativi per quella che sarà l’ultima esibizione della serata, almeno per quanto riguarda il contest. Sassolini sta parlando, alcuni fan del Dott. Quentin lo invocano disturbando la voce degli S.m.s. ed ex Diaframma che si risente, attaccando con eccessiva voga i disturbatori. A questo punto interviene il corista di Dott. Quentin & Friends che spinge Miro Sassolini a velocizzare il suo intervento in quanto il pubblico stava aspettando la musica e non le sue parole e nasce un antipatico battibecco che qui nomino tale ma che in realtà è una rissa sfiorata. Non interviene l’organizzazione, ritenendo ancor più inopportuna una loro presa di posizione immediata, preferendo confidare nel buon senso. L’esibizione di Dott. Quentin & Friends è pregevole, come sempre, ma ormai l’attenzione è tutta rivolta ad altro. Dott. Quentin, vera vittima di quanto accaduto, deve subire l’astio di chi non ha apprezzato le parole dette sul palco da un membro della sua band e finisce per essere valutato in malo modo da quasi tutti i giudici. Il suo diventa un ultimo posto che mi sento di assegnare non tanto al dottore quanto all’episodio in se, momento di bassissimo livello che mai avrei voluto vedere. Finita l’esibizione delle band in gara, Miro Sassolini sale sul palco per qualche breve pezzo sperimentale, insieme al suo collega mago dei suoni Daniele Vergni. Performance intensa e irriverente, fortemente condizionata dallo stato d’animo particolarmente nervoso dei protagonisti, eppure di quelle che si lasciano ricordare. Poi si torna sul palco per la premiazione finale. Premio miglior voce al cantante dei Malamadre, come già detto; premio per la miglior presenza scenica a Lilia e quindi la classifica vera e propria del contest. Ultimo, ma personalmente tutt’altro che ultimo, Dott. Quentin & Friends. A seguire i Deathwood, palesemente condizionati dall’impossibilità di fare un soundcheck completo. Poi Novembre, forse la band che più ha creato divario tra pro e contro. Ai piedi del podio i Malamadre e i Minimal Joy mentre sul gradino più basso si piazzano i Fiori di Cadillac. Tra Lilia e i Laika Vendetta la spunteranno proprio questi ultimi e, tra i diversi commenti ascoltati sia dentro la giuria che tra la gente, è una di quelle vittorie sulle quali nessuno ha avuto da ridire. Alla fine una grande serata, nonostante la pioggia, nonostante qualche battibecco e incomprensione. Otto band eccelse, un presidente di giuria che ha dato lustro all’evento e, quasi dimenticavo, tante etichette, case editrici, associazioni, webzine e artisti. Comincia il conto alla rovescia per la terza edizione. Che succederà stavolta?

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Rocky Wood – Shimmer

Written by Recensioni

Un bagliore (shimmer) avvolge le mie orecchie pochi secondi dopo aver pigiato il tasto play dello stereo. “Blind Hawaii”, opening track di questo esordio degli svizzeri Rocky Wood, brilla come il ricordo malinconico e dolce di tempi ormai passati ma non per questo dimenticati, come vecchi amori trasformati in lacrime di speranza, come chimere che vedi nascere come boccioli in una primavera sempre nuova eppure ogni volta puntuale, ogni marzo, ogni anno, ogni volta che ti senti spacciato. La voce di Romina Kalsi irrompe sulle tenui note di chitarra in modo sensazionale, con un timbro da pelle d’oca, da magone al cuore come quando incontri la donna che ami segretamente, come quando meno te l’aspetti. Note tenui di chitarra e ritmiche essenziali l’accompagnano verso un orizzonte infinito, in un crescendo Dream Pop che è da annoverare tra le migliori cose ascoltate quest’anno. Convince sempre Romina, anche quando, grazie al banjo di Fabio Besomi, sceglie le strade più Folk (“The Dawn”, “Run Away”) per cantare le sue inquietudini, le proprie illusioni, la sua esistenza e quella degli altri ed anche quando invece cerca di colpire al petto con canzoni intime, più Pop (“Sandstorm”), grazie ad un uso sapientemente essenziale del piano suonato da Roberto Pianca, con tastiere, chitarre e Glockenspiel. Le ballate sentimentali non suonano mai melense e stucchevoli (“Distance Whitout”) e il quasi Funky di pezzi come “Plans” rivela una vena lisergica appena accennata ma dal sapore pungente e intenso (“Sulfur Seed”). Brani (“Dead Man”) che suonano a metà tra un certo Slowcore stile Sun Kil Moon e il Dream Pop femminile di certi Beach House, particolarmente tendenti al moderno Indie Pop e al Pop/Rock Soul (“Shooting Frames”). L’album si chiude con il brano più caotico, multiforme, ricco e carico di effetti e rumore, il più propriamente Alternative Rock anche se sempre in uno stile elegante e non certo disturbante.

Finisce cosi, lasciando il sapore forte ma delicato che solo certa musica strumentale e Folk può dare, specie se insaporita da una voce tanto affascinante, che lascia senza fiato, proprio perché sembra quasi senza respiro. Shimmer è un bagliore (più che un effetto per chitarra, come i più attenti tecnici potrebbero pensare) e come tale ti toglie la vista per un attimo, lasciandoti poi quella strana sensazione di qualcosa che esiste, senza essere veramente. Shimmer sarebbe stato un vero capolavoro se brani come “Blind Hawaii” o “The Dawn” avessero trovato più simili, in tracklist, di pari intensità. Non è un vero capolavoro, Shimmer, ma ci vorrà del tempo prima che la luce di queste canzoni sparisca dal nero dei miei occhi chiusi, appena prima di addormentarmi, aspettando primavera.

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From the East Coast Fest

Written by Live Report

Ho sempre sentito parlare dell’ Hardcore SUPERBOWL del 1996 svoltosi a Pescara (qualcosa di mitologico); in molti mi hanno proferito di un certo incredibile concerto degli Slapshot e dei Misconduct; in molti mi hanno detto che quando suonavano i When Mind Reflect nella città abruzzese i kids riempivano quelle poche sale che facevano suonare fino a farle esplodere. In molti mi hanno ribadito che gli anni 90 per l’Hc Punk sono stati gloriosi a Pescara. Peccato che io fossi solo un pischello allora. Non importa perché appena arrivato davanti al Tipografia, vedendo tutti quei ragazzi e ragazze che non vedevano l’ora di entrare, ho subito avuto una bellissima sensazione, sono tornato indietro di dieci anni, nel periodo in cui la “provincia spaccava il culo alle metropoli” con il Terni o il Perugia HC FEST e tanti altri. Sì, proprio la provincia “tranquilla” e poco incline al cambiamento ma che per fortuna è composta da ragazzi che hanno ancora voglia di tirare fuori gli attributi e stupirci!

