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Giuseppe Zaccardi e i De Rapage alle prese con il primo premio di Streetambula.

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Se ancora qualcuno non lo avesse capito, Streetambula altro non è che una costola di Rockambula nata come Contest/Festival lo scorso anno ma che si sta rinnovando in un Progetto teso a progettare gratuitamente eventi in tutto il centro Italia, per le band che ne richiedano l’iscrizione sempre senza pagare alcuna somma. Streetambula inoltre è Contest programmati in diversi momenti dell’anno (il prossimo poco prima di Natale in collaborazione con gli studi della QB Music) ma il suo cuore, quello per cui tutto lo staff, non solo di Rockambula, si adopera durante i dodici mesi, è il grande evento di Agosto.

La scorsa (prima) edizione è stata un successo di pubblico ma anche di partecipazione, grazie al coinvolgimento di tantissime realtà locali e non, dagli studi Acme, fino alle etichette V4V Records e Protosound, da una music selector targata Rockit, fino a redattori di Stordisco, Ondarock, Musicalnews. Quelle citate però sono state solo una minima parte di quello che è stato Streetambula che prima di tutto era ed è una gara tra band emergenti, una competizione dalla quale nessuno esce sconfitto ma pur sempre una sfida, con se stessi più che con gli altri. Dopo un pari merito con A’ L’Aube Fluorescente, a spuntarla saranno i De Rapage, i quali sceglieranno come premio un servizio fotografico offerto da Giuseppe Zaccardi, fin da subito entusiasta della nostra idea di Contest/Festival e che poi ha ribadito il suo apprezzamento: “L’esperienza Streetambula l’ho trovata molto positiva, apprezzo molto il fatto che si tratti di una manifestazione dedicata a chi fa musica propria a differenza di chi sceglie la facile strada della cover/tribute band che tanto va di moda adesso! Proprio in quest’ottica ho deciso di mettere in palio il set fotografico”.

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Qualche settimana fa, la band di Rock Scostumato teatina ha avuto la possibilità di godere del premio vinto sul campo e noi di Rockambula siamo andati a vedere cosa avrebbero combinato. Tra balzi impossibili in cave ascoste in mezzo ai boschi del Parco, spazi angusti tra salsicce e padelle unte e liquori improponibili in salotti lynchiani, Giuseppe Zaccardi è riuscito a tirare fuori l’anima da una delle più belle realtà del panorama Rock nazionale di quello che non si prende troppo sul serio ed ecco a voi il risultato: ” Farlo con i De Rapage (il set, che credete ndr) poi è stato particolarissimo, loro non fanno i matti, sono matti proprio! Scherzi a parte, belle persone, abbiamo passato una bella giornata insieme e il risultato è stato molto positivo, provare per credere! Un ringraziamento allo staff di Streetambula, a Silvio in particolare, ai De Rapage e a tutti i gruppi che hanno partecipato alla manifestazione”.

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Non è solo Giuseppe ad aver apprezzato perché anche la stessa Band ha scoperto di avere un cuore, anche se sporco, a modo loro: ”L’esperienza del set fotografico ha reso Giuseppe Zac uno di noi, del gruppo. Alla fine della sessione aveva imparato più parolacce di Ficurilli (voce del gruppo ndr) e aveva iniziato a parlare con le macchine fotografiche: SKEEEERZO!!! Oppure era Schillaci (il chitarrista più anziano ndr) che era troppo brillo per ricordarsi alcunché e si sta inventando tutto”.

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Effettivamente eravamo in montagna e non potevano scarseggiare né gli arrosticini tipici di ogni buona scampagnata abruzzese né il vino rosso, di quello fatto in casa. E se alla fine qualche foto sembra uscita come si deve, il merito è tutto di Giuseppe che intuisce la necessità di lavorare strenuamente, senza pause, prima che l’alcol faccia il suo effetto. “Dalle foto è evidente che eravamo tutti in relax completo, abbiamo discusso di ogni singola esposizione/diaframma/vi piace?/fa paura che ci si presentava”.

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Un’esperienza bellissima anche per noi, oltre che per i De Rapage, per la prima volta alle prese con un professionale lavoro di fotografia. “Essendo la prima sessione di foto del gruppo la cosa che ci è venuta spontanea è stata l’unica che sappiamo fare: rompere il culo a tutti, anziché con le chitarre con le immagini, però. Zac è stato grande.”

E se l’unico che sembrava sapere esattamente cosa stesse facendo era il solo Giuseppe, nessuno potrà rimproverarci lo scarso impegno, nostro e dei De Rapage, diligenti ed euforici come ragazzini al primo giorno di scuola. “Per la sessione non abbiamo esitato ad affettare cipolle sulle chitarre, svegliarci presto, bere liquori strani risalenti al ‘700 e fare davvero gli stupidi, sotto lo sguardo divertito di Zac, e più tardi, di Silvio Don Pi e consorte che sono venuti a trovarci. Bello, bello, bello.

Non posso che aggiungerne anch’io, e per farmi perdonare qualche minuto di ritardo, arrivo a quattro; bello, bello, bello, bello! Sotto a chi tocca.

Qui tutte le foto.

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Trupa Trupa – ++

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Devo ammettere di non essere mai stato troppo attento alla scena underground polacca eppure, proprio quest’anno, finisco per imbattermi in un paio di perle veramente niente male, considerando che, vado a memoria, prima di loro per me la musica polacca era, al massimo, le colonne sonore di Franz Waxman o le composizioni di Chopin. Poi, quasi per caso, mi capita di ascoltare prima il gioiello Drone degli Stara Rzeka, Cień Chmury Nad Ukrytym Polem, tra le migliori cose ascoltate nei mesi andati e poi questo più confacente e ordinario ++ dei Trupa Trupa. La prima cosa che ho notato è una sorta di bassa fedeltà volontaria per il corpo del sound e involontaria in alcuni passaggi, evidente nell’opera degli Stara Rzeka ma che si presenterà lampante anche nella chiusura della prima traccia di questo ++ quando il pezzo è troncato bruscamente e in malo modo. Certo, due indizi non fanno una prova ma mi viene il dubbio che nell’ex Polska Rzeczpospolita Ludowa l’attenzione alla forma sia meno maniacale che in altri lidi. Eppure non è certo questo quello che resta quando l’ascolto diventa reiterato, ossessivo, maniacale. Quello che emerge è una capacità di suonare moderni, attuali, quasi innovativi, senza scomodare troppo l’estro.

Il suono dei Trupa Trupa è tutt’altro che polacco, anzi pesca a piene mani dalla tradizione britannica più o meno datata, eppure mantiene intatta un’atmosfera cupa, cruda, che odora di Post-Punk post bellico, carico di rabbia e nero come una ribellione solo formalmente soffocata. Suona come la collera e la speranza di una Berlino divisa da un muro d’odio la traccia iniziale (“I Hate”) con le sue vibrazioni stile Joy Division, le sferzate elettriche, fredde come il vento nordico che soffia il nove novembre e invaso da schizofrenici passaggi irrealmente allegri. Concedendo all’album qualche attenzione in più di quanto siete abituati a fare potrete notare anche testi tutt’altro che banali, anche se spesso incentrati sul classico e (stra)abusato tema della morte mentre musicalmente, oltre che dagli anni 80, la band pesca a piene mani dalla psichedelia britannica, dal progressive, da Canterbury passando per il Krautrock teutonico, il Garage sixties e un’infinità di altre contaminazioni occidentali (“Felicy”, “Over”, “Sunny Day”, “Dei”, “Exist”) sfruttando le ritmiche ossessive per proporle in chiave danzereccia e travolgente (“Miracle”, “See You Again” che Arctic Monkeys e Babyshambles avrebbero volentieri preso in prestito per dare carica ai loro nuovi album).

