Silvio Don Pizzica Tag Archive

Casa – Una Fine Continua

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Quando, nel lontano 1998, Filippo Bordignon sviluppò la creatura chiamata laconicamente Casa, probabilmente non vi era ancora una percezione nitida di quella che sarebbe stata la sua evoluzione nel corso degli anni. Molti ne sono passati di lustri e in mezzo ci sono ben cinque lavori, tutti editi per Dischi Obliqui, che vanno da Vita Politica dei Casa, del 2007, fino a quest’ultimo e sesto, il live Una Fine Continua, registrato presso il Lost in Space Studio nell’ottobre del 2013. Non troppo tempo fa io stesso vi raccontai di Crescere un Figlio per Educarne Cento, quella che a oggi è la loro ultima opera in studio e, nell’occasione ebbi modo di illustrarvi non solo i pregi di quel bellissimo disco ma anche il percorso artistico di Bordignon e di tutti gli elementi che si sono mischiati alla storia dei Casa, dimora sempre aperta a collaborazioni e contaminazioni e predisposta a calcare strade lontane dalle normali piazze della musica Rock sperimentale o meno che sia e quindi piuttosto limitrofe all’arte contemporanea. Non servirà a nulla, dunque, insistere sulla natura multiforme, coraggiosa e sperimentale della loro opera, quanto prendere atto della possibilità di riscoprire, nella dimensione live, un’imperfezione che non significa errore, bruttura, malformazione, quanto capacità di costruire qualcosa di sensato, affidandosi a caso, intuito, improvvisazione e capacità di affrontare in maniera liquida l’evolversi e il crescendo delle note. Come afferma lo stesso Bordignon, in tempi in cui anche una qualsiasi cover band va a tempo, andare a tempo non è più necessario.

Una Fine Continua è un live in studio aperto al pubblico ed è anche la prima occasione per la band di Vicenza di far sentire su disco quella che è la struttura dei brani in chiave live. In tutto sono ben quattordici i pezzi i quali toccano tutti gli episodi precedenti, senza far mancare qualche inedito (“Bombieri”, “I Sei Poli di Fascicolazione”, “Dal Caso alla Possibilità”, “Live in Ser.T”, “Peggioramenti”, “Mu”). Se è vero che della collaborazione i Casa hanno sempre tratto elemento di forza, ora il quartetto si scopre, presentandosi nella veste più spoglia possibile, senza rinunciare alla propria anima che si rinnova con l’ingresso di Matteo Scalchi alla chitarra. Se mai avete ascoltato nulla dei quattro folli di Vicenza, questo può essere un buon modo per scoprirli, andare a ritroso e innamorarvi dello stile canoro delirante di Bordignon che usa la lingua italiana in maniera totalmente indisciplinata e delle divagazioni strumentali, che toccano il Blues irriverente (“Blues Morto”), l’Avant Rock di stampo Prog (“Nick Drake”) o semplicemente farneticante e irragionevole come certo Free Jazz (“Whodunit!”), il Songwriting intimo che si trasfigura in deliri degni di Captain Beefheart (“Part-time/Una Razza Inferiore”) e poi L’Alt Rock mai convenzionale (“Beba la Moldava”) e piuttosto oscuro (“No”) o il Pop sgangherato, divertente a tratti (“Madonna con Cilicio”). Degna conclusione con “Volonté Blues”, a metà tra schizofrenia e sarcasmo, sia in quanto a testi sia a musica ma, per chi non conoscesse il brano, ogni parola è superflua senza un intimo ascolto che vi trascinerà in una profonda tragedia umana.

Una Fine Continua è un bel punto e a capo per una formazione straordinaria che non sempre ha riscosso gli apprezzamenti che avrebbe dovuto. Un magnifico modo per testare un suono che su disco è sempre sembrato in gabbia rispetto alle sue potenzialità, un suono che necessita anche dell’errore, intenzionale e non, per potersi espander oltre la percezione dell’uomo comune e raggiungere i lati intimi della nostra coscienza.

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Black Fluo – Billion Sands

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Scelgono l’eleganza del nero, nel nome, nell’artwork e nello stile. La raffinatezza dell’assenza di luce, della disperazione, del lato oscuro dell’anima, delle tenebre, della morte, della scoperta di quello che superficialmente ci sforziamo di sotterrare. Un nero fluorescente, come visivamente può esserlo la dicitura Billion Sands incisa sul nero opaco di copertina. Un nero fluorescente che ha la frenesia di mostrarsi in tutto il suo inquietante splendore. Black Fluo è essenzialmente un quartetto di Chiasso che miscela musica Elettronica e Neo Classical, il tutto frullato in un contenitore di contaminazioni psichedeliche e cosmiche che sciolgono il sound, spezzano i legami molecolari delle note, lasciando sgocciolare materia oscura, liquida e caldissima. Billion Sands è l’esordio di questo progetto che va ben oltre la semplice definizione di band, comprendendo anche grafici e attori. Peccato, a tal proposito, non avere tra le mani quel libro/non libro che rappresenta il packaging ma solo la copia promozionale per la stampa. Immagino sarebbe stato un ulteriore motivo di estasi per i miei sensi.