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Welcome to the FROM THE EAST COAST FEST! Dunque, avete capito che questo è stato un concerto Hardcore Punk, quindi è quasi inutile parlare troppo di qualità dell’audio e vari intoppi che ci possono stare; io dico ‘sti cazzi. Riprenderò l’argomento verso la fine citando un commento scritto su FB qualche giorno fa. Iniziamo a fare sul serio: ci sono gli Xzone e gli Still Nervous che aprono la serata a suon di classico Punk Rock / Hc stile Casualties per sottolineare che ce ne sarà per tutti i gusti! Dopo di loro i Coffeeshower! Sono i nostri nonnetti d’Abruzzo ma dal vivo sono sempre tra le migliori live band del panorama italiano! Sarà perché il loro ultimo lavoro, The Glory Years, è un “best of”, tirano giù tutto con una scaletta adrenalinica composta anche dai loro mega classici! Chapeau, come sempre direi! Quindi salgono sul palco i MUD dalla provincia di Teramo. Sinceramente non li ho mai seguiti e non ho troppe info a riguardo ma a quanto pare suonano da un bel po’ anche loro e sul palco si sono fatti rispettare! Un bel set, con canzoni chiaramente influenzate dagli Hatebreed di Satisfaction Is the Death of Desire e dagli Integrity di To Die For! Molto potenti. Dopo questi ultimi due set, il pubblico è sempre più caldo e numeroso e pronto ad accogliere gli Straight Opposition padroni di casa! Ormai li conosciamo, non esistono performance fiacche di questi hardcorer pescaresi! Per quello che si sente dire in giro e per quello che ho potuto constatare con i miei occhi, dal più minuscolo squat, al club stracolmo, non ci sono differenze, salgono sul palco pronti a dare tutto e ad infuocare il pit. E lo hanno infuocato di nuovo (per fortuna non avevamo dubbi). Ecco che si apprestano a salire sul palco i loro cugini punkrocker, Radio Shakedown!!! Dopo due set hc ci stanno a pennello anche se l’intensità non cala mica, anzi. Si intravedono dei pointing finger, singalong a manetta, ragazzi e ragazze che stanno sotto al palco senza paura sudando e pogando al ritmo dei loro singoloni e delle ballate. Impeccabili!

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Si apprestano a salire i co-headliner della serata, gli Strengt Approach da Roma, porta bandiera dell’Hardcore italiano nel mondo dal 1996. Qualche istante prima ho parlato con Alessandro, il cantante ed esce fuori il discorso che suoneranno dopo qualche giorno dal concerto di Pescara allo Ieper Fest in Belgio nella stessa giornata dei Gorilla Biscuits. Non c è da preoccuparsi, Pescara o Ieper Fest, Pratola Peligna o New York, il risultato è lo stesso! Sparano un set tritatutto per i kid che ormai sono belli carichi e pronti ad accogliere gli headliner. Dopo diciotto anni passati sui palchi del mondo intero gli SA ci ricordano: HARDCORE-THIS IS MY LIFE-everyday HARDCORE-THIS IS MY WAY-its running through my veins n my heart nothing has changed. Trends move but we still remain. Esemplari!

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Ed ecco che si apprestano a salire sul palco gli H20! Che dire di loro. È la terza o la quarta volta che li vedo dal vivo! Gli anni passano anche per loro ma non lo fanno notare assolutamente. In questi anni ho notato una cosa, Toby Morse è un mostro nel creare dalla prima nota sintonia col pubblico; sarà una questione di sguardi o chi può dire cosa. Il bello è che per la prima volta a Pescara vedo ragazzi che fanno stagediving, che cantano a squarcia gola, che cercano il contatto vero. Il bello è che ho visto varie generazioni stare li a cantare a memoria Thicker than Water e Nothing to Prove come se non ci fosse un domani. Non è decisamente una serata per selfie, per baffetti hipster, per shopping bag fashion, etc… Qui c è solo gente pronta a dare tutto per i loro beniamini e così è stato. Ora voglio riprendere il discorso intrapreso qualche riga fa ma voglio essere breve e sintetico perché alla fine non è stato un dramma. La sfiga ha voluto che gli inconvenienti tecnici sia spuntati fuori durante il set dei Newyorkesi (salta la corrente più di una volta), lo show si blocca un attimo ma poi riprende, poi si blocca e poi riprende. Alla fine gli H20 faranno una scaletta ridotta (circa trenta minuti) e daranno il massimo per soddisfare chi era lì per loro. È successo, succede e succederà sempre un po’ ovunque. Il giorno dopo arrivano puntuali le solite polemiche da leone da tastiera, i soliti Pc Police (io li chiamo così) ma non voglio scrivere a riguardo. Voglio solo riportare quello che ha detto il cantante dei Strengt Approach su FB e chiudo: “Gli imprevisti purtroppo non hanno reso facile la cosa ma nessuno comincia conoscendo tutte le regole del gioco e c’e’ sempre modo per migliorarsi e rendere certi eventi degni di essere ripetuti!” Il To the East Coast Fest è proprio uno di questi!”

Io in primis spero in una winter edition! Mi sono divertito, credo che il 99,99% dei ragazzi presenti si siano divertiti quindi Big Up per le band che hanno suonato e per la Mutiny Crew! Alla prossima!

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Coffeeshower

Written by Interviste

Coffeeshower: ovvero un pezzo molto importante della scena Punk Rock italiana e probabilmente, dal 1999 ad oggi, la più importante e riconosciuta band del genere di tutto l’Abruzzo in ambito Punk e Hardcore insieme agli Straight Opposition e pochi altri. Una storia che mira a diventare leggenda ma anche piena di salite, a cominciare da una line-up sempre in mutamento e che ha ruotato soprattutto attorno ai due fratelli Fausto e Pierluigi. Chi erano i Coffeeshower nel 1999 e chi sono oggi? Come è cambiato il vostro stile col trascorrere del tempo?