Bellissimi anche i passaggi più eterei, Pop, armonici che talvolta somigliano a vere e proprie filastrocche e che mettono in mostra un lato apparentemente più nascosto dei quattro ragazzi, quello che si rivolge con più attenzione alla melodia e al sogno (“Here and Then”, “Home”). Qualche parola a parte merita “Influence”, traccia numero dieci e penultima della tracklist, talmente straordinaria da meritare nessuna parola e un silenzio ossequioso. Le voci (nell’album sono di Kwiatkowski, Juchniewicz e Wojczal mentre Pawluczuk si limita alle sole percussioni) diventano protagoniste di una lugubre poesia malinconica, e gli strumenti, compreso il sax di Witkowski che suonerà anche in “Dei”, disegnano solo un sottile paesaggio sullo sfondo, creando un’atmosfera inquietante ma allo stesso tempo pregna di sogno.

Un disco che meriterebbe più attenzione di quella poca che probabilmente avrà in un occidente incapace di scoprire, stupirsi, innamorarsi. Un album che spero possa non passare inosservato almeno a chi mi sta leggendo proprio ora perché se è vero che il popolo d’internet ha più strumenti a disposizione dei morti viventi seduti davanti alla tv per scegliere la propria musica, è anche vero che non sempre è capace di cogliere il meglio da una proposta tanto ampia.

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Deadburger Factory – La Fisica delle Nuvole

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Non c’è modo di parafrasare esaurientemente tutto il mondo che c’è dietro al progetto Deadburger.
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Nemesi – La Sottile Linea Grossa

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Che cosa rende valido qualcosa di modesto? Cosa rende speciale qualcosa apparentemente normale? E al contrario cosa trasforma il buono in mediocre?
Evitiamo di affrontare inutili approfondimenti su ciò che può legare la proposta della band con il nome scelto Nemesi, che può essere visto sotto diversi punti di vista, letterario, mitologico, cinematografico, pittorico e via discorrendo anche perché il termine, che altri non è che il nome della dea atta a distribuire la giustizia nel mondo, è diventato nel corso del tempo oggetto di “speculazioni” e interpretazioni diverse, diventando sinonimo di vendetta, ma anche titolo di un libro di Philip Roth e potrei continuare con un elenco interminabile di utilizzazioni non sempre lusinghiere. Molto più semplice è parlare dell’album numero due della formazione di Como (e Lecco) composta da Alessio Gentile, Alberto Riva, Moris Colombo, Fausto Tripaldi e Daniele Ferrara ma che in line up non manca di mantenere vivo il nome di Gilberto Valsecchi, voce nel primo album, “L’Alba dei Morti Viventi”, scomparso ad agosto di tre anni fa.

Il sound che caratterizza La Sottile Linea Grossa è un po’ il sunto di quello che è lo spirito e lo stile da sempre connaturato alla band e le diverse esperienze fatte in chiave live al fianco di band come Il Teatro degli Orrori, Linea 77, Sick Tamburo e Punkreas. Un Nu Metal estremamente classico (anche se non molti sono gli esempi noti da utilizzare per aiutare i non addetti ai lavori) con cantato in italiano che spazia da temi intimi che spesso si ricollegano alla scomparsa di Gilberto (“Fenice”, Evasione”) ad altri apparentemente più sarcastici (“Io Porto Sfiga”) o di denuncia non necessariamente sociale e impegnata ma anche più spicciola come quella rivolta all’attuale panorama musicale italiano. Crossover fatto con energia e attitudine Punk ma che non disdegna le ruvidezze, la tempra e la determinazione del Post Hardcore a stelle e strisce riuscendo comunque a esprimersi con una puntualità esecutiva non indifferente. Ovviamente il cuore pulsante dell’opera resta quello stile Metal alternativo all’italiana (quindi con testi e liriche ben in risalto) che ha fatto la fortuna (per modo di dire) dei Linea77 ma l’opera nella sua interezza presenta rimandi diversi anche a generi in parte lontani che talvolta si fanno manifesti (vedi introduzione Ambient e Post Rock), altre volte si celano dietro la potenza sonica.

Cantando in italiano, i Nemesi dedicano tanta attenzione al significato della parte testuale e anche se in Italia troppo spesso si fa l’errore di stare molto attenti a cosa si dice e a far si che il messaggio verbale giunga all’orecchio dell’ascoltatore che ci si dimentica che la poesia è qualcosa di diverso dalla musica e si mette in secondo piano la parte strumentale quando invece dovrebbe essere il principale strumento che un musicista ha per lanciare messaggi. Oltretutto, spesso puntare i riflettori sui testi rivela non tanto i nuovi Umberto Piersanti o Gianni D’Elia ma piuttosto parolieri ingenui, banali, qualunquisti e non troppo brillanti. Nel caso specifico siamo perfettamente nel mezzo e le canzoni passano velocemente tra meandri di frasi sarcastiche, pungenti e azzeccate anche come resa sonora e altri passaggi non troppo interessanti. A dirla tutta, quando i Nemesi cercano di fare i seri e si lanciano in accuse strampalate e pseudo rabbiose al “sistema”, rischiano più volte di perdere credibilità ma è innegabile che i già citati più famosi Linea77 pagherebbero oro tanti dei testi scritti dai Nemesi.

Ma cosa rende ottimo qualcosa di modesto? Molto semplice. Il dettaglio. E tra il caos pazzesco delle tracklist che non corrispondono nel Cd e nella cover, titoli e testi sbagliati nel libretto con conseguente adesivo messo sul cellophane con commento atto a sdrammatizzare, Cd che (per quanto apprezzabile l’autoproduzione tramite Musicraiser) si blocca fastidiosamente al minuto uno e trentadue e una registrazione non proprio impeccabile direi che l’attenzione al dettaglio non pare qui una peculiarità. La cosa conta e tanto anche se quello che più conta è la musica.

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Jules not Jude – The Miracle Foundation

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Tra la cover confusamente psichedelica con qualche simbolo inconfondibile e l’opening track (“Perfect Pop Song”) ordinaria, tutto lasciava avvertire l’immersione imminente nell’ennesimo ascolto di una band figlia dei Beatles con poca voglia di andare oltre. Proprio Lennon e Mc Cartney sono palesemente omaggiati in quella perfetta canzone Pop, almeno nel titolo, che ci apre la porta di The Miracle Foundation (tributo ribadito nel nome stesso della band e in altre circostanze) ma quello che troviamo dentro la stanza è meno polveroso di quanto mi aspettassi. Ammetto di non essere stato tempestivo nella scoperta dell’esordio di tre anni fa, All Apples Are Red, Except for Those Which Are Not Red, e l’occasione buona arriva proprio con questo secondo album. Ovviamente i tanti cambi di line up si fanno sentire, talvolta nel bene e altre nel male, ma quello che è certo è che i quasi trentasei mesi in giro per l’Italia e l’Europa a fare concerti hanno dato la possibilità ai bresciani di detergere il loro approccio con la materia Pop-Rock e, seppure il risultato sia ancora lontano anche solo da un’apparente perfezione, certo Simone Ferrari (voce, chitarre, piano, organo, tastiere), Andrea Buffoli (chitarre, sintetizzatore, effetti), Mauro Parolini (basso, percussioni) e Daniel Pasotti (batterie e percussioni) hanno fatto quel balzo in avanti per togliersi almeno dal gruppone, più numeroso di quello che si possa pensare, dei senza talento e senza idee che arrancano nella salita verso il successo, che non sempre è lo stadio di San Siro colmo di spettatori ma anche un sold out al Circolo degli Artisti.