Da un punto di vista musicale, le attese speranzose possono dirsi, almeno in parte, divenute realtà. L’apporto di Zeno Gabaglio (cello in “La Fin”) e Luca Broggini (batteria in “Les Vagues Caleidoscopiques”) è ulteriore garanzia di qualità ma è nell’insieme che Billion Sands convince a metà, o forse qualcosa di più. Quasi impossibile dare una collocazione temporale alle note dell’opera, sospese come sono nello spazio e nel tempo. Le strumentali che ci introducono al lavoro, dal vago sapore tra certo Slowcore stile Black Heart Procession e conturbanti introduzioni funeree degli Have a Nice Life. Quel cocktail di note oscure, riverberi ed echi cosmici e sconvolgenti che quasi ci trascinano in una dimensione irreale presto diventano sperimentazioni dalle lievi ritmiche tribali, sulle quali si staglia una narrazione eccitante, tra John Cale e Sol Invictus (“Whisper”). Non mancano momenti più canonici, a modo loro, sabbiosi, quasi tendenti al Folk desertico, come dei Calla in giornate particolarmente deprimenti e tristi (“Death of a Sun”) o ancora più vicini al più conforme cantautorato sempre in chiave Neoclassical Darkwave (“Scarborough Fair”, “Narcosia”), un po’ Black Tape for a Blue Girl e un po’ Lisa Gerrard, grazie anche all’apporto di Adele Raes. Dunque, ritmiche ossessive e marziali sullo sfondo di timbriche vocali eteree e sofferenti, tutto in una chiave psichedelica moderna e lisergica ma anche uso sapiente della materia chitarristica (“Les Vagues Caleidoscopiques”) che sul finale apre una porta Psych Rock totalmente nascosta fino a quel momento, quasi a mostrarci una esistenza parallela che deformi totalmente i nostri pensieri prima di mandare tutto in frantumi con il claustrofobico e terrificante finale (“Caledonia”) che alterna speranza e disperazione. Particolare attenzione è opportuno dedicare alle liriche, perfettamente in linea, grazie al loro ermetismo e simbolismo, con lo stile musicale dei Black Fluo. Per il resto uno splendido album che poteva essere ancor più intenso, se si fosse insistito su certe idee e che finisce per apparire ottimo senza lasciarci veramente fluttuare a mezz’aria in una nascosta interzona dell’anima, una volta scoccato l’ultimo dardo dall’ultima nota.

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Aa. Vv. – Son of a Gun A Tribute to Kurt Cobain

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Il cinque aprile di venti anni fa muore, apparentemente sparandosi una fucilata alla testa, quello che è innegabilmente uno tra i personaggi più importanti, influenti, sfrontati e idolatrati che la storia del Rock ricordi, uno di quei loser (al fianco di Ian Curtis, Elliott Smith e pochi altri) capaci di affascinare intere generazioni per decenni e anche oltre. Per l’occasione, Big Red Agency e RuSsU (Totale Apatia) in collaborazione con La Città della Musica e Rock House, hanno promosso questa raccolta di cover, reinterpretate da band e musicisti lombardi, per ringraziare Kurt per quello che ci ha consegnato. Tutto fantastico, in apparenza, ma poi ci tocca stendere una recensione di questo lavoro, cercando di tirare fuori tutto il cinismo possibile trattandosi di rievocare un personaggio a noi tanto caro e scomparso in circostanze così atroci. Come si può discorrere in modo ostile di un tributo a un’artista come Kurt Cobain? Infatti, non è quello che farò, perché la scelta di mettere insieme questi diciannove riarrangiamenti da parte di Big Red Agency e gli altri è totalmente comprensibile, gradito e, la quasi generale assenza di desiderio di speculazione mi spinge ad accettare con ancor più appagamento questa pura voglia di ricordare e omaggiare attraverso le note dei Nirvana.

Come abbiamo accennato, però, l’album è fatto non solo di parole dei Nirvana, ma di canzoni della grande band di Aberdeen rivisitate da nostrane formazioni lombarde, non tutte in grado di rileggere con sensibilità nuova quei brani, mantenendone inalterata l’intensità emotiva. La scelta condivisa dalla maggior parte delle band è di non stravolgere eccessivamente lo stile originale, forse mostrandosi saggi o spaventati dagli ovvi paragoni, e quindi, per lo più, la tendenza è sottolineare chi l’aspetto Punk (Andead), chi quello Rock (Mad Penguins, Marydolls, Str8t), chi quello Alternative (Cronofobia, Nessuno, Pay) e chi quello Lo Fi (Il Re Tarantola) della band regina assoluta del Grunge. Diverse le formazioni che provano ad aggiornare con raffinata adeguatezza al presente le note di Cobain, alcune riuscendoci in pieno e altre meno ma comunque palesando una buona dose di coraggio che non deve essere trascurata. Discrete le scelte di Hey! Amber, Incomprensibile Fc mentre ottima è la selezione del brano da parte dei 36 Stanze che offrono una versione Crossover di “Tourette’s”, cosi come non dispiacciono l’intima rivisitazione di “Rape Me” di RuSsU e “Serve the Servants” in chiave Rock’n Roll dei Seddy Mellory. Passando al peggio ascoltato nella compilation, dispiace dover citare le due brutte trasposizioni Rock scialbissimo e Hard Rock dei Deizy e dei Blackline e disturba addirittura lo stile e la timbrica irriverente, in senso cattivo, dei Malena cosi come la “Sliver” dei Totale Apatia che quasi annienta la potenza intrinseca del brano originale. Per fortuna ci pensano prima i Korova Milk Bar con una splendida “Drain You” a risollevare il livello e poi i Matmata con “Dumb”.