FAU: ti ringrazio delle belle parole, forse troppo belle (ride ndr). Onestamente in Italia non siamo così importanti, c’è senz’altro qualche amante del Punk Rock che ci segue da sempre, ma restiamo, come diceva il nostro ex bassista Emanuele (Verrocchi ndr), un “gruppo per cultori”. (ride ndr) Certo in molti luoghi d’Abruzzo ci sentiamo molto amati e apprezzati e quando suoniamo lì è come essere a casa nostra e di questo siamo sempre molto felici. La band è nata semplicemente dalla passione che io e mio fratello Pier condividevamo con Edoardo (Puglielli ndr) per il Punk Rock, i concerti e tutta la cultura che vi ruotava attorno. Da anni personalmente cercavo una forma di espressione per quel “rock’n’roll estremo ma melodico” che avevo in mente e con loro la cosa funzionò da subito. Pescavamo a piene mani dal Punk e dall’Hardcore e ci divertivamo a scrivere brani che fossero anche un po’ differenti dai cliché dei generi di riferimento. Con gli anni certo siamo cresciuti, abbiamo sperimentato strade un po’ diverse rispetto al nostro modo di scrivere canzoni degli esordi. Soprattutto dopo la separazione con Edoardo inevitabilmente il nostro stile è cambiato, lui era quello più legato a una certa scrittura più squisitamente hardcore, mentre dopo nel nostro processo creativo ha pian piano prevalso il lato più vicino al Punk Rock e all’Alternative Rock in generale della nostra “educazione sentimentale”.

A coronamento del vostro splendido percorso artistico, lo scorso anno avete pubblicato The Glory Years, album raccolta con diversi inediti. Un punto di arrivo o l’inizio di una nuova vita?

FAU: era da tempo che avevamo questa idea, visto che spesso ci veniva chiesto se avevamo ancora copie del primo EP autoprodotto o addirittura del primo demo. Ci sembrava una bella cosa riproporre tutto il vecchio materiale, demo compreso, assieme a qualche inedito che non avevamo mai avuto la faccia tosta (ride ndr) di pubblicare prima, insieme a un paio di brani nuovi di zecca che abbiamo registrato all’ACME Recording Studio di Raiano. Indelirium ha sposato da subito il progetto e così abbiamo anche noi adesso il nostro “best of…the worst” (ride ndr).

A tal proposito, girano voci di un imminente nuovo album di brani originali. Potete darci qualche anticipazione, se le voci sono da confermarsi?

FAU: senz’altro. Abbiamo praticamente finito le registrazioni dell’album nuovo. Crediamo che presto vedrà la luce, probabilmente in autunno. Ci saranno canzoni che in parte stiamo già eseguendo qua e là nei concerti e che qualcuno inizia già a conoscere, assieme ad altre davvero nuove.

FAB: abbiamo cercato di comporre l’album in modo da fotografare al meglio il nostro suono attuale, come ti diceva Fausto prima forse meno legato a sonorità tipicamente Punk Hardcore in senso stretto, ma sempre in pieno stile Coffeeshower. Spero ti piacerà quando lo ascolterai.

In quindici anni fatti di album e tour in giro per il mondo con Anti-Flag, Underoath, Taking Back Sunday, Hot Water Music, Smoke Or Fire, Chuck Ragan, Astpai, Antillectual, Atlas Losing Grip, This Is A Standoff avrete messo in cantina un’infinità di esperienze. Quale la più bella e la più importante per la vostra musica? Quale l’episodio da dimenticare?

FAB: le esperienze fatte in giro a suonare, anche quelle che apparentemente sembrano disastrose, lasciano sempre qualcosa di positivo, come un insegnamento a crescere, dal punto di vista musicale e anche personale. Non ci lamentiamo insomma (ride ndr).

FAU: personalmente ho molto rivisto la mia opinione sulle “aperture” di concerti di band importanti e sulla loro presunta utilità. Certamente dividere il palco con band grosse è sempre una cosa stimolante, hai l’occasione di incontrare personalmente musicisti che adori e anche di suonare davanti a un pubblico che altrimenti non ti avrebbe ascoltato, ma è vero anche che se a quella situazione non segue una buona promozione del nome della band, della sua musica, etc., cosa che per una band DIY è sempre un problema, alla fin fine resta solo un ricordo piacevole e non molto altro. Sicuramente comunque l’amicizia con Chuck Ragan e con gli Hot Water Music nata a seguito dei concerti fatti assieme, prima con Chuck ad inizio 2009 e poi nel 2012 con gli HWM, sono fra le cose più belle che abbiamo vissuto come uomini ancor prima che come musicisti.

Proprio pochi mesi fa siete tornati da un tour in centro Europa. Che differenze notate tra pubblico e organizzatori italiani ed esteri?

FAU: fin dal nostro primo tour abbiamo sempre lavorato in modalità DIY, facendo ovviamente una fatica bestiale  a partire dalla lunga fase preparatoria fatta di contatti prevalentemente via mail con i promoter, i centri sociali, i club, le band, etc. fino al vero e proprio viaggio per andare a suonare, con tutti i disastri finanziari che ne conseguono. Nonostante tutto però non abbiamo mai voluto far mancare alla nostra band quell’occasione di confronto con il mondo esterno. Ogni anno insomma almeno un piccolo tour all’estero deve esserci per noi, pur con tutte le difficoltà del caso. Generalmente comunque, per rispondere alla tua domanda, non abbiamo riscontrato particolari differenze tra il pubblico italiano e quello all’estero, forse fuori confine statisticamente negli anni abbiamo registrato un po’ più di attenzione e di curiosità da parte della gente che ti viene ad ascoltare, anche se per loro sei l’ennesima band sconosciuta in tour, ma ci sono sempre state serate bellissime e serate mortifere sia in Italia che all’estero. Certo quando sei all’estero in giro su un van scomodissimo e vieni da quattro serate nelle quali hai solo perso un sacco di soldi, sei stanco e malaticcio e vorresti soltanto dormire in un letto decente e succede che proprio quella sera si crea quella alchimia particolare con il pubblico di quello squat o di quel piccolissimo club di un posto lontanissimo da casa tua che non avevi mai sentito prima, beh quella è una ricarica di batterie straordinaria, è la cosa che ti fa andare avanti e che ti fa pensare di aver davvero fatto bene il tuo lavoro.

Per la prossima esibizione dal vivo ci diamo appuntamento al From the East Coast Fest di Pescara il prossimo 5 agosto. Un festival Hardcore che punta su una line-up eccelsa e che vedrà i newyorkesi H2O come band di punta. Chi ci sarà con voi e cosa dobbiamo aspettarci da un festival di questo tipo?