Come la band di Liverpool, anche qui tanti sono i simboli in parte nascosti, a partire dal nome dell’album che si rifà a quello di un’associazione americana che si occupa degli orfani in India, usati dalla band, per poi sviluppare una forma espressiva che trova nell’abbandono il suo filo conduttore, pur non trattandosi specificatamente di un concept album. Con i Beatles nel cuore, i Jules not Jude riescono, però, a non suonare come l’ennesimo gruppo non accortosi che il 1970 è finito da un pezzo e rincorrono altre strade che li spingono verso una certa psichedelia a stelle e strisce con vaghe sfumature Folk e qualche frizzante passaggio Alt Rock più giovane. Dove però si riesce a limare un difetto palese delle prime cose targate Jules not Jude ecco che altre imperfezioni sembrano iniziare a galleggiare sul mare di note. Lasciamo da parte il discorso sull’originalità della proposta che ormai è merce rara quanto Yesterday and Today con la butcher cover in un mercatino dell’usato. Gli otto brani che compongono la tracklist sono diversi tra loro, ma solo all’apparenza, perché in realtà viaggiano tutti su un’onda di convenzionalismo pericoloso. Ogni cosa è suonata in maniera puntuale ma non c’è nulla che regali alla musica quel qualcosa in più che serve veramente per non passare inosservati. Tutto è buono ma niente è stupefacente e neanche le melodie sono totalmente trascinanti tant’è che faticano ad attecchire nella memoria anche dopo diversi ascolti.

A questo punto vi chiederete perché abbia affermato in precedenza che i Jules not Jude non sono senza talento e senza idee, visto che nell’ultima frase non ne sottolineo certo la riuscita dell’ultima opera. Il motivo è semplice. Come accadde per un’altra band prodotta dalla Urtovox, gli A Toys Orchestra (i quali prestano la voce di Enzo Moretto in “Raise the Hood”) anche se secondo dinamiche diverse, i primi due album, (nel nostro caso, The Miracle Foundation in particolare) hanno messo in luce in maniera più netta del solito le potenzialità inespresse che pareggiano i difetti. Poca sperimentazione, strutture troppo sbrigative, melodie non troppo ricercate e un po’ di confusione in fase di proposta sembrano irregolarità che il tempo, il lavoro e uno spirito autocritico possano risolvere in qualche modo, almeno in parte. Ovviamente le potenzialità potranno poi incanalarsi per una strada a me più gradita oppure seguire il solco già tracciato di chi quantomeno è riuscito a uscire dall’oscurità ma quello che è certo è che se non dovessimo più sentir parlare di loro, sarebbe davvero un peccato. Il Pop Rock dei Jules not Jude non è del tipo che adoro, come non lo è quello dei ben più celebrati A Toys Orchestra eppure come non faccio fatica a comprendere (attenti, non condividere) i consensi di pubblico e critica per la band campana, non sarei stupito se dovessi vedere lo stesso pubblico e la stessa critica acclamare, tra qualche anno, i bresciani Jules not Jude.

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Reveille – Broken Machines

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Una vocalità talmente fastidiosa che definirla unicamente brutta non rende minimamente idea di quello che intendo. Può qualificarsi tremenda la voce di Daniel Johnston o di Calvin Johnson (Beat Happening)?Certo che può, eppure non mi sognerei mai di dirli insopportabili anzi, sono due artisti che ammetto di adorare. Proprio per questo dovreste origliare anche solo la prima traccia, “Modern Pain”, per afferrare che intendo. Non è certo un caso il fatto che abbia citato la band Lo-Fi di Olympia perché quella che François Virot (vocals, guitar), Lisa Duroux (drums, vocals) e Guillaume Ballandras (bass) mettono sul piatto suona molto più che semplice ammirazione, omaggio, ispirazione o influenza. Qui siamo sul piano di una clonazione mal riuscita, malaccorto tentativo di teletrasportare nel tempo e nello spazio, neanche si trattasse dell’esperimento del dottor K., quel sound sporco targato Beat Happening. Anche quando François Virot (autore anche di alcune opere soliste e a nome Clara Clara) lascia le redini del canto alla più gradevole voce di Lisa Duroux (“Long Distance Runner”) sembra di assistere agli stessi avvicendamenti voce maschile/voce femminile dei loro padri artistici e la francese (la band Reveille è di Lione) Lisa quasi finisce per scimmiottare la deliziosa Heather Lewis.

Dentro questo Broken Machines recuperiamo tuttavia anche un’infinità di rimandi al Rock alternativo anni novanta (i Beat Happening partirono dai primi anni Ottanta prima di giungere al decennio in questione) e solo le suddette esorbitanti similitudini impediscono di rilevare questi altri pseudo atti di ossequio a un’epoca ormai passata. Messe da parte la voce irritante e intollerabile e le scopiazzature palesi potremmo cercare sollievo nelle melodie ma anche qui non ho idea di come poter salvare il trio transalpino. Anche quando le armonie soniche sembrano prendere una strada piacevole e riesco a non pensare allo stile canoro di Virot, pur essendo io consapevole amante di certe contorte, sinistre, deformi asimmetrie, non posso che piangere ascoltando come, in questo Broken Machines tutto sia stato fatto nel modo sbagliato. Apprezzo chi riesce, come i già citati Daniel Johnston o Calvin Johnson, ma anche a modo loro Guided by Voices o The Microphones, a fare della disarmonia un’arte ma non penso che chiunque giochi a proporre suoni sgradevoli possa essere considerato un buon artista. Alla fine, l’unica cosa che riesco a difendere è il coraggio di aver scelto una delle band più anticommerciali che ci sia nel mondo del Rock alternativo come punto di partenza ma sarebbe il caso di muoversi da quel punto.

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Addio alla Pirateria musicale. Forse. (Seconda Parte)

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Ricordate Napster, prima piattaforma di download fatta chiudere nel 2000 dalle grandi case discografiche con un clamoroso processo simile a quello più recente a MegaUpload?  In quel caso si è trattato di repressione da parte delle major, impaurite dal nuovo, confuse e senza controllo sul mercato. Negli anni di Napster iniziò lo sfacelo, una battaglia senza senso “all’illegalità” senza rendersi conto che, in fondo, la copia dei supporti c’è sempre stata. Poi vennero i social network, My Space e poi Facebook, che aprirono le danze soprattutto alla condivisione dei contenuti prodotti su altri siti. La rete divenne il principale strumento di diffusione delle proprie opere. L’industria musicale, in tutto questo, ha perso introiti per oltre 15 miliardi di euro (a fronte dei 25 mld registrati nel 1999, oggi solo 8 mld).

Ma la colpa è veramente del Download illegale? Dello Streaming gratuito? Secondo noi no!!! Dietro questo evidente bagno di sangue si nasconde l’inadeguatezza delle major; al cambiamento si è preferita la guerra. Guerra verso i loro stessi consumatori, cioè noi che amiamo la musica e per mancanza di soldi a volte la “duplichiamo”. In Italia, invece, da una parte c’è sempre stata l’incapacità della musica di diventare internazionale, dall’altra l’inadeguatezza verso le tecnologie e le nuove forme di comunicazione e marketing. Quello della musica è un indotto che, da Napster in poi, si è mosso senza una guida, senza una struttura. La grande industria non ha avuto la capacità di innovarsi, con nuovi supporti, duraturi nel tempo ad esempio o di alta qualità come ha fatto il cinema, e ha perso le redini del gioco e per questo oggi ci ritroviamo ad ascoltare brani in Streaming illudendoci che ci sia un ritorno del vinile. Adesso ci sono le macerie di quello che era e basterebbe la buona volontà per costruire un sistema nuovo da dove ripartire; forse mentre scrivo tutto questo, sta già accadendo. Vogliamo lasciare gli spazi disponibili ai nuovi magnati del sistema? Vogliamo accontentarci delle briciole di spotify?

In questa seconda parte riprendiamo il discorso affrontato qui riportando le interviste a Danilo Di Nicola (The Incredulous Eyes), Maurizio Schillaci (De Rapage), Umberto Palazzo (Santo Niente) e Marco Lavagno (Waste Pipes).