Un lavoro senza troppe ambizioni che non ci regala molte positive chiavi di lettura, ma quantomeno pone l’accento su una grande formazione a tratti troppo bistrattata ma che invece ha saputo fare della semplicità e del minimalismo rabbioso una forza capace di resistere al tempo. Un lavoro che aiuterà i più distratti a ricordare di un perdente che il tempo ci ha insegnato a riconoscere come un grande uomo oltre che un immenso artista.

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Il Caos

Written by Interviste

Il Caos è un progetto figlio di Milano eppure il sound pare profondamente legato a una tradizione mediterranea. Come siete arrivati a questa scelta stilistica?

Non è stata una vera e propria “scelta”, ognuno di noi ascolta generi musicali diversi: ci siamo ritrovati nel progetto “Il Caos” con la voglia di mescolare questi diversi background artistici. Ci accomuna il modo di vivere la musica e il gusto per le tradizioni del nostro paese tra cui la tavola, l’arte, la buona compagnia. 2 su 5 sono originari del sud Italia ma è come se lo fossimo tutti. Diciamo che è stata una scelta inevitabile poiché innata.

Quanto è più facile emergere in ambienti metropolitani, quindi con maggiori spazi, strutture, possibilità rispetto alla provincia, che magari ha il vantaggio di una minore “concorrenza” e come pensate voi, nel futuro, di togliervi dal gruppo degli eterni “saranno famosi”?

Siamo consapevoli di essere agevolati nel vivere in “zona milano” rispetto ad altre band che devono impegnarsi a coprire distanze maggiori. Per noi la musica non è una gara, quindi non viviamo il fatto che ci siano tante band nella zona come “più concorrenza”, anzi, sarebbe bello se ce ne fossero ancora di più! La scena musicale sarebbe più viva, mentre al momento non si direbbe sia proprio così. Sembra godano di buona salute solo le cover band! (ride ndr).  Il nostro futuro musicale si svolge nel presente giorno dopo giorno e se vedremo ballare o cantare sotto al palco vorrà dire che a qualcuno saremo arrivati e che il progetto funziona.

Come definireste la vostra musica senza scadere nell’uso, prettamente critico e giornalistico, dei generi musicali e delle categorie?

Musica di facile ascolto, orecchiabile, senza virtuosismi ma originale negli arrangiamenti. Pensiamo quindi possa piacere sia all’ascoltatore medio che al musicista senza escludere nessuna fascia d’età.

Nelle vostre canzoni usate la lingua italiana, segno che il messaggio da trasmettere a parole voglia essere messo su un piano più elevato o quantomeno paritario rispetto al messaggio musicale in sé. Di cosa parlano i vostri testi e chi ne è l’autore?

L’autore siamo tutti e cinque e generalmente parlano di figa (si può dire?). Scherzi a parte, ci piace lasciare all’ascoltatore la possibilità di interpretare la canzone,crediamo sia un valore aggiunto il fatto che un testo possa assumere un significato diverso per ognuno, lo stesso vale per un film, un quadro, un libro, una poesia…

Che tipo di formazione musicale ha contraddistinto i pezzi de Il Caos? Siete musicisti attenti al lato tecnico o particolarmente viscerali ed estemporanei?

Le nostre canzoni nascono tutte in modi differenti, per lo più vengono sviluppate da un’idea di uno di noi che la propone “nuda e cruda” agli altri. Da lì nasce il vero processo di creazione a cui contribuiamo tutti. Siamo decisamente più viscerali che tecnici.

Nonostante la vostra musica non possa definirsi Pop, nel senso più commerciale del termine, le vostre canzoni scelgono le strade più facili della lingua italiana, del ritornello orecchiabile e della voce registrata a volume notevole e preponderante. È questa davvero l’unica strada per conquistare il pubblico italiano?

No, questo è quello che ci piace, tant’è vero che non siamo mai in grado di inserirci in un solo genere musicale. Non facciamo nulla con l’intento di accattivarci qualcuno, altrimenti faremmo rap per essere commerciali o Punk Rock mischiato ad un cantautorato simil Rino Gaetano per entrare nella musica underground attuale.

Il caos è una necessità, una condizione umana da accettare con la quale convivere serenamente oppure una situazione straordinaria da strutturare che quasi regala senso alla vita stessa?

“Per me è la cipolla” (ride ndr). Il Caos è la realtà in cui viviamo, qualche volta basterebbe accettare che nella vita molte cose accadono per caso. In realtà “IL CAOS” nasce proprio dal fatto che amiamo generi musicali molto diversi e che allo stesso modo componiamo e realizziamo brani con stili diversi, nonostante tutti abbiano un’unica sonorità.

Quanto ritenete importante per la musica il suo valore sociale, oltre il puro valore artistico e quanto i due concetti si legano tra loro? Può l’arte avere un essenziale e unico rilievo estetico?