FAU: per noi è un onore essere stati invitati a questo festival, oltre agli H2O ci saranno gruppi leggendari dell’hardcore italiano come Strenght Approach e Straight Opposition e poi gli organizzatori hanno fatto secondo me una cosa davvero bella, quella cioè di comporre il cartellone delle band senza pensare soltanto all’Hardcore ma inserendo anche una nutrita rappresentanza Punk Rock, quasi a tirar su una vera e propria “unity fest punk-hc”: bello vero?

Avendo vissuto voi da protagonisti la nascita e lo sviluppo del Punk e dell’Hardcore, che differenze pensate ci siano tra quelli delle origini e quelli odierni? Quanto è venuto meno l’aspetto sostanziale (fatto di tematiche sociali e violenza espressiva) a favore di fattori formali (legati ad estetica e stile puro)?

FAU: quando abbiamo cominciato a suonare insieme, nel Punk e nell’Hardcore era già stato tutto scritto. Fin dalla metà degli anni 70 il Punk era già nato, morto e risorto tante volte, così come le varie ondate Hardcore statunitensi si erano già susseguite fin dagli anni 80. Ma era anche un momento in cui l’estetica Punk, la cultura dello skate, della strada, dei concerti e tutta una serie di altri elementi erano tornati in auge tra i ragazzi. Erano gli anni del “nuovo Punk Hardcore melodico”. Ricordo come quell’ondata di gruppi e uscite discografiche fosse vista dai vari recensori e intellettualoidi che si divertono a fare i sociologi quando parlano di musica come un qualcosa di vuoto, di spento, come una copia di cose già dette prima, una merda in pratica. Già allora insomma si diceva che quel movimento fosse tutta estetica e poca sostanza. Oggi però leggi ovunque che i Green Day di allora erano un gruppone e che i Nofx e i Lagwagon sono le band migliori della storia e che le band di oggi fanno schifo al confronto. Noi eravamo dei semplici appassionati, ci trovavamo con mio fratello e con Edoardo ad ascoltare insieme quella musica per tanti lunghi pomeriggi e a condividere molte cose di quella specie di “rinascimento Punk”. Partivamo e facevamo centinaia di chilometri per andare a questo o quel concerto al nord, era bello incontrare continuamente sui treni o nelle aree di servizio delle autostrade tanta gente con le Vans ai piedi e la tua stessa t-shirt che andava allo stesso evento. Si respirava un’aria di novità e di ribellione quando andavi a un festival o a un concerto in un centro sociale. Poi arrivò Genova e quello fu un brusco risveglio per molti di noi, ma parlare di questo ora sarebbe lungo e complicato. Per noi comunque fu una conseguenza naturale quella di cominciare a scrivere canzoni insieme e fare le prime prove, in tre, senza basso, in una stalla di un paese a 20 chilometri da L’Aquila dove un nostro amico aveva approntato un impianto elettrico davvero precario che a ripensarci mi vengono i brividi (ride ndr). E’ nato tutto molto spontaneamente, senza avere insomma la pretesa di poter recitare un ruolo in “scene” o situazioni che nel frattempo avevano già scritto pagine importanti. Avevamo solo voglia di divertirci a suonare e di urlare al mondo quello che avevamo dentro.

Esiste ancora una scena Hardcore tricolore? Quali sono le aree geografiche che ritenete più in fermento in Italia? Cosa distingue le band nostrane dal resto del mondo?

FAU: forse non siamo le persone più adatte per darti questo tipo di lettura, siamo sempre stati un po’ fuori dai giri, dalle scene vere e proprie, probabilmente il fatto di venire da una piccola città d’Abruzzo non ci ha aiutato a essere pienamente parte di un fenomeno che altrove stava andando avanti. Parlo di città come Roma o Milano o di altre realtà europee dove le cose erano e sono tuttora più facili di un posto come L’Aquila, anche se poi quando parli con altre band di Roma o Milano anche loro ti elencano tutte le cose che non vanno della loro città, del loro giro dei gruppi, delle sette e delle varie faide, etc. etc., ma questo è un altro discorso. Pur non vivendo insomma al centro di “scene” o situazioni più vivaci abbiamo però sempre avuto la fortuna di girare l’Italia e l’Europa per andare a suonare, abbiamo visto tanti posti e conosciuto tante persone stupende, così come tanti stronzoni. Certo non avrò mai, penso, l’opportunità di suonare tipo al The Fest a Gainesville in Florida o al Groezrock, quindi non so risponderti su come sia vivere oggi, da band, quel tipo di situazioni che viste da fuori sembrano il paese dei balocchi per chi come noi ama ancora il Punk e l’Hardcore. Posso dirti però che la sensazione che almeno nel nostro piccolo si avverte andando a suonare in giro adesso, rispetto ai nostri primi tour, è quella di un po’ di disinteresse verso questa musica e questa cultura, di grande difficoltà per gli organizzatori di concerti nel coinvolgere le persone, di grande freddezza generale purtroppo.

FAB: anche se come dice Fausto andando a suonare in giro ora si percepisce un po’ di disinteresse e di stanchezza, ci sono ancora tante persone che si sbattono per creare delle realtà nella loro città organizzando concerti e movimentando la quotidianità dei posti dove vivono. Credo che questo sia lo spirito positivo, immortale, di questo genere musicale. Quello che permette alle varie realtà di rimanere vive in questo momento di “torpore culturale”.

Quale è il ruolo sociale del Punk o dell’Hardcore oggi e quale il loro ruolo all’interno della musica Underground (o comunque non mainstream)? Credete che ci possano essere, negli anni a venire, prospettive di crescita e sviluppo del genere o lo stesso è destinato a ripetersi negli anni con lo sguardo sempre rivolto al passato?