Danilo Di Nicola (The Incredulous Eyes)
Credo che per una band emergente sia quasi una risorsa. Molte fanno circolare la loro musica gratuitamente per farsi conoscere o la mettono in streaming pubblicizzandola sui social network. Non so se il discorso cambierebbe in caso di notorietà, credo dipenda molto dalla capacità del gruppo di trovare delle “alternative” al loro fare musica che non sia solo dipendere dalla vendita dei dischi, anche perché la prova del nove per una band per me rimane sempre il discorso dei concerti. Noi abbiamo fatto due dischi finora ma non abbiamo pensato minimamente alla possibilità di andarci in pari. Fare dischi è semplicemente un modo per fissare il momento musicale della band.

Maurizio Schillaci (De Rapage)
Io voto SCHEDA BIANCA. Chi ci perde è il disco come oggetto. L’artista ha solo qualche Rolex in meno. Nessuno vuole fare musica per avere uno stipendio da ragioniere, nemmeno chi sull’artista ci mangia. D’altronde se manco su Emule ti cagano, povero te. Soluzioni? Nessuna. Tamponi? Meno IVA sui dischi; riforma della SIAE; concerto gratis a chi compra il disco. La band più famosa del mondo non potrebbe mai chiudere Youtube o bloccare Emule. Non tutti sono “Metallica contro Napster”. La meteora in cerca di fama brucerà da cameriere nel forno di una pizzeria e amen.

Umberto Palazzo (Santo Niente)
Il download è un argomento di ieri. Lo streaming legale, nelle sue varie forme, lo ha superato. Non ha più senso riempire l’hard disc di giga e giga di mp3 quando buona parte della musica che si desidera si può ottenere con un click e organizzare per l’ascolto come meglio si desidera. Inoltre lo streaming ci segue sul telefono, come fosse un IPod e sull’autoradio anche via bluetooth. I vantaggi sono ovvi: non ci sono i tempi di attesa della ricerca e della disponibilità, non c’è l’usura dell’hard disc e quindi la vita del computer si allunga tantissimo, non ci sono problemi d’ingombro fisico, non si può perdere l’archivio. Se qualcosa non si trova, il player di Spotify legge anche i file locali, quindi va a sostituire iTunes al 100%. Il mondo è cambiato e la fruizione della musica pure. L’industria del disco è finita e non si può fare altro che prenderne atto. Non si tornerà indietro. E’ ovvio che i musicisti non guadagneranno più niente dai dischi, ma il vinile e il cd hanno regnato per meno di cinquant’anni, mentre la musica esiste da sempre. I musicisti faranno come hanno fatto per secoli, guadagneranno suonando. Non esisteranno più le rock star, le uniche star saranno solo quelle televisive. Sarà un lavoro con il quale si guadagnerà poco, tutto qua e il cambiamento è definitivo. Il mondo appartiene ai nativi digitali e basta vedere l’atteggiamento di un qualsiasi sedicenne nei confronti della musica per capire dove va il mondo. Rimpiangere i dischi è come rimpiangere il cilindro di cera di Edison: è solo una perdita di tempo. Il tempo speso bene è capire dove si va. Ovviamente rimane il mercato dei collezionisti, un mercato di nicchia, che può essere anche di parecchie migliaia di copie a disco, ma per quello basta la vendita e la produzione diretta. Il disco come prodotto di massa è finito per sempre e non credete agli articoli sul ritorno del vinile o altre scemenze: le vere cifre dicono tutt’altro.

Marco Lavagno (Waste Pipes)
Indubbiamente per una band come la nostra il download è un aspetto chiave della promozione. Una persona in più che scarica il nostro disco è potenzialmente una persona in più ad un nostro concerto, che (se è dotata della mia stessa filosofia) alla fine il cd magari lo compra pure. Non siamo i più indicati per parlare di “bilancio”, abbiamo tutti un altro lavoro e la nostra musica è e sempre sarà in promozione. In ogni caso i nostri spiccioli nel salvadanaio non ammontano con i dischi ma con i live nei barucci a somme di poche centinaia di euro. Se poi fossimo una band famosa o una meteora probabilmente non faremmo storie, rimarrebbe la nostra entità di live band. E ci basterebbe sentire il calore di migliaia di aliti addosso. O semplicemente gli occhi di ormai attempate ragazze ancora arrapate per i nostri vecchi e gloriosi successi.

Come avrete capito, c’è ancora tanta confusione in merito. Spesso non si riesce a distinguere il danno eventuale subito dalle major (che dovrebbero comunque capire che un ventenne che scarica 100 dischi, senza download non avrebbe speso certo duemila euro per gli stessi dischi) dal vantaggio dei piccoli autori indipendenti che non avrebbero modo di diffondere le loro opere se non gratuitamente. Sono pochi quelli effettivamente danneggiati dalla pirateria ma hanno tanto potere il quale resta abbastanza saldo attraverso i canali radiotelevisivi ma si frantuma sotto l’imponenza del web. Le major non lottano per i soldi ma per non veder svanire il potere di decidere cosa farvi ascoltare, chi far diventare famoso e chi dovrà essere il prossimo a riempire gli stadi. Stanno combattendo una guerra che non potranno mai vincere, la stessa guerra combattutta contro Napster prima e Megaupload poi, senza comprendere che, per mantenere intatto il loro potere, basterebbe lasciarsi trasportare dal cambiamento, magari abbassando a dismisura i prezzi dei dischi, ricondiderando quelli dei biglietti e del merchandising e liberalizzando la diffusione dei formati di medio-bassa qualità in streaming gratuito. Invece continuano la loro guerra lasciando che altri squali nuotino nel mare di internet in cerca di un facile pasto.

Nel frattempo i “piccoli” musicisti si apprestano a guadagnare qualche soldo gettandosi a capofitto sullo strumento più antico a disposizione di un artista. Il Live. Almeno loro hanno capito che il futuro della musica è un ritorno alle origini ben più antiche di un 33 giri.

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Twomonkeys – Psychobabe

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Due scimmie impazzite si nascondono dietro questo progetto elettronico spiazzante, irrazionale, folle che risponde al nome Twomonkeys. I fratelli Bornati di Brescia “cresciuti tra Berlino e Amsterdam” scelgono la strada dell’Elettronica “nuova” ma con la memoria ben salda agli anni d’oro del Post Punk e della No-Wave, il tutto sotto la guida attenta e la produzione di Asso Stefana (Guano Padano, Vinicio Capossela, Mike Patton). Preferiscono l’elettronica per raccontare un mondo allucinato attraverso le sue pulsioni, ma si discostano da quella più classica e danzereccia, scegliendone gli aspetti deliranti e caotici. Sperimentazione che in realtà non osa troppo, andando invece a compiere un lavoro certosino di ricerca dentro gli stili del genere, scegliendo le ritmiche e i suoni più adatti a rendere esattamente quello che il duo voleva e cioè un sound potente, ritmato, ossessivo e cupo senza le melodie e la strumentazione di Indie e Folktronica e neanche le ammiccanti e intelligenti note dell’IDM. La struttura portante è invece il Post Punk e il suo carattere decadente e quindi il Punk stesso mentre tutt’intorno ruota una serie di suoni che avvicina il duo ora alle strade della psichedelia, ora alle ritmiche geometrie del Math Rock, pur senza ricalcarne la smaniosa perfezione e l’uso smodato di tempi dispari.