La musica può avere un valore sociale e sicuramente deve essere accompagnata da un valore artistico altrimenti “è un’altra cosa”. L’arte ha essenzialmente un rilievo estetico, tutto ciò che viene aggiunto dopo è posticcio, non che sia necessariamente un male.

Oggi il pubblico sembra fare sempre più difficoltà a distinguere la musica come intrattenimento e la musica come arte. Pensate che sia un equivoco connaturato al concetto stesso di musica o un errore generato dall’uso sconsiderato della musica fatto da radio e tv? Voi dove vi piazzate?

Oggi l’ascoltatore medio è un ascoltatore distratto. Non è un problema che riguarda solo la musica, tutti siamo distratti in qualsiasi campo. In questo ambito sembra sia la musica commerciale a risentirne di più, soffre di inflazione! E’ sempre meno arte e sempre più artefatto perché chi la propina alla gente è il primo a svalutarla.

L’Ep omonimo, Il Caos, è uscito da pochissimo. Come siete giunti alla sua realizzazione e quali saranno i vostri prossimi passi?

Abbiamo sospeso per un periodo la nostra attività dal vivo, ci siamo chiusi in saletta dedicando del tempo alla scelta dei brani, alla loro stesura e agli arrangiamenti. Abbiamo cercato di racchiudere in cinque canzoni il lavoro svolto da quando il progetto esiste nonostante avremmo voluto dare spazio anche ad altri pezzi momentaneamente esclusi. Siamo stati fortunati ad aver trovato un produttore che ci abbia sostenuto e col quale abbiamo lavorato serenamente. Per il momento vogliamo spingere il nostro nuovo EP. Se andate sulla nostra pagina ufficiale di facebook potrete vedere i nostri impegni live. Non vi nascondiamo che stiamo già lavorando ad un nuovo prodotto, non nell’imminente ma in un futuro “molto” prossimo.

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2 a.m. – Songs for Newborn to Be

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2 a.m.: non si tratta di frequenze radio o cose del genere. 2 a.m. è semplicemente un duo costituito da Andrea Marcellini (notare le iniziali) e Andrea Maraschi (rinotare le iniziali) che, con queste Songs for Newborn to Be, si getta a capofitto nel mondo del Pop Rock italiano cantato rigorosamente in inglese. Un esordio che convince solo a tratti, anzi spiazza particolarmente per quanto riesce a farsi apprezzare e detestare con la stessa enfasi a ogni alternarsi di brano. Il loro stile sintetico che mostra un certo eclettismo e lascia immaginare la presenza di un ragguardevole estro compositivo, crea melodie intriganti sotto l’aspetto estetico, tutto condito però da arrangiamenti non troppo stimolanti e un programming che non convince in maniera confacente. Una sorta di Pop Wave che spazia tra Shoegaze di stampo Glasvegas (“Karmadipity”), Dream Pop e Psychedelia ma non elettrizza per nulla quando sceglie le strade più Pop, Emo, New Romantic e introspettive (“I Cannot Cry”, “Naked”, The Untold Words”, “The Magic Can’t Work”, “A Song for Newborns to Be”) e che invece trascina senza possibilità di riluttanza alcuna quando imbocca le vie della Wave sintetica e danzereccia a metà tra Thou  Shalt Not, Late of the Pier e Dance Punk in pieno Franz Ferdinand style (“PG”, “Clash”, “I Wanna Make Noise (in Your Life”)). Non ci si scervelli a cercare un barlume di originalità neanche negli episodi migliori del disco ma quello che possiamo fare è godere di una carica e di una capacità di coinvolgere e far smuovere il sedere non sempre presente nelle formazioni nostrane. Alla fine resta poco di cui essere felici, ma quel poco che resta è tanto ben fatto che la speranza è di poter avere in futuro qualcosa di più che un anonimo duo che miscela Pop ed Elettronica anche se probabilmente la strada giusta per lasciare il segno è quella triviale e carnale più vicina al culo che non al cuore.

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Inutili – Music to Watch the Clouds on a Sunny Day

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La band abruzzese sembra avere tutte le carte in regola per prenderci per il culo amabilmente. Si parte dal nome che mette le mani avanti su ogni possibile critica circa l’importanza storico-evolutiva, in ambito musicale, della formazione teramana e si finisce al titolo dell’Ep che certo nulla lascia presagire dell’armageddon sonico che ci aspetta, suggerendo atmosfere eteree e sognanti, rilassanti e quiete piuttosto. Il lavoro, che viaggia per le strade della psichedelia, del Lo-Fi estremo, dell’improvvisazione e del Krautrock più classico e audace, si costruisce su due pezzi. Il primo, come suggerisce il titolo stesso (“Fry your Brain”) è un lungo crescendo lisergico e psicotico attorno ad una martellante linea di basso, nei pressi della quale si avvolgono distorsioni disturbanti, glitch e droni nevrotici (al minuto quattro e trenta secondi pare ascoltare una notifica di facebook e c’è il rischio che non si tratti di uno scherzo delle mie orecchie) che disturbano quella che è l’atmosfera estatica che vorrebbe fare da nucleo a tutti i circa diciannove minuti che formano la prima parte. Il lato B (“Drunk of Colostro”) cambia completamente le carte in tavola. Si resta immersi in quell’aura di psichedelia stupefacente (in tutti i sensi), dal sapore molto Rallizes Dénudés e l’incalzante e meccanica linea di basso continua a fare da protagonista ma ora attraverso strade più caotiche, fatte di Blues e Funky, una maggiore varietà stilistica ma la stessa capacità di ammaliare e rapire e trasportare in una realtà e in un’epoca che non trova collocazione alcuna nella storia, ma che viaggia come su di un’esistenza parallela, simile e diversa al tempo stesso. Un lavoro che pare ispirarsi molto non solo alla tradizione classica occidentale dei 60 e 70 ma che pesca a piene mani nel mito di Mizutani Takashi per provare a rielaborare in chiave ancor più devastante e aggressiva quelle suggestioni disastrose, vulcaniche, elettriche, più pesanti di una morte in famiglia.