FAU: Il Punk e l’Hardcore, pur con tutte le differenze e anche i conflitti che storicamente ci sono stati tra queste due grandi tendenze della cultura underground, sono entrambi nati dalla strada e sono linguaggi che dovrebbero parlare dritto al cuore della gente, ma è difficile farlo se questa gente non vuole ascoltarti più. Siamo onesti, un ragazzo che va a scuola oggi generalmente trova molto più interessante e stimolante un concerto Hip Hop o un dj set di un dj famoso piuttosto che un festival Punk, a volte sembra non importare più a nessuno del Punk e dell’Hardcore, almeno dalle nostre parti. E’ triste, ma bisogna fare i conti con questa realtà. Altrettanto vero è però che finché esisteranno questa attitudine, questa cultura e questi filoni musicali ad essa legati, quantomeno esisterà una “strada alternativa”, che forse un giorno i ragazzi torneranno a percorrere. Come dice Frank Turner:  “punk is for the kids that don’t fit in with the rest”. Probabilmente questo passaggio culturale un po’ buio per la cultura Punk è più evidente nella nostra Europa decadente, mentre nella tanto vituperata America le cose non stanno proprio così. Mi sorprendo ogni giorno a scoprire tantissimi nuovi gruppi che si fanno strada negli States e che pur suonando ancora con la vecchia formula chitarra, basso, batteria e 4 accordi scrivono canzoni magistrali e aggiungono sempre qualcosa di nuovo a un giocattolo che ai più sembra ormai obsoleto. Penso a band come Balance And Composure, Hostage Calm, Make Do And Mend, Pianos Become The Teeth, Captain We’re Sinking, Red City Radio, Iron Chic, Banner Pilot, solo per citarne alcuni a caso. E comunque, quello che voglio dire è che fin quando succederà che quattro ragazzi vorranno rinchiudersi in un garage per condensare tutta la rabbia possibile in una manciata di canzoni e condividerla con il mondo là fuori allora tutto questo avrà ancora motivo di esistere.

La nostra intervista si chiude qui. Vi facciamo un in bocca al lupo per la vostra esibizione in compagnia dei mitici H2O. Un’ultima cosa. Quale messaggio pensate che debba lasciare la vostra musica nella testa di chi vi ascolta?

FAU: crepi il lupo grazie! Quanto al messaggio, noi raccontiamo storie di vita, non siamo poeti o filosofi o predicatori, scriviamo solo canzoni e le condiamo col nostro suono, ci piace suonare con gli ampli a palla e con la batteria che non si ferma mai e se tutto questo fa anche divertire chi ci sta ascoltando allora è una cosa bellissima.

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Aemaet

Written by Interviste

Aemaet. Quattro ragazzi che hanno deciso di dire la loro nel fitto mondo del Rock Alternativo. Cosa avete da dire che non sia stato già detto?
CC: Si parla già molto, forse troppo. Quel che dobbiamo dire lo diciamo con la nostra musica.

La vostra è una formazione evidentemente giovane. Il primo Ep, Muse of Lust, risale a soli tre anni orsono mentre poco più di un anno è passato dall’esordio full length Human Quasar. Cosa è cambiato nel vostro stile e nel vostro approccio alla musica?
CS: Molte cose, a partire dalla formazione. Ora c’è la sola chitarra di Giovanni, e il sound si è aperto alla tastiera:è più complesso e stratificato.
GI: La nostra musica è in continua evoluzione, nei contenuti e nella forma.Il vero cambiamento sta nell’approccio alla scrittura. Io parto da un sentimento, un’emozione, per poi lasciare libero sfogo alle sensazioni che le frequenze smuovono dentro.

Da dove vengono gli Aemaet e dove vorrebbero arrivare se potessero sognare senza freni? Tornando con i piedi per terra, dove potrete realmente giungere, considerando il periodo non certo florido per la musica emergente e indipendente?
GI: veniamo da diverse esperienze musicali ed ognuno di noi ha i suoi gusti. Noi cerchiamo una “potenza musicale”, e mi piacerebbe che l’ascoltatore provasse le stesse sensazioni che avvertiamo durante la composizione. Tornando con i piedi per terra, lo scopriremo solo vivendo dove potremo arrivare: noi ci mettiamo l’anima in quello che facciamo.

La vostra musica miscela con eleganza Alt Rock, Grunge e Wave e pare quasi naturale che abbiate scelto di usare l’inglese per le vostre liriche. In tal senso, quanta importanza date ai testi e quanta alla musicalità dei termini?
CC: Entrambi gli aspetti sono importanti. Quel che conta è però la musica: i suoni offrono quindi un vincolo. Le parole, dal canto loro, sono molte, e troveremo loro sempre uno spazio di senso nella forma sonora.
CS: Concordo. Poi molto dipende dall’atmosfera del pezzo. La scelta della lingua inglese è ovvia, hai ragione: l’italiano c’entra poco con il nostro genere, a mio parere. La musicalità nel testo è di per sé imprescindibile, lo diceva Poe, ma anche i Bluvertigo: “il suono ha vinto sul significato”.

Siete consapevoli che cantando in inglese si riducono le possibilità di essere apprezzati dal pigro pubblico italiano? Siete sicuri che all’estero potrebbero apprezzare le vostre parole?
SDR: Sicuramente cantare in inglese rende più difficile l’essere apprezzati dal pubblico italiano, anche a causa della diffusa abitudine di andare alla ricerca dei testi; allo stesso tempo però permette di raggiungere un pubblico più vasto, che poi è quello che ci auguriamo.

So che recentemente avete suonato al Contest del Rock in Roma. Raccontateci di che si tratta e come è andata.
CC: è andata come solo agli Aemaet può andare. Problemi tecnici al limite dell’inverosimile, non dipendenti da noi, che hanno in parte compromesso la performance. Ma nel breve tempo a nostra disposizione siamo riusciti a smuovere qualcosa. Vedi, a noi interessa poco il contest. Ci interessava solo suonare davanti ad un pubblico numeroso che crediamo affine al nostro. E la nostra intuizione è stata giusta: abbiamo ricevuto molti feedback positivi.

Avete mai realmente idolatrato qualcuno? Ha senso ancora fidarsi dei musicisti piuttosto che delle canzoni?
CS: L’idolatria è un refuso adolescenziale, quando si scoprivano icone come Morrison, Curtis o Smith. Col tempo l’idolatria cede il posto all’ammirazione. I musicisti, come tutti, possono deludere, con atteggiamenti o svolte musicali che non apprezziamo: per questo li sentiamo “inaffidabili”. Eppure un’ottima canzone resta sempre tale, anche col passare del tempo: se non ti puoi fidare dell’artista, puoi sempre fidarti della sua arte.
SDR: Personalmente sì, ho avuto degli idoli che in parte resistono ancora oggi. Si tratta per lo più di personaggi molto noti nell’ambito musicale. Resta comunque difficile rimanere legati ai propri “idoli”, soprattutto perché con il tempo cambiano i propri gusti e le produzioni musicali.