La cosa che più sorprende di quest’album d’esordio è la varietà di stili che viene presentata senza tuttavia suonare mai confusionario e privo di una visione precisa. Tanta mercanzia che insieme restituisce precisamente l’idea di un’entità unica. Tutti i brani sono infarciti di un misto di giocosità infantile, surreale, onirica e macabra (“Melodrama”) che, talvolta, suona fortemente Jazz Club (“Moon”, “Psycho”). Sempre presente inoltre una maniacalità matematica in stile Battles, parallelismi rafforzati dall’uso della voce carica di effetti (“Psycho”), cosi come suonano evidenti alcuni rimandi al mondo Industrial teutonico e britannico anni 70, essenziale, cadenzato e ripetitivo (“Marshmellow”) o al Punk Rock frenetico di natura “Blitzgrieg Bop”, sapientemente miscelato alle ritmiche Drum’n Bass (“Fuckfolk”);  oppure ancora alla No Wave e il Post Punk più oscuro (“Crazy Drive”). Pochissime sono le tracce che richiamino in qualche modo alle moderne ovvietà dell’Indie Rock classico o del Folk Rock e Garage Revival (“More Space”) mentre più evidenti sono le attinenze con l’Electro Post Rock e la Glitch Music dei Matmos (“Crazy Drive”, “Cry”), maestri indiscussi della manipolazione sonora, e certamente non può essere tralasciato il paragone con la band sperimentale di Baltimora che risponde al nome di Animal Collective (“Refrain”, “She Knows”, “Sacrifice”) formazione in continua evoluzione tra le cui fila milita un certo Panda Bear e che ha fatto della varietà della sua proposta, sempre diversa ma sempre riconoscibilissima da un album all’altro, la sua caratteristica primaria.

Proprio gli Animal Collective possono essere visti come il miglior metro di paragone per i Twomonkeys che sono riusciti a rubare (con successo) quella capacità di suonare sperimentali senza doversi troppo allontanare dalle origini, di esprimere messaggi unici senza essere originali, di lasciar scorrere infiniti sfondi e scenari lasciando intatta l’immagine della propria musica. L’album si chiude con una sorta di omaggio al French Touch e ai Daft Punk (come se non bastasse) e la cosa sia vibra come l’esternazione di un certo modo di fare Elettronica (pur essendo due stili molto diversi) che guarda al passato, non inventa nulla eppure riesce a crearsi una sua identità ed è capace di stare tra la gente, sia nelle piste da ballo sia tra l’intimità delle cuffie. Un certo sistema di fare Elettronica che contraddistingue i francesi e farà la fortuna anche di questi Twomonkeys che rappresentano l’altro lato della medaglia, il suo volto animale.

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Teresa Mascianà – Shine

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Vivere a Milano comporta il dover convivere frequentemente con vedute nebbiose e giornate uggiose, tanto da maledire parecchi santi in paradiso e desiderare di emigrare verso sud. Teresa Mascianà invece a sud ci è nata e nella sua musica questo tratto è decisamente marcato e persistente. Il suo nuovo lavoro si chiama infatti Shine e racchiude nelle nove tracce, che lo compongono, tutta la luce e solarità della giovane cantautrice calabrese. Come la sua terra brulla e aspra e al contempo paradiso dalle acque cristalline quest’album offre sul piano musicale diversi pezzi interessanti e piacevoli come l’apripista “Have a Good Time”, molto happy Rock and Roll da giornata spensierata al mare, o il brano di chiusura “Carry me on” decisamente più intimistico e intenso nei suoni e vicino a tematiche più complesse come il suicidio. Alba e tramonto tutti in un disco con mezzo di tutto un po’, dallo scioglilingua eritreo direttamente da Asmara di “Gundo Senado” alla ballata Contry Pop “Melissa Knows”, che fa il verso agli esordi della giovanissima Taylor Swift, al brio frizzante della cassa che dona leggeri tocchi elettropop a “Away”. Se musicalmente Teresa e la band, che la segue fin dai suoi esordi i Donatori d’Organo, riescono a essere convincenti creando melodie orecchiabili, vivaci e accattivanti, ricche d’influenze molteplici dal Rock californiano alle sonorità africane, passando per il pop anglosassone, la parte testuale e vocale non fanno alttrettando un buon lavoro. Le nove tracce dell’album sono per il 90% cantate in inglese, ad eccezione del brano “Non Ci Penso Più”, e se non ci fosse stato questo brano probabilmente non mi sarei mai accorta della bella voce di Teresa, che nella translazione da italiano a inglese perde molto della sua corposità per risultare meno potente, a tratti stridente e nel complesso meno emozionante. Questa modalità di canto molto moderna nel gusto si perdono molte sfumature, che nel mondo del cantuatorato spesso fanno la differenza. Comprendo che l’inglese sia metricamente e musicalmente bello, comprensibile a un vasto pubblico, ma forse non è sempre la scelta ideale. Rimanendo sull’argomento “lingua” trovo che anche i testi vengano penalizzati dall’inglese in quanto non riescono a creare forti immagini e suggestioni, ma questa potrebbe anche essere semplicemente una scelta stilistica ed espressiva che predilige la semplicità e l’essenziale. La differenza tra un cantautore e cantastorie a mio avviso sta tutto nel peso delle parole semplici o complesse che siano. Il lavoro di Teresa è fresco, vivace ricco di spunti per tutta la parte musicale, ma un po’ zoppicante sui contenuti e sulle storie che raccontate, che non creano empatia e struggono l’animo. Un disco di mezzo che convince a metà, una buona capacità di scrittura musicale che ha bisogno di essere sostenuta da un migliore songwriting.

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Addio alla Pirateria musicale. Forse.

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Pirate

Mentre il mondo della musica si divide tra chi difende e chi attacca il download illegale, nel sottobosco della scena ultra emergente il free download diventa sempre più uno strumento utile per far circolare la propria musica e incrementare il numero di seguaci i quali, si spera, vedranno poi i concerti, compreranno il merchandising e supporteranno quelle stesse band che hanno messo la loro arte in condivisione gratuita. Ma qual è la strada e il futuro della pirateria musicale? Lo abbiamo chiesto proprio alle band che alimentano quel sottobosco, emergenti, esordienti, giovanissimi ma anche meno giovani che hanno iniziato a inseguire un sogno con un poco di ritardo senza tralasciare qualche nome ormai affermato, pezzi di storia dell’Alt Rock italiano che ancora hanno tanto da insegnare ai più giovani.

A loro abbiamo fatto queste semplici domande:

Download illegale. Pro o contro? Chi è la vera vittima del download musicale illegale? Come riuscite voi a far quadrare il bilancio, se i dischi non si vendono? Se foste la band più famosa del pianeta, oppure una meteora che deve trarre il massimo da quel breve periodo di notorietà, sarebbe la stessa la vostra posizione in merito al download illegale?

Ecco cosa ci hanno risposto:

Gianni Vespasiani (Fake Heroes e Too Late To Wake)
Non riesco a prendere una posizione netta a riguardo, si tratta di eterna lotta tra poesia ed economia. Economicamente (ovviamente) sono contro, ma pro se guardo alla mia posizione di artista emergente che come primo desiderio ha quello di far ascoltare le proprie produzioni. Chi è la vittima? Dipende di quale livello di notorietà si parli. In linea di massima sia le etichette che gli artisti sono vittime, soprattutto noi emergenti. Stiamo vivendo comunque una fase di cambiamento: i CD si vendono sempre meno e i fruitori pretendono accesso libero alla vasta proposta che c’è. Ecco perché il successo di Spotify. In teoria noi artisti dovremmo guadagnare almeno con i live e attraverso il merchandising, visto che i dischi non saranno più una forma di approvvigionamento economico. Qui si aprono due altri problemi: il monopolio della musica live e il disinteresse nell’inedito da parte della massa. Personalmente manterrei la stessa posizione in merito, facendone ovviamente una questione etica. Il primo obiettivo per cui ho imbracciato una chitarra non è stato quello di guadagnare. Proverei in entrambe i casi a reperire dai live il profitto necessario a proseguire il mio percorso artistico.

Alessandra Perna (Luminal)
Scarico dischi e non vedo perché altre persone non dovrebbero farlo con i miei. Se c’è un assassino quello è Internet, non del mercato musicale ma dell’arte in generale: ci ha dato la possibilità di non annoiarci mai, quindi ci ha tolto la possibilità di creare delle grandi opere d’arte. (E ci fa sentire tanto artisti sul web quanto siamo insignificanti nella vita reale.) Quando ci sarà un bilancio da far quadrare probabilmente starò facendo un altro mestiere. Se i Luminal diventeranno la band più famosa del pianeta poi ne riparliamo.