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Connect_Icut – Small Town By the Sea

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Small Town By the Sea non è uno di quei dischi che puoi esporre nel loro insieme, come un’entità unica, a sé stante, integra; necessita, senza possibilità di alternative, il seguire una precisa linea che porti dalla prima traccia fino all’ultima nota, duemila cinquecento sessantaquattro secondi dopo. Andiamo però per gradi. Solo qualche mese fa, sul finire dell’anno passato, vi avevo raccontato chi fosse quest’oscuro produttore di musica elettronica di Vancouver e vi avevo suggerito appassionatamente l’ascolto del suo Crows & Kittiwakes & Come Again. Ora, con Small Town By the Sea, c’è da fare un bel passo avanti, perché, se per certi versi sono allentate le tensioni date da quelle che io stesso ho definito deformità tecniche del suono talvolta esasperate in chiave rumoristica, Connect_Icut riesce anche a prendere fedelmente la strada buona che lasciavo scorgere alla fine della mia recensione. Un disco perfetto per iniziare ad ascoltare musica elettronica di qualità senza il timore di dover abbandonare per manifesta incapacità di ascolto, cosi chiudevo e da quella frase riparte il canadese, avendo ora appianato il suono, senza banalizzarlo e avendo creato un’opera che può definirsi tanto temeraria almeno quanto più abbordabile rispetto al passato. Ora sono i beat che divengono la solida base dei brani i quali altresì si contorcono in una serie di vortici di elettronica psichedelia.

Ancora una volta, però, non posso che mettervi in guardia perché se è vero che, rispetto al passato, ancor più facile è che vi piaccia un disco come questo pur non essendo voi appassionati di musica Elettronica Sperimentale, non aspettatevi niente che possa dirsi accessibile a un ampio pubblico, in senso assoluto.

Già l’introduzione (“Bird Internet”) ci trasporta senza perdere troppo tempo in un’irrealtà fredda e inquietante, fatta di battute e campionamenti ai limiti del surrealismo, con una certa ossessione nelle ritmiche e poche variazioni sul tema. Diversificazioni che sono anticipate da suoni naturali (come un cinguettio) che s’insinuano nelle gelide note iniziali. Sul finire del pezzo, una massa multiforme, amorfa e sonica sembra aggregarsi e pulsare attorno a quella stessa eterea natura, fino a liquefarsi nella parte finale, dopo oltre otto minuti. Nella successiva “Tennis Player” torna ancora più muscoloso il tema criticamente onirico; sullo sfondo i suoni naturali si mescolano a dialoghi, pianti di bimbi, e la musica pare essere parte di un mondo parallelo. È introdotta la voce femminile che prende la strada di una melodia Soul intensa e appassionante pur nella sua disarmante purezza. Forse il momento più Pop (difficile usare questo termine per il disco) è tutto qui, in questa melodia incantevole, ma ben presto si torna sulle già battute strade del Glitch (“Bathroom Mirror (Smash Patriarchy)”) con momenti di eccezionale dualismo tra ritmiche poderose e potenti e l’impalpabilità del resto. L’acqua scorre fino a “74 Guitars”, quando note di chitarra e passi pesanti sulle assi malmesse si confondono, creando momenti di terrificante serenità prima di esplodere in frizzanti e luminose note elettriche. Nell’ultima parte di Small Town By the Sea si accentua il nervosismo acustico che quasi sembra destinato a sfociare in un Trip Hop e la voce femminile pare accennare una melodia Soul/Funk, propria dell’House Music, sempre però strozzata nell’inquietudine e nella voluta cacofonia del canadese, che abbandona il brano incompiuto, come a calcare il concetto dell’impossibilità di completare una vera metamorfosi verso una nuova realtà. “Cat Town” chiude il viaggio psicotico ma anche distensivo con ritmiche bassissime e sciolte, lasciando aperte porte sensoriali che sembrano spalancate dopo un ascolto a volume sostenuto, con le cuffie ben ancorate alle tempie.

Connec_Icut comincia a fare sul serio e presto non sarà più un oscuro produttore di musica elettronica di Vancouver, su questo sono pronto a mettere una mano sul fuoco. Voi non fatevi trovare impreparati.

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Il Mercato Nero – Società Drastica

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Il Mercato Nero è il frutto di un ménage à trois collaudato, quello tra Manuel Fabbro, basso e voce, Matteo Dainese a completare la sezione ritmica ed Egle Sommacal, chitarrista storico dei Massimo Volume. Ex militanti negli Ulan Bator, intraprendono ora la via del Hip Hop. La scelta è apparentemente distante dalla prima esperienza insieme, ma al termine  dell’ascolto di Società Drastica non lo sembrerà più tanto. Il fatto che sia suonato è già di per sé una caratteristica insolita per un disco Rap. Un’esercitazioneche rivela che una convivenza tra la buona musica e l’mcing non solo è possibile ma è anche valida.