Ascoltando le canzoni contenute in Human Quasar si può notare una certa altalena di emozioni. Sareste più felici di smuovere le coscienze o commuovere profondamente?
CS: Ognuno di noi ha una sua personale visione della realtà. Ciò significa che quel che commuove una persona può lasciare indifferente un’altra, e viceversa. Io voglio suscitare un’emozione, indurre chi ascolta ad un’opinione; meglio se diverse tra loro. Questa è forse la prova che si è riusciti a creare un’opera valida.
GI: Io preferisco muovere le coscienze nel profondo.

Parlateci di Human Quasar. Come descrivereste il vostro esordio senza usare parole da critici e definizioni da ufficio stampa?
CC: La parola esordio spiega già molto: Human Quasar è una commistione di inesperienza e sprovvedutezza, non necessariamente qualità negative. Ma non è tutto. È un disco intriso di giochi letterari e rimandi interni, con una solida impalcatura di senso e un uso molto raffinato della retorica. Per me è un figliolo che muove i primi passi nel mondo, rendendomi orgoglioso.
CS: Un sentiero di luce e oscurità, calore e freddezza. Sì, Il nostro bipolare primogenito.

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L’album è uscito per la label Red Cat Records. Ha veramente importanza oggi avere una etichetta alle spalle? Per una band emergente non è più utile avere Booking & Management?
CC: Sono entrambe componenti essenziali, sebbene oggi l’uso di internet crei l’illusione che tutto ciò sia surrogabile. Se una band merita la giusta attenzione non faticherà a trovare degli ottimi collaboratori. Esistono dei professionisti, e il loro lavoro va capito e rispettato. È quando lavori con loro che comprendi quanto tutto ciò sia di capitale importanza.

Oggi come quarant’anni fa è molto difficile emergere. Forse è solo più facile trovare spazio ma tenerselo è un’impresa. Come avete intenzione di muovervi per districarvi nell’ impervio mondo dell’underground e magari non affondare?
CC: Sono alieno da questi pensieri. Noi lavoriamo e cerchiamo di offrire al pubblico uno spettacolo degno della loro attenzione. Non credo ci siano altre strade: lavoro, lavoro, lavoro.
CS: Servono ambizione e determinazione. Senza di esse si può avere tutto il talento di questo mondo, ma a nessuno importerebbe, soprattutto in questa società virtuale. Io auspico un rituale di corteggiamento che faccia la differenza. Come nel regno animale. Garantirebbe una “prole” di seguaci.

Cosa ci dobbiamo aspettare ancora dagli Aemaet?
CC: Molte cose, spero: un secondo disco, ad esempio. Un live senza compromessi. E tanto affetto per chi ci segue: non finirò mai di stupirmi del potere aggregativo della musica.
SDR: sicuramente la ricerca di un’evoluzione musicale che credo si sia già manifestata nella nostra seppur breve esperienza.

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Thot – The City that Disappears

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No, non sono totalmente impazzito e neanche vivo di una presunzione tale da spingermi a inventare una definizione, per un genere musicale, tanto strampalata e azzardata. È lo stesso Grégoire Fray, il cui moniker è proprio Thot, che indica la propria musica con le parole Vegetal Noise Music e, sinceramente, tolte le suggestioni create dai termini, faccio una certa fatica a comprendere questa scelta. Del resto, come lui stesso spiega, tanta follia cela la voglia di prendere un po’ in giro questa necessità di apporre sempre un’etichetta a ogni nuovo prodotto e la cosa mi rompe un po’ il cazzo giacché ormai gli artisti che “non si ritrovano in nessun genere” o “non amano i generi” sono più noiosi di noi stessi giornalisti, opinionisti, critici, cialtroni che usiamo le definizioni per questioni pratiche, ma, talvolta, affondiamo dentro sabbie mobili linguistiche create proprio da noi. Mettiamo da parte queste digressioni sugli aspetti formali della critica e parliamo di Thot e quindi di Grégoire Fray, nome importante dentro la scena Industrial, noto anche per alcuni remix di Nine Inch Nails, Carina Round, Justice, Depeche Mode, Amenra e, per i seguaci incalliti, per due album solisti (The Huffed Hue del 2005 e Obscured by the Wind del 2011) e due Ep (Ortie del 2009 e The Fall of the Water Towers del 2012). Lo stile di questo The City that Disappears è profondamente intriso di Industrial ma molto presenti sono anche gli aspetti Synth Pop e Rock tanto che l’album è da considerarsi il più variegato della sua discografia. Eppure non tutto è oro quello che è musica. Gran parte dei brani manca di mordente, suonano potenti nella forma quanto morbidi nella sostanza, con una vocalità a tratti imbarazzante nel suo cantato e soprattutto nella timbrica, suoni ai limiti della decenza, melodie banali, arrangiamenti che sfiorano il cacofonico involontario e un’originalità stilistica difficile da trovare anche a spulciare ogni singola nota. Dico tutto questo con profondo dispiacere perché pare (non ho mai avuto la fortuna) che dal vivo i suoi spettacoli siano eccezionali e poderose miscele di performance musicali e visive, grazie all’apporto di diversi collaboratori tra cui Arielle Moens alle proiezioni e grazie anche all’interazione col suo pubblico (The Vegetal Noise Lovers) chiamato a partecipare attivamente con progetti quali video e remix. Che cosa posso farci io, però, se del disco dobbiamo parlare e il disco è tutto tranne che qualcosa che vi consiglierei di ascoltare, salvo che non siate psicopatici da Synth Pop a tutti i costi?

L’unica cosa che posso fare è dirvi che i tempi di Depeche Mode e NIN sono finiti ma se proprio volete fare un tuffo in questo mondo sintetico e volete farlo con un disco freschissimo, lasciate stare The City that Disappears e le contaminazioni industriali e provate con cose tipo Singles dei Future Islands.