Lorenzo Cetrangolo (Plunk Extend)
Il download illegale ormai fa parte della vita di tutti, e non è certo compito mio giudicare se è un bene o un male. So solo che se un ragazzo di vent’anni dovesse comprare tutti i dischi che servono per rimanere veramente aggiornato su ciò che accade, avrebbe bisogno di qualcosa di più di uno stipendio mensile (ammesso che l’abbia). Le vittime del download illegale sono, economicamente parlando, etichette e artisti, ma questo è bilanciato da una più facile messa in circolo del materiale. Ci sono meno soldi per fare dischi, ma non credo che la musica ne abbia risentito più di tanto. Noi il bilancio non tentiamo neanche di farlo quadrare: avere una band è un progetto economico costantemente in perdita. È così e non c’è molto da fare: se te la senti lo fai. Io non riuscirei a farne a meno in ogni caso, quindi chissenefrega. Se fossimo la band più famosa del pianeta, avremmo mille altri modi per fare soldi, per cui sì, la posizione che avrei sarebbe la stessa.

Silvio Mancinelli (Straphon)
Sono contro l’illegalità perché chi produce deve essere ricompensato. La vittima é sempre la band. Non si quadra il bilancio se non sei la star. Sempre più spesso leggo di grandi gruppi inglesi o U.S.A. che fanno altri lavori . Chi fa deve essere pagato sempre.

Danilo Di Feliciantonio (Starslugs)
Sono pro download illegale perché qualsiasi cosa danneggi l’industria musicale mi trova favorevole. Si fanno quadrare i conti cercando di riappropriarsi dei mezzi di produzione, acquisendo sempre maggiori conoscenze tecniche e comunicative, evitando terzi e quarti passaggi che fanno lievitare i costi di realizzazione e vendita di un supporto. Si guadagna il rispetto di chi ascolta e si cerca di suonare dal vivo il più possibile per essere supportati, non “sopportati”. Non vorrei essere mai famoso o una meteora che deve monetizzare, se questo implica il dover correr dietro al primo che scarica un nostro pezzo o un nostro disco.

Angelo Violante (Borghese)
Niente ipocrisie: anche io scarico illegalmente. Con i sistemi tipo Spotify e Deezer ho diminuito per lo meno i sensi di colpa derivanti dal mio download selvaggio; di poco, visto la quota irrisoria e irridente di diritti che queste piattaforme restituiscono agli artisti. Penso che la soluzione di tutto sia la proposta live: sarei disposto a sacrificare la vendita se per me fosse facile trovare spazi adeguati dove suonare la mia musica e far pagare il mio concerto. Mina e Battisti hanno costruito imperi senza live, ora l’esigenza è opposta. E renderei obbligatoria una quota di trasmissioni in radio di produzioni italiane, come si fa con il buon vino o un buon formaggio, altre forme di arte nostrana.

Gianluca Torelli (Alvaro Van Houten)
Penso che per i download “illegali” bisogna applicare lo stesso discorso che si applica per fumo, alcol o qualsiasi altro bene illegale: tutto sta nelle scelte che noi facciamo, cioè, se vogliamo scaricare per fare uno sfregio a qualcuno o per necessità è dato solo a noi saperlo. Per il resto, io mi sento a favore del download musicale illegale perché credo sia un’evoluzione di quelle che una volta potevano essere le “cassettine” che ti facevi registrando le canzoni alla radio, inoltre, è un modo per reperire musica introvabile. E poi, le cose illegali sono più belle perché c’è l’innato fascino del proibito che è da sempre parte fondamentale dell’essere umano.

Nella seconda parte troverete le restanti interviste realizzate da me con Danilo Di Nicola (The Incredulous Eyes), Maurizio Schillaci (De Rapage), Umberto Palazzo (Santo Niente) e Marco Lavagno (Waste Pipes) più una introduzione affidata alle parole di Ulderico Liberatore in collaborazione con Silvio. A giovedì prossimo.

Di seguito una parodia del famoso spot antipirateria a metà tra il sarcastico, il divertente e il provocatorio.

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The Old School

Written by Interviste

Quattro baldi giovincelli che fanno un buon vecchio (e sano) Rock’n’Roll! Un po’ di Beatles, un po’ di Elvis e altri mattacchioni del genere”. Cosi si definiscono The Old School, una delle band di punta del panorama indipendente della Valle Peligna. Niccolò, Mario, Giovanni e Luca sono ormai una realtà affermata, nonostante la giovanissima età. Il loro segreto sta tutto nell’energia e nella metodica perfetta durante le esibizioni live, nella scelta di un genere oggi tornato tanto in voga grazie alle sue ritmiche travolgenti, nella tecnica sopra la media dei quattro ragazzi trattandosi di ventenni e nella scelta di puntare anche sulla composizione di pezzi originali, oltre che di cover. Scelta che lascia presagire la necessità espressiva e la voglia di andare oltre i tanti live in regione e magari fare breccia nel cuore di un pubblico più ampio.

Ciao ragazzi. Inutile chiedervi di presentarvi perché è praticamente impossibile non conoscervi. Iniziamo con un tema ancora caldo e che mi sta particolarmente a cuore. Il Contest Streetambula 2013 dello scorso 31 agosto. Siete saliti sul palco con una freddezza unica (anche troppa), esecuzione inappuntabile ma quinto posto su otto partecipanti. Che cosa è successo?
Dopo la serata abbiamo riascoltato accuratamente l’esibizione e siamo concordi nel ritenere che la nostra esecuzione sia stata perfetta… probabilmente troppo nel senso che il Rock’N’ Roll è un genere che richiede molta estemporaneità soprattutto dal vivo, l’emozione di partecipare ad un contest di così alto livello ci ha reso troppo esecutori e meno spensierati di altre esibizioni. In fondo siamo giovanissimi ed è tutta esperienza positiva. Questo può aver influito sul risultato seppure non riteniamo di essere stati inferiori agli altri gruppi arrivati prima di noi, bisogna considerare che per partecipare alla finale abbiamo superato in preselezioni gruppi validi.

Il vostro Rock’n Roll è indubbiamente spassoso e trascinante, soprattutto quando suonate dal vivo. Tuttavia molto spesso vi è rimproverata la quantità eccessiva di date live (spesso vicine nello spazio) che rischiano di diventare tutte troppo uniformi tra loro. Non avete timore di stancare il pubblico o di metterlo nella condizione di non riuscire ad apprezzarvi in maniera esaustiva, causa assuefazione?
Il rischio indubbiamente può esistere, però abbiamo avuto sempre buon riscontro da parte del pubblico che ci ha ascoltato anche in date ravvicinate. Inoltre abbiamo un repertorio che permette di coprire un tempo che va dall’ora fino a due ore e mezza, quindi riusciamo a miscelare i brani a seconda delle serate e del pubblico presente. Questo possibile problema scomparirà quando inizieremo a proporre scalette composte quasi esclusivamente di pezzi di nostra composizione, inoltre proprio in questo periodo abbiamo deciso di ridurre le date dal vivo per concentrarci su prove in studio per nuovi brani e qualche nuova cover non necessariamente Rock’N’Roll.

Altra rimostranza che vi è stata sollevata anche dalla giuria di Streetambula è la scarsa originalità in fase compositiva. Voi nascete come cover band Blues e Rock’n Roll. Pensate che questo possa aver frenato la vostra vena creativa?
Riguardo la scarsa originalità è un aspetto che può interessare tutti i generi e gruppi, riteniamo di essere comunque più originali di molte band che a primo ascolto potrebbero sembrare innovative, la realizzazione del cd ci permetterà di farci notare come band che sta prendendo una direzione sonora definita. L’ascolto attento di gruppi storici RNR e Brit Pop ci ha fatto comprendere che partendo da un modello si possono trovare combinazioni e sfumature che ti rendono molto originali.