I tre si avvicinano al genere con aria reverenziale da neofiti, tanto quanto basta a far pensare che siano stati loro i primi scettici riguardo alla convivenza di cui sopra. Dj Gruff è diventato il mio analista, dice Fabbro in “Passo Falso”, brano di intro che è una sorta di prologo dell’intero progetto. In effetti le atmosfere acide evocano gli anni 90 dei Sangue Misto. La metrica però è più torbida e il linguaggio eccessivo, lontano dallo slang americanizzato, al massimo troverete slang veneto (lo scheo di cui si parla in “Tossico” confesso di averlo googlato, e al di là del significato la scoperta più emozionante è stata che di Wikipedia esiste anche la versione in lingua veneta). L’album dipinge così, senza troppi filtri,scenari sociali disturbanti ed attuali, frammenti sin troppo comuni di quella Società Drastica che non ho capito cosa mangia ma mastica (“Esche Vive”, il singolo che accompagna l’uscita del disco).

Hip Hop old school, per le tematiche e la disillusione con cui le affronta, ma figlio del nuovo millennio, con l’elettronica che sostituisce le manipolazioni analogiche della tradizione. L’elettronica è quella di Dainese, all’attivo con un progetto solista dai connotati Alt Pop in cui è noto come Il Cane. Il cantato di Fabbro ruba la metrica al Rap ma spesso si fa cupo, perde in ritmo e muta in un fluido spoken. Sommacal lega il tutto con la persuasione evocativa del Rock. In ogni traccia l’apparato strumentale è ricco e sperimentale (la tromba sul ritornello di “Saccopelista”, la marimba in “Automobile”). Da un certo punto in poi il ritmo serrato delle prime tracce lascia spazio a sonorità più morbide. “Nduja”, dispetto del titolo, ha un sapore tutt’altro che aggressivo, un cupo rimuginare sulle contraddizioni del Bel Paese, sull’atmosfera inquieta e onirica creata da un Fender Rhodes.

Ad uno sguardo complessivo, paradossalmente,la qualità del sound penalizza l’ascolto complessivo perchè ruba la scena ai testi, chein molti frangenti non reggono il confronto e finiscono per scorrere via inosservati. Lo ribadisce al termine del disco la ghost track strumentale, fatta di archi sapientemente attorcigliati su suoni sintetici. Nonostante questo divario, Società Drastica èuna singolare declinazione del Rap che ha le carte in regola per convincere anche i meno avvezzi al genere, a tutti gli effetti un riuscito esperimento Crossover.

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Stumbleine feat Violet Skies – Dissolver

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Solo qualche mese orsono vi ho parlato io stesso dell’Ep Chasing Honeybees, del duo Peter “Stumbleine” Cooper / Violet Skies muovendo tanti dubbi sia sul sound in sé sia sulla voce della nostra Violet ma anche rilevando gli aspetti positivi dati soprattutto dalla brama di fare Pop senza rotolare nelle convenzionalità del genere. Molte di quelle notazioni devono essere considerate ancora adesso opportune ma comunque alcune diversificazioni nette sembrano sollevarsi nell’ascolto di Dissolver. Si allenta notevolmente il legame con Dream Pop e Ambient, con il sound spectoriano anni 60 e con le atmosfere eighties di Cocteau Twins e My Bloody Valentine mentre tutto diviene molto più Pop o meglio più banale e stereotipato, anche se in certe congiunture (“Heroine”) Stumbleine pare seguitare a rendere omaggio a un passato sempre più remoto nel tempo tanto quanto attuale nella sua riscoperta. La voce di Violet Skies ostenta maggiormente la sua impostazione Soul e R’n’B, ma siamo lontani dai successi e dal livello qualitativo di un James Blake per intenderci. Le dieci tracce che avrebbero dovuto mettere sul piatto quanto di affascinante mostratoci nell’Ep Chasing Honeybees segnano invece una mezza sconfitta. Stumbleine e Violet Skies scelgono una strada sicura che però non fa altro che evidenziare ancor più i limiti del duo che, ancora una volta, butta via l’occasione di confezionare saggiamente qualcosa di alternativo dentro il sempre più deludente mondo della modern  popular music. Non mi stancherò mai di ripeterlo, la musica è più di una buona voce e capacità di usare uno strumento che sia un pezzo di legno o un groviglio di fili e bottoni. Se qualcuno dovesse apprezzare la voce femminile di Violet Skies magari potrebbe provare col suo esordio solista (la prima traccia uscita è “How the Mighty”) oppure, se come me è proprio quella voce che mal digerite, potreste provare con i lavori del produttore Stumbleine, ultimo Spiderwebbes, che uniscono Dream e Ambient Pop con Chillstep; ma non aspettatevi troppo, ve l’ho già detto, potete anche andare oltre senza perdere troppo tempo.