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The Flaming Lips – 7 Skies H3

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7 Skies H3 è un distillato in dieci step, per circa cinquanta minuti complessivi di musica, di quello che fu uno degli esperimenti spiazzanti a cui i Flaming Lips ci hanno ormai abituati, quella traccia della durata di ben 24 ore inclusa nell’EP 24 Hour Song Skull, rilasciato la notte di Halloween del 2011 in edizione più che limitata. Solo 13 copie, per 5.000 dollari l’una, su un supporto fisico ancor più delirante del contenuto: flash drive contenute in teschi umani (veri) placcati in argento. Sebbene la nuova release renda l’esperienza certamente più fruibile, l’album risulta avere ancora un’impronta fortemente unitaria ed è difficile comprenderne efficacia e spessore estrapolandone le singole tracce. La struttura è quella inaugurata con The Terror (2013), concepito come un unico lungo trip di psichedeliche cacofonie stranianti che si dissolvono in nebulose sintetiche, con una spina dorsale che sorregge la composizione: un main theme che apre, si srotola nel percorso e chiude l’opera. La forma delle produzioni artistiche dei Flaming Lips degli anni 10 assume sempre di più una connotazione classica, in risultati che si configurano come vere e proprie sinfonie contemporanee, costruite su tema e variazioni, lontane anni luce dalla forma-canzone che,nonostante le peripezie compositive degli scorsi decenni, fino ad ora non avevano mai completamente perso. Ricordate i Flaming Lips come una band ironica, scenografica, cool? In quest’album non troverete nulla di tutto ciò. La title track apre l’album in una immersione di malinconica psichedelia, per poi diventare nenia ossessiva in loop in “Meepy Morp”. A parte pochi sporadici episodi di schizofrenia, l’apparato strumentale è appena accennato, stemperato dai sintetizzatori e ibridato da rumore di ogni sorta, in un risultato sempre inatteso e spiazzante. Anche la voce di Wayne Coyne interviene di rado, in sussurri, improvvisa, oppure in forma di grido, disumana. Non c’è spazio per mezzi termini.

I Flaming Lips hanno attraversato tre decenni di musica senza restare impigliati a lungo nei trend, inanellando le scelte azzeccate quanto i buchi nell’acqua, in una condizione rara di totale libertà compositiva. Nonostante il poliedrico percorso artistico di questaformazione che della sperimentazione ha fatto il proprio credo, un filo conduttore è rintracciabile, e lo è proprio nel nonsense, in ogni sua declinazione, quel riuscire a pizzicare ogni volta le corde dell’inaspettato e dello straniante, e sempre con l’intento di non limitarsi all’udito, creando un’esperienza di ascolto plurisensoriale. L’impasto sonoro celestiale nel reprise di “Meepy Morp” si fa a un tratto demoniaco in laceranti urla effettate e percussioni insistenti (“Riot in My Brain!!”). Ogni variazione si nutre della precedente e produce un seguito spontaneo, in una colonna sonora senza soluzione di continuità che veicola immagini, sapori e sfumature. Splendida la ripresa del tema principale, “7 Skies H3 (Main Theme)”, sciolto in archi e in lievi accenni di chitarra, concludendone lo sviluppo subito dopo, nella tracciache chiude il disco, con arrangiamento identico a quello in apertura.L’ultimo tratto della strada che mi porta a casa dopo un’alienante giornata lavorativa è un sofisticato marchingegno fatto di semafori, passaggi a livello e numerose altre incognite, accuratamente progettato dal destino per farmi perdere almeno un ulteriore quarto d’ora in auto quando sono a soli cinquecento metri dal divano. Ieri pomeriggio, nel fluire degli otto minuti di quest’ultima traccia, ho appositamente atteso che le sbarre si abbassassero, che il treno passasse, che un cane indolente attraversasse la strada e che il rosso scattasse di nuovo. Il tutto pur di non concludere prima del suo termine naturale il lisergico viaggio che è l’ascolto di 7 Skies H3. Quattro note che morbosamente si rincorrono incapaci di rassegnarsi, quel “Can’t Let It Go” cantato e ancor più efficace in un crescendo interminabile di echi artificiali dal sapore floydiano. Quest’album è davvero un gran bel modo di perdersi, per strada verso casa ed anche in molti altri modi.

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Streetambula 2014 (II Edizione), tutte le info

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LPR8 – Piece of Kiss

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Proprio quando sei divorato dal dubbio che le tue capacità di giudizio critico si stiano ammorbidendo a livelli preoccupanti, col timore che potresti metterti tranquillamente a sdoganare un Cristiano Malgioglio, ti capita di ascoltare qualcosa che a velocità supersonica ti rifionda nella dura realtà. Un Ep sbagliato in tutto e non parlo solo di brutture musicali, gusti soggettivi (e come sennò?), apertura mentale, stato d’animo del momento. Tanto per capirci, quell’apparente acronimo LPR8, nome scelto dal produttore Marco Connelli per il suo progetto, non ha quel fascino elettronico che potreste aspettarvi da una fredda sigla. Basta leggere il sottotitolo, Il Leprotto. Proprio cosi, è questo il vero nome dell’artista (perdonatemi l’uso di tale sostantivo in questa circostanza) autore di Piece of Kiss. Non finisce qui, tuttavia. L’orrido prosegue con la visione delle grafiche e dei font di copertina, tanto brutti che quasi m’impediscono di rilevare la pessima scelta anche di titoli di Ep e brani. Prima di passare a descrivervi/non descrivervi la musica/non musica non posso che soffermarmi un secondo sul discorso featuring. Dio santissimo, ma è veramente necessario infilare feat ovunque per provare a rubare fan in mondi altrimenti inaccessibili? Veramente è una cosa utile? Tre pezzi, tre collaborazioni (Boom Girl, voce dei Sick Tamburo in “Kiss”, Don Turbolento in “Run or Die” e Pink Holy Days in “I Wanna Be the Best”) che faccio fatica a comprendere veramente, anche se lo scopo di inserire quelle voci dovrebbe essere di aumentare la portata melodica dei brani e la sua accessibilità.

I tre brani che compongono l’Ep sono un mix ripetitivo, apparentemente potente (ma in realtà soprattutto noioso e snervante) di suoni elettronici di stampo Tech-House e Break Beat, sulle quali le voci dei vari ospiti si appoggiano in maniera credibile ma non efficace. La strada battuta dai Prodigy è molto lontana da quella intrapresa da LPR8, piena di cliché, insulsaggini e totalmente priva di appeal, quantomeno se ad ascoltare è qualcuno che riesca ad andare oltre le capacità di coinvolgimento di suoni bassi e poderosi tipici del genere. Non ha senso spingersi oltre, non vi ho detto molto, scusatemi ma ho veramente altre cose da far girare nello stereo. Magari tornerò su questa roba quando, questa estate, mi ritroverò a ballare come un idiota in qualche pessima discoteca del litorale. Anche se sono troppo vecchio per iniziare a ballare.

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I Rolling Stones e il pisello di un settantenne.