Tuttavia mi avete confidato che ci saranno delle importanti novità proprio in questo senso (svolta Garage Revival?). Cambiamenti che potrebbero aiutarvi a farvi notare anche fuori dall’Abruzzo. Che cosa potete dirmi in tal senso?
Si certo, siamo in fase di continua ricerca sonora in questo periodo soprattutto in studio. L’utilizzo probabile di nuova strumentazione ci permetterà di rendere il suono più personale, Garage Revival è un’etichetta un po’ restrittiva di quello che stiamo creando, ma può andare bene per alcuni pezzi come filosofia sonora. Lo scopo è certamente quello di crescere e di toccare progressivamente realtà nuove al di fuori della nostra.

Nonostante vi troviate in una fase cruciale della vostra vita, qualcuno ha deciso di puntare su di voi e si è proposto di produrre il vostro primo album (Emme D Jey dei No Love Lost). Avete iniziato la registrazione ma non tutto è andato come doveva e l’appuntamento è prorogato. Che cosa è successo?
Da questo punto di vista siamo molto felici che Emme creda in noi e ci abbia proposto di produrre il nostro disco. Un supporto a 360 gradi in questo momento è fondamentale vista la nostra giovane età, in pratica possiamo concretamente ottenere un prodotto migliore da molti punti di vista, aspetto importantissimo per uscire dal nostro contesto usuale. In effetti, abbiamo conosciuto un nuovo aspetto della carriera del musicista, lo studio di registrazione che si è rivelato veramente ostico. Come dicevamo prima il RNR è una musica che dal vivo si esprime nella sua completezza ma ci siamo resi conto che la sua resa in studio è ostica nel senso che le registrazioni separate dei singoli strumenti rischiano di renderla fredda e asettica se non sono minuziosamente curate tutte le minime sfumature. Abbiamo deciso pertanto, con Salvatore Carducci di Musicalmente, dove stiamo registrando e a Emme D Jey di prenderci altro tempo per curare nuovi arrangiamenti e sonorità. E’ stato davvero un momento importante nel quale abbiamo fatto esperienza.

Da quanto ho capito, tre di voi quattro si sposteranno a Roma per studiare. Mi avete detto in passato di aver puntato forse troppo al live e poco alla sala prove eppure eravate a breve distanza. Ora come riuscirete a tenere unita la formazione e provare con frequenza e costanza?
Da questo punto di vista non si pongono problemi, ognuno di noi può gestire entrambi gli aspetti in maniera serena. Sappiamo che gli Old School sono per noi un momento fondamentale al quale non vogliamo assolutamente togliere spazio. Siamo grandi amici innanzitutto quindi ci intendiamo alla perfezione.

Scrivendo per diverse webzine nazionali di musica indipendente ho notato che molto spesso le formazioni di provincia vivono in una sorta di universo parallelo, fatto di autocompiacimento, che viaggia con ritmi più lenti rispetto alla scena indipendente nazionale. Si cercano spesso piccoli successi utili solo ad accrescere il proprio ego e si fa fatica a sfruttare le occasioni meno appaganti nel breve termine che possono presentarsi, pure per la difficoltà di accettare le critiche e i “No”. Questo anche perché poche band hanno un ufficio stampa dedicato e non si preoccupano di girare nei circuiti di webzine, riviste, locali, manifestazioni di stampo nazionale. Insomma, troppe hanno un approccio provinciale alla musica e la cosa è un ostacolo insormontabile verso il successo, che sia piccolo o grande, di pubblico o di critica ma comunque di livello nazionale. Ovviamente siete ancora molto giovani e la cosa non è di poco conto; ma com’è il vostro approccio nei confronti della scena indipendente? Pensate di essere abbastanza professionali o ancora troppo grezzi in tal senso?
Stiamo crescendo progressivamente ma la professionalità bisogna raggiungerla suonando e confrontandoci con nuovi contesti, in questo momento siamo consapevoli dei nostri mezzi ma sappiamo anche di dover prendere sempre esempio dai nostri modelli.

A questo proposito, cosa c’entra The Old School con Sanremo? È quella la strada giusta o solo una delle tante da percorrere sperando di arrivare chissà dove? Sapete dove volete arrivare e che tipo di band volete essere?
Sanremo rientra in un discorso di crescita professionale, una possibilità di capire meglio come può giudicarci un contesto diciamo “classico” e non proprio tradizionalmente RNR. Siamo perfettamente consapevoli di che band vogliamo essere nonostante la nostra giovane età, l’importante è cercare di lasciare un segno in chi ci ascolta.

Pensate di essere dalla parte del pubblico (con poca puzza sotto al naso ma anche molto volubile e sempre pronto a riprendersi la fama che ti ha dato, in un attimo e senza troppi scrupoli) o della critica (che si sforza di spingere chi ha davvero le qualità per emergere ma è spesso troppo lontana dai gusti della gente)?
Il confine tra pubblico e critica in fondo non è così marcato e siamo convinti che con la nostra musica possiamo lasciare un segno importante.

Ultima domanda. Sfondare in Italia è quasi impossibile e chi ci riesce, non è quasi mai il migliore e chi lo merita davvero. E allora perché lo fate?
Perché la musica è una parte irrinunciabile della nostra vita, avete detto bene è “quasi” impossibile, chi merita comunque può avere una chance importante.

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Stephanie

Written by Interviste

Silvio “Don” Pizzica ha incontrato Stefania D’Amato, in arte Stephanie, cantante e cantautrice abruzzese (ma nata in terra americana) che insegue il sogno della celebrità per poter raccontare al mondo, il mondo che gira dentro la sua anima. Stephanie ci ha spiegato come è nata e si è evoluta la sua vita artistica e ci ha detto di più sulla sua voce, le sue parole e la sua musica indicandoci quale sia quel sogno che insegue da tanto tempo.

Ciao Stephanie. Per prima cosa, come stai?
Alla grande, grazie

Iniziamo con una domanda di una banalità imbarazzante. Il tuo vero nome è Stefania D’Amato ma hai scelto di cambiarlo artisticamente in Stephanie. Serviva davvero questa scelta per dare compimento alla tua proposta?
Sì, era necessaria e strettamente connessa alla mia tendenza a scrivere in inglese e a prediligere anche nell’ascolto pezzi di origine inglese, americana, canadese, volevo dare una coerenza alla lingua che uso nei miei testi (questo è il motivo principale), l’altra ragione è legata a una sorta di rivalsa per un nome che avrei sempre voluto mi venisse dato dai miei genitori (sai che sono nata negli Stati Uniti) che hanno invece preferito la “versione” italiana.

È la prima volta che il tuo nome compare tra le pagine di Rockambula eppure sono diversi anni che navighi nel mare della musica emergente. Che rapporto hai con la stampa e la critica di settore? Che canali prediligi per raggiungere il maggior numero di persone possibile?
Con la stampa ho buon rapporto, sarà perché finora le critiche sono state tutte positive! Ahaha  scherzo… decisamente un buon rapporto, la stampa e le tv locali mi seguono e sono sempre attente all’evoluzione della mia carriera. Poi qualora arrivassero critiche costituirebbero per me uno spunto per capire dove sto sbagliando, in cosa migliorare. Per diffondere la mia musica utilizzo i comuni social network Facebook e Twitter e la piattaforma di Youtube.

Non voglio certo essere inelegante rivelando la tua età ma non posso negare che tu non possa essere annoverata tra gli esordienti. Eppure sei ancora alla ricerca di una casa discografica e di un produttore. Credi che sia veramente cosi importante oggi avere una casa di produzione alle spalle?
Credo sia molto importante se non addirittura fondamentale,prima di tutto perché con una casa di produzione arrivi a mercati che con un’autoproduzione puoi solo sognare e anche per ovvie ragioni di natura economica. Per i miei due album Follow the Dream e Follow  the Dream vol.2 ho curato con le mie risorse la stampa  e la distribuzione e so cosa vuol dire in termini economici investire in un progetto musicale

Nelle esibizioni live ti accompagnano diversi musicisti. Vuoi presentarceli?
La band che mi accompagna attualmente è cambiata (se non per il batterista) rispetto alla precedente. Ma sono soddisfatta da questa formazione, siamo tutti molto affiatati e uniti, ci divertiamo tanto insieme. Alla chitarra ho Fabio Rosato, al basso Kristian Serafini e alla batteria la roccia del mio gruppo che è con me dall’inizio di quest’avventura, Giovanni Giannantonio.