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Sique & Petrol – Suono Fantasma

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L’Italia pare terreno fertile per l’esplosione di piccole mode spesso destinate a sciogliersi sotto i primi raggi di sole. Questi ultimi tempi, la tendenza che sembra dare maggiori garanzie di successo è il duo Indietronic uomo/donna ed è proprio questa la formula proposta da Sique & Petrol, compagine bresciana composta da Silvia Dallera (SiQue) e Alessandro Pedretti (Petrol) forse ai più fanatici noto per le esperienze con EttoreGiuradei e Colin Edwin dei Porcupine Tree. Dietro la fumosa definizione Indietronic si cela una miriade di mondi sommersi e, anche in questo caso, bisogna scavare oltre a questa densa e spessa nebbia per comprendere cosa sia questo Suono Fantasma. Una commistione di sonorità che vanno dall’Ambient e il Dream Pop di stampo quasi nordeuropeo fino al più classico Alternative Rock passando per l’Elettronica e il Trip-Hop.

Bellissimo il viaggio sonico che s’intraprende negli undici minuti di psichedelia liquida di “Ocean Sky & Moon” (suonata quasi in stile primi Piano Magic), con un basso essenziale e prepotentemente assillante che, quasi richiama alla mente certi Pink Floyd mentre la voce di SiQue alterna fasi soffici ad altre più corrosive, inseguendo il ricordo della straordinaria Elizabeth Fraser (Cocteau Twins) sia nella timbrica sia nell’indole. E proprio lo stile di SiQue, capace di passare agevolmente dal singing più standard e Pop al più ricercato virtuosismo stilistico è una delle armi di questo Suono Fantasma che si avvale anche di un discreto lavoro di ricerca dei suoni, glitch Elettronici che sorvolano lidi di sperimentazione senza mai atterrare ma viaggiando dritti verso piste apparentemente più sicure. Un album che in taluni momenti (“Ocean Sky & Moon” e “Light Tendtrills) affascina sfiorando, se non la perfezione, certo un livello ragguardevole sia per esecuzione, tecnica e composizione sia per intensità emotiva e capacità di trascinare, ma che, nel complesso, non riesce a stupire veramente, né a trovare melodie che lascino il segno; l’indifferenza che resta alla fine dei diversi ascolti è il giudizio più schietto e sincero che si possa dare.

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Trophy Scars – Holy Vacants

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Per la band del New Jersey, la ricerca del sound perfetto, almeno secondo il punto di vista dei quattro, sembra finalmente aver portato a una meta che rispecchi le più rosee attese e, se non si può certo definire questo Holy Vacants un punto di arrivo, per i Trophy Scars si tratta comunque del luogo più alto di un’intera carriera. Holy Vacants aggredisce e miscela temi che vanno dalla mitologia, alle antiche religioni, passando per le più inquietanti teorie della cospirazione sul gene dei Nefiliti (popolo nato dall’incrocio tra figli di Dio e figlie degli uomini, citato nella Torah e non solo). Le parole sono prese a prestito dagli scritti di Jerry Jones, voce della band, il quale racconta la storia di due amanti che non solo hanno scoperto che il sangue degli angeli contiene la fonte della giovinezza, ma anche la formula del Qeres, antico profumo egiziano usato per la mummificazione e che è l’unica sostanza mortale per angeli e Nefiliti.  Se la narrazione muove attraverso queste vicende quasi come fosse un romanzo, da tenere d’occhio è sempre la natura metaforica dell’opera, che vuole sostenere i temi dell’idealizzazione della giovinezza, la perdita dell’identità e l’innocenza corrotta. Come indica lo stesso Jerry Jones, l’album è stato un modo per esorcizzare una persona dalla mente e dall’anima.

Holy Vacants doveva essere anche l’ultimo della formazione nata poco più di dieci anni fa a Morristown ma il valore raggiunto sembra lasciare aperti spiragli per una nuova vita. Blues Psichedelico che in realtà si muove attraverso le strade più disparate di Post Hardcore, Rock Alternativo, Prog e Screamo, creando un andirivieni stilistico che lascia senza fiato, per intensità ed efficacia. Eccezionale l’uso della voce e la timbrica inquietante di Jerry Jones che spinge attraverso una sezione ritmica prestante ma non invadente, chitarre che riescono a mostrarsi in tutta la loro bellezza esteriore al momento confacente, con brevi assoli polverosi e caldi che non disturbano l’incedere del sound. Oltre alla strumentazione classica, e l’uso di piano, organo e Moog, eccelso l’uso di tromba (Taylor Mandel), trombone (Caleb Rumley) viole, violini e violoncello (David Rimelis) e quant’altro che s’inseriscono quasi come ombre, come fantasmi, come angeli dentro la musica aiutando l’ascoltatore a immergersi in un mondo incredibile e fuori dal tempo. Le esplosioni Hard Rock non sono mai anacronistiche, anche se convincono molto di più i crescendo chitarristici (“Extant”) i passaggi più pulsanti e sostenuti (“Qeres”) e i Blues strazianti e poderosi (“Archangel”, “Hagiophobia”, Everything Disappearing”). Quasi dal sapore Industrial Stoner alcuni brani come “Burning Mirror” ma il meglio deve ancora venire e si manifesta nella seconda parte del disco, quando una “Chicago Typewriter” degna dei migliori Mars Volta, anticipa la sensazionale doppietta “Vertigo” / “Gutted”, che mette in scena un dualismo che sembra riassumere alla perfezione ogni cosa legata a tutto Holy Vacants. Per non farsi mancare nulla, l’album ci regala anche perle di semplice e orecchiabile Alt Rock moderno e vintage al tempo stesso nella forma e nel sound (“Every City, Vacant”) per poi chiudersi nell’eterea, quasi Dream Folk “Nyctophobia”, cantata dalla bravissima Gabrielle Maya Abramson, solo uno dei tanti ospiti di questo Holy Vacants. Dobbiamo infatti ricordare oltre ai cori, la voce extra di Adam Fischer in “Chicago Typewriter”, quella di Reese Van Riper in “Guttered” e di Desiree Saetia nella stessa e in “Crystallophobia”. Holy Vacants è un concept album che avrebbe dovuto raccontare la fine di una grande band forse troppo spesso ignorata e che invece suggerisce una strada buia e tenebrosa ma illuminata dalla speranza. Un concept che racconta una storia apparentemente lontana dalle vicende umane dell’uomo moderno ma che, in realtà, scava nell’interno della sua psiche, aiutando una catarsi necessaria per accettare le condizioni dell’esistenza senza alcuna paura verso l’ignoto.