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Deison & Mingle – Everything Collapse[d]

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I, I’ve been lonely
And I, I’ve been blind
And I,. I’ve learned nothing
(M. Gira)

Sono due o forse tre o più settimane che non riesco a sfilare dallo stereo questo disco del duo Cristiano Deison (electroning e processing), Andrea Gastaldello (piano, electronics) e non è precisamente perché di una qualità oltre la norma. Il dubbio è che faccio una fatica pazzesca a capire quanto mi piaccia davvero Everything Collapse[d] e quanto, invece, non lo faccia correre via nelle mie giornate con apatia, quasi senza forze, consapevole che potrà accompagnarmi fino alle ore del sonno senza tediare troppo la mia vita.  La prima notizia positiva, però, è che, a dispetto di uno stile non proprio tradizionale tra i nostri confini, Deison & Mingle è prodotto tutto italiano e lo avrete capito dai nomi di battesimo delle due anime che stanno dietro al progetto nato nel nord-est solo nella scorsa estate. Da un lato un navigato del settore sperimentale, Ambient ed Electronic Minimal, Deison, che già si è ritrovato negli anni a collaborare con mostri quali Lasse Marhaug, KK Null, Teho Teardo, Thurston Moore, Scanner. Dall’altro Mingle, alias Andrea Gastaldello, eccelso compositore minimale già al lavoro su svariati documentari. Non passa molto dalla collisione tra queste due inclinazioni e la nascita di Everything Collapse[d], album che trova la sua energia, il suo asse portante, la sua ragion d’essere nell’analisi psicotica dell’inquietudine e della disperazione umana, senza per questo non palesare momenti di speranza (“Optokinetic Reflex (Glassy Eyes)”) difficile da comprendere quanto illusoria e quanto reale.

Otto tracce che si plasmano e collassano, si amalgamano e si mettono in mostra attraverso droni disturbanti, field recordings, processed loops, ritmiche amorfe, armonie eclissate, soffuse e dilanianti, tutto appesantito da note di piano tormentose. Quarta opera di una collana che vede collaborare l’etichetta Aagoo Records con i Rev Laboratoires e che, in precedenza ha visto l’uscita delle sperimentazioni di Marcus Fjellstrom, Murcof & Philippe Petit e Connec_icut, già trattate sulle nostre pagine dal qui presente. L’opera è inquietante ma non troppo greve, multiforme ma con momenti di sana distensione e a lungo, come accennato all’inizio, mi sono dibattuto inseguendo una chiave di lettura più pertinente, che andasse oltre i concetti palesi e i suggerimenti di un titolo, Everything Collapse[d], tanto esplicito e categorico. Sul finire dell’album, troviamo “Static Inertia”, che, in un’ottica di speranza nella disgrazia si ricollega all’opening track, ma quest’ultimo pezzo non si chiude etereo ed estatico al minuto cinque e venti secondi. Fino a questo momento non c’è stato spazio per la voce, tutto era elettronica fredda. A stringere realmente il cerchio c’è una ghost track cantata da Daniele Santagiuliana (ottima la sua interpretazione). Si tratta di “Failure”, brano degli immensi Swans. Scelta scaltra, vista la nuova rinascita della band capitanata dal gigante Michael Gira ma anche perfetta per incasinare idee e sensazioni, alla fine dell’ascolto. “Some people live in hell, many bastards succeed. But I. I’ve learned nothing. I can’t even elegantly bleed out the poison blood of failure”.

E intanto continua a girare il disco nel lettore e non ho alcuna voglia di toglierlo e forse inizio a comprendere che Deison & Mingle hanno colto perfettamente nel segno, pungolando la parte più oscura e disturbata della mia anima. Mi hanno fregato, con furbizia e malizia ma ora non ho le forze per reagire, ho solo voglia di farmi fottere ancora.

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Allan Glass – Magikarp

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Per il duo piemontese Marco Matti e Jacopo Viale, dopo la buonissima prova dell’ep Guzznag, è giunto il tempo dell’album che li dovrebbe introdurre definitivamente nell’oscuro mondo dell’underground italiano. I due ragazzi pescano tantissimo da un passato che ha il sapore di un Garage sporchissimo (“Betulle”), figlio dei decenni Sessanta e Settanta, tra Iggy Pop e The Sonics ma questo lavoro di riscoperta della lordura che fu è messo in atto con uno spettro di modernità e rinnovamento senza eguali. Un’inclinazione fresca che rinvigorisce lo spirito, anche quando le chitarre Funky danzano selvaggiamente con una sezione ritmica tribale che non lascia scampo neanche ai più rigidi pezzi di legno (“La Tua”) oppure quando si resta schiacciati contro il muro da uno tsunami Impro Folk Rock che suona come un putiferio incontrollato e caotico, almeno all’apparenza. Quello degli Allan Glass non è solamente un Alternative Rock sparato a mille chilometri l’ora, con un tripudio Noise a calpestare, soffocare, stuprare le linee melodiche vocali (“Palloncini e Pavoni”, “L’Estate Non Conta Parte I”). È tantissime altre cose, in parte sulla scia dei giganti della Psichedelia sperimentale, gli Oneida e in parte oltre ogni paragone di sorta.

Il loro fosco e poderoso ma comunque ritmato Lo Fi, sfoggia le vesti più eleganti di un certo Post Rock psicotico, senza saliscendi o variazioni sostanziali (“L’Estate Non Conta Parte II”), che quasi sarebbe base perfetta per un pezzo Experimental Hip Hop stile Dälek, ma sa anche svestire quei panni per mostrarsi in tutta la sua bellezza Art Punk, ritmica e amorfa (“Plastic Bubble in the Mystic Place”) oppure mutare forma in maniera sostanziale e inaspettata, trasformandosi in una sperimentale miscela di Acid House, Industrial e Psichedelia Elettronica neanche si trattasse di figli illegittimi di un parto selvaggio e innaturale di Genesis P-Orridge e famiglia (Psychic Tv). Con Magikarp (per gli appassionati del genere dovrebbe trattarsi di un Pokemon di scarsa potenza) gli Allan Glass mettono finalmente in mostra tutto l’arsenale a disposizione, forse con un po’ di confusione, qualche pausa d’intensità di troppo e pochi minuti (circa ventiquattro) sui quali sfogarsi, ma quelle armi paiono avere tutte le carte in regola per fare molto male. Gonfiare ancor più l’album non tanto con nuove idee ma soprattutto con la materializzazione di quelle già presenti avrebbe certo aiutato ad apprezzare ma chi ha buon orecchio per ammirare anche questo sensazionale rumore, non faticherà a riconoscere indubbie doti creative.

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