Nella tua musica misceli alla perfezione le melodie del Pop, sia in lingua italiana che in inglese, alle ritmiche del Rock, sempre lasciando in primo piano la voce, assoluta protagonista. Cosa distingue la tua proposta da quella di tante altre ottime cantanti che circolano nel mondo della musica emergente?
Nelle mie canzoni ci sono io, le mie canzoni sono la mia lingua e la musica è il suono della mia anima che si racconta e narra la sua storia. Le mie canzoni hanno un filo conduttore che è il sogno inteso come realizzazione di se stessi e di quello che profondamente si desidera essere nella vita.  Racconto una verità. E’  questo ciò che mi distingue, perché quella verità è solo mia.

Cosa c’è di speciale nella tua voce?
Non so se la mia voce è speciale o no, la mia voce è solo uno strumento per comunicare qualcosa di forte, quello che sono e che sento, poi se essa è gradevole tanto meglio, ma non spetta a me dirlo

Nonostante i due album siano autoprodotti, c’è una notevole attenzione al supporto. In merito a questo, perché i due album “Follow the Dream” hanno lo stesso nome, Volume 1 e Volume 2? C’è un legame particolare tra i due lavori? Non è cambiato nulla in te, sia a livello espressivo che compositivo ed esecutivo tra i brani dell’uno e dell’altro?
Follow the Dream è stata una scommessa, avevo un entusiasmo tale quando iniziai a scrivere i miei primi pezzi che volevo farli conoscere al mondo intero. Da “Brand New Eyes” che è il primo testo che ho scritto, (la musica è di Andrea Tirimacco)  sono venuti fuori altre sei canzoni che ero in ansia di far conoscere ma non erano sufficienti per far uscire un disco , così ho deciso di registrare alcune cover di alcuni brani che ho sempre apprezzato e da qui è uscito il 1° volume. Il 2° volume è nato poco dopo perché avevo altri pezzi che nel frattempo avevo scritto che ho aggiunto a quelli contenuti nel vol.1. Ma ci sono altre due ragioni che spiegano l’uscita del 2° volume: un mio drastico cambiamento d’immagine che avrebbe destato confusione tra i seguaci, il desiderio di far capire a chi mi apprezzava che mi sentivo diversa e più decisa nel mio cammino artistico che stava iniziando a percorre  una direzione più consapevole; l’altra ragione è legata alla la produzione di una serie di videoclip  relativi ad alcuni miei pezzi che era giusto avessero un posto in una riedizione dell’album

Sempre in merito all’album Volume2, ho notato che oltre ai 10 brani, il supporto contiene tanti contenuti extra come clip, video in studio, live, interviste e tanto altro. Oggi che il Cd sembra sempre più in via d’estinzione, almeno come strumento di diffusione di massa, quale pensi che sia il futuro della musica? E quello del Cd?
Io credo che anche se  nel prossimo futuro il cd potrebbe essere rimpiazzato da supporti ben più moderni, è fisiologico che poi si tornerà a riutilizzarlo, come ultimamente si è tornati a scorgere i vinili sugli scaffali dei negozi, anche il cd tornerà ad essere apprezzato come lo è ora

Che rapporto hai con i nuovi strumenti di condivisione, gratuita e non, come Spotify, Soundcloud, Reverbnation, Youtube?
Ho il mio canale Youtube di cui “abuso”, nel senso che non posso farne a meno: è il principale veicolo di diffusione della mia musica, con un click puoi essere visto in ogni parte del mondo. Grazie al mio canale e alla visibilità che mi ha dato sul web, ho ricevuto  ad es. ordini del mio cd dagli Stati Uniti, dal Messico, dal Brasile

Assodata l’impossibilità a guadagnare vendendo dischi, agli artisti non resta che ripiegare con le date live. Tuttavia sempre più locali scelgono, per fare il pienone, pseudo Dj o cover/tribute band. Tu che hai anche fatto cover di brani famosi pensi che siano questi i nuovi nemici della musica indipendente ed emergente?
Purtroppo devo constatare che molti locali quando ti proponi come cantautore con i tuoi pezzi invece di apprezzare la grandezza di questa cosa, di complimentarsi per avere un progetto proprio di inediti, sminuiscono ciò che fai chiedendoti un repertorio vario che abbia soprattutto cover. E’ una realtà contro la quale si scontrano continuamente i cantautori come me. Tuttavia credo che proporre pezzi propri dia una soddisfazione impagabile all’artista che ha la fortuna di poterli presentare.

Quali artisti hanno ispirato la tua musica e a quale voce pensi di poter accostare, con rispetto, la tua voce?
Ascolto prevalentemente musica di artisti/e canadesi, americani ed inglesi. Con molto rispetto nei suoi confronti perché l’ammiro e la stimo smisuratamente, personalmente trovo che il mio timbro ricordi quello di Elisa. I miei fan concordano ma mi accostano spesso anche ad Alanis Morissette, Dolores O’ Riordan, Avrile Lavigne e Taylor Swift.

Chi pensa possa essere il tuo ascoltatore ideale?
Chiunque ascolti musica Pop/Rock, che ami il genere melodico adattabile all’acustico. Credo di avere un pubblico abbastanza eterogeneo, giovani e adulti senza distinzione.

Non è solo l’amore al centro dei tuoi testi (che scrivi tu stessa). Come trovi l’ispirazione per creare le liriche?
Come rispondevo ad una delle domande precedenti, nelle mie canzoni racconto me stessa, il cambiamento che ho subito grazie all’incaponimento nel perseguire il mio sogno chiamato musica. Nelle mie canzoni non ho filtri e credo che altre persone possano rivedersi in ciò che scrivo , in fondo il mio sogno consiste fondamentalmente nel voler trovare la mia dimensione, un modo di esistere che mi appaghi che si manifesta naturalmente cantando e comunicandolo nelle mie canzoni

La musica invece è scritta da Andrea Tirimacco. In che modo mettete insieme le vostre idee per creare una canzone? E che cos’è una canzone?
I testi delle mie canzoni sono scritti di mio pugno, la capacità di Andrea che stimo moltissimo come musicista e come persona sta, nel capire immediatamente che tappeto musicale possa sposarsi con ciò che scrivo e con semplicità raggiungere alti livelli di comunione musico testuale. Il nostro processo creativo è sempre stato molto naturale, come se la sua musica dialogasse con le mie parole, come se parlassero la stessa lingua. Una canzone è un pezzo di te racchiuso in una storia, è la voce del tuo cuore, è il manifesto della  visione che hai del mondo esterno ma soprattutto del tuo mondo, è una vibrazione del tuo spirito, “piccoli spiriti che vogliono farsi ascoltare, storie fatte di zucchero e sale “– Le voci nel cuore (Follow the dream vol.2)

Dove speri di poter arrivare, sognando e dove credi che sarai, tenendo  i piedi per terra, tra 10 anni?
I sogni ti portano lontano e almeno nella dimensione onirica raggiungi vette che nella realtà sembrano inarrivabili, ti danno quell’ottimismo necessario ad osare, a tentare di realizzare qualcosa “escaping pregiudice and loss of faith” (“sfuggendo al pregiudizio della gente e alla mancanza di fiducia che la gente può dimostrarti” – Follow the Dream  (Follow the Dream vol.2) – Insegui il sogno. Per citare la mia artista preferita “l’anima osa”: la volontà della tua anima di realizzare un sogno ti dona il coraggio di provarci a far sì che esso diventi una realtà, di buttarti, di osare.

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