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Il Re Tarantola – Il Nostro Tabacco Sa d’Amore

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Ho ascoltato un paio di volte questo nuovo lavoro de Il Re Tarantola senza Emma Filtrino, con la quale aveva realizzato le prime cose, e subito mi sono immaginato un personaggio simpatico e un po’ svampito, una specie di amicone che a trent’anni non sa che diavolo fare nella vita oltre ad essere felice e fregarsene. Poi ho udito ancora e mi sono cascate le braccia, ritrovandomi di nuovo tra le orecchie uno di quei grossolani gruppi indie italiani madrelingua; di quelli che non si capisce bene cosa dicano e sputano frasi a effetto di quelle che piacciono a un pubblico sempre meno attento alla sostanza e sempre più all’apparenza. Poi ho origliato ancora, ho capito che Il Nostro Tabacco Sa d’Amore (che richiama il precedente del 2011 Il Nostro Amore Sa di Tabacco) stava diventando una specie di droga per me e ho deciso che dovevo capire meglio questo stranissimo cantautore bresciano.

Il suo mix di Lo-Fi e Punk/Grunge attitude mette insieme con naturalezza i Nirvana e Daniel Johnston ma il cocktail che ne viene fuori è talmente sconclusionato e strampalato da avere un sapore del tutto nuovo. Come dice lo stesso Re in un brano, copia tanto male che sembra originale e le parole rendono perfettamente l’idea, alimentando anche il dubbio lecito se tutto sia ricercato con intelligenza o frutto di eccessi di spontaneità. Il Re Tarantola non suona semplicemente Lo-Fi ma ha la bassa fedeltà che scorre come un virus nelle vene; si registra i dischi in casa (anche se registrazione e mixing di questo sono stati fatti dallo stesso Manuel Bonzi al Castello di Gera studio di Breno), dischi che scrive per conto suo e fa lo stesso per video e quant’altro. Inseguendo una nuova tradizione indie italiota, alla bassa fedeltà aggiunge uno stile vocale che chiamare canto è un eufemismo, aggiunge qualche parola che richiami l’attualità mediatica, si atteggia a fiero perdente, gioca con le parole, con ironia e divertimento eppure suona più sincero di ogni Officina della Camomilla o Dente che possiate aver ascoltato negli ultimi tempi.

Il Re Tarantola è divertente senza doversi necessariamente atteggiare a profondo conoscitore della vita e senza doversi mostrare come un nuovo poeta maledetto per poveri senza cultura. È sincero e inadeguato, realmente imperfetto tanto che in certi momenti pare quasi di ascoltare dei perfetti incompetenti, gente che con la musica c’entra poco, anche se le melodie e le canzoni e i ritornelli e tutto quanto sono di un’amenità unica. Cosa c’è di eccezionale nella musica de Il Re Tarantola non è facile da dirsi. Di sicuro non bastano i testi evocativi, malinconici, spesso sbagliati anche nella forma (eppisodi al posto di episodi non si può sentire) e non è troppo originale la formula Folk/Lo-Fi che unisce chitarrine, tastiere e rullanti eppure ha un che di difficilmente riscontrabile in ogni altra nuova proposta. Un suono talmente genuino che riesce a trasformarsi in pura piacevolezza, la stessa avvenenza che riesci a vedere quando senti un bimbo incespicare nelle sue prime parole. Nirvana abbiamo detto e tanto Daniel Johnston e poi Folk e chitarre taglienti e fastidiose come in un certo Psych Garage Rock anni Sessanta tutto in uno stile semplice e assolutamente inoffensivo, totalmente depurato da ogni possibile violenza o aggressività sonica. Ascoltatelo per bene, è molto più di uno scarso cantante o pessimo musicista che non sa scrivere testi impegnati, immaginifici e cool. Molto più che un tizio che canta e suona male sparando cazzate che mettono allegria. Potrebbe anche essere una nuova via per l’Indie italiano, una strada da scoprire facendo retromarcia e prendendo coscienza dei propri limiti, con naturalezza, scoprendosi meno di quello che noi stessi vogliamo credere.

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