Silvio Don Pizzica Tag Archive

Orval Carlos Sibelius – Super Forma

Written by Recensioni

Se non è un centro pieno, ci manca veramente poco. Il parigino Axel Mannoaud, in arte Orval Carlos Sibelius, dopo i più che convincenti barocchismi dell’esordio omonimo e dopo il suadente Pop psichedelico di Recovery Tapes, riesce anche questa volta ad ammaliare pur senza sforzarsi di suonare troppo originale. Il Pop di Super Forma poggia su tappeti sonori tutt’altro che puliti, spesso rumorosi e gracchianti, con distorsioni antichizzate che aumentano il fascino delle basi dalla forte matrice classicamente popular. Le intelaiature strumentali hanno il fascino adatto ad accompagnare la mente attraverso viaggi spirituali e lisergici, in mondi industriali e tangibili. Super Forma sembra un disco che avrebbero potuto fare i Beatles se suonassero ancora oggi, pieno non solo delle melodie che hanno fatto la fortuna dei mitici Fab Four ma anche delle derive psichedeliche e allucinogene di echi, di voci corali, canti leggiadri e sublimi, effetti basilari, altalene sonore quasi teatrali. È dunque la psichedelia cosmica, che già sembra suggerita dalla copertina, a fare da materia primordiale per la costruzione di Super Forma mentre soprattutto le melodie vocali s’incuneano in meandri di note liquefatte cercando di dare una struttura più solida, Pop appunto, alla musica, generando motivi immediatamente riconoscibili e fruibili dal più ampio pubblico possibile.

A primo impatto saranno tantissime le evocazioni che l’ascolto lascerà trasparire nella vostra mente, tutte da riferirsi a un’epoca d’oro per la musica e riecheggianti nella variegata strumentazione utilizzata dallo stesso Orval Carlos Sibelius (che non disdegna neanche il glockenspiel o altre bizzarrie del tipo) ma anche dai diversi musicisti che lo accompagnano. Si andrà dunque dalle maestosità della scena di Canterbury (“Spinning Round”) fino alla più apparentemente semplice cornice Pop sia britannica e tendente alla danza (“Archipel Celesta”, “Good Remake”) che statunitense e più Folk; si va quindi con scioltezza dai Beatles fino ai Byrds (“Desintegraçao”, “Bells”). Addirittura sembrerà di assistere al compimento di un nuovo gioiello targato Morricone in alcuni brani (“Desintegraçao”, “Asteroids”) mentre la psichedelia diventerà padrona del palcoscenico (“Sonho de Songes”, “Cafuron”, “Huong”) specie dei momenti strumentali che sembrano rifarsi con forza al Progressive italiano, oltre che inglese e statunitense (“Super Data”). Altri apparenti omaggi al passato si avranno in alcune derive funkeggianti e Surf (“Asteroids”) ma la cosa che, in modo molto contraddittorio, sarà più interessante sotto l’aspetto della modernità del sound Super Forma sarà proprio l’utilizzo degli espedienti di un genere (se si vuole definire tale) che trova le sue caratteristiche nella riscoperta di sonorità datate e nella riproposizione di certi suoni, senza ripulirli da quella patina di antico che può essere anche un’imperfezione distorta. Se Super Forma non può certo definirsi un album Hypnagogic Pop, è altresì innegabile che proprio i mezzi di questa nuova corrente che sta facendo la fortuna di Neon Indian o Washed Out, tanto per fare qualche esempio, sono con cura proposti dentro le undici tracce facendo si che da materia non certo innovativa e giocando con il logoro e l’usato, si possa presentare un’opera dal sapore moderno e nello stesso tempo di mirabile valenza arcaica.

In chiusura l’immancabile ghost track, anticipata da una traccia vuota, sarà lo strumento per riassumere tutte le considerazioni possibili su Super Forma, attraverso una canzone/non canzone che si sviluppa in un crescendo vorticoso, nevrotico e psicotico. Per molti questo di Orval Carlos Sibelius sarà l’ennesima prova di un artista incapace di staccarsi dai fasti del Rock di qualche decennio fa ma chi ha dimestichezza con le novità, non farà grosse difficoltà a scoprire tra queste anticaglie soniche piccole gemme, opere d’arte moderna.

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Silvio “Don” Pizzica. Streetambula!

Written by Interviste

Per una volta non siamo noi ad intervistare ma sono gli altri ad intervistare noi. Simona Pace di Zac settimanale del Centro Abruzzo ha incontrato il nostro Silvio “Don” Pizzica per parlare di Streetambula, che come saprete è la costola di Rockambula che si occupa di organizzare contest e serate live senza scopo di lucro con l’unico obiettivo di dare spazio agli artisti emergenti, creare luoghi in cui questi possano esibirsi e una rete che leghi tutti quelli che credono nella musica, quella vera. Ne è uscita fuori una bella chiacchierata che getta una luce di speranza in un panorama che sembrava sempre più desolante e che parla apparentemente dell’Abruzzo e del Centro Italia ma in realtà racconta di tante provincie (e non solo) italiane.

In cosa consiste l’ufficio promozione di Streetambula?
Dopo la conclusione del contest del 31 agosto, noi di Rockambula e i ragazzi di Nuove Frontiere (le due forze di Streetambula), abbiamo avuto modo di parlare a lungo con i partecipanti; band, giurati, espositori e pubblico. Tutti erano soddisfatti dell’organizzazione e della riuscita della serata. Per questo ci siamo detti: “Perché non dare un seguito a questa cosa che vada oltre il contest?”. E cosi è nato il Progetto Streetambula. Quello che facciamo in concreto è raccogliere le iscrizioni gratuite da parte delle band del centro Italia che devono fornire solo una biografia, delle foto e informazioni utili che finiscono sul nostro sito (ogni band ha una sua pagina); più i contatti di almeno tre locali che ospitano musica dal vivo emergente, indipendente e originale. Noi, quindi, incontriamo questi locali caldeggiando le band del progetto. Garantiamo loro partecipazione alle serate, cachet economici e tantissima promozione, anche grazie all’appoggio del portale Rockambula nel quale possiamo inserire le news dei live ed eventuali report delle serate più riuscite. In pratica Streetambula è due anime; Music Contest in periodi dell’anno precisi mentre per 365 giorni è Progetto volto a organizzare live nel centro Italia per i suoi iscritti.

Come è nata l’idea e quali gli obiettivi?
Da qualche anno ho assistito al sempre crescente interesse verso la musica indipendente di qualità nella nostra zona. Ho notato il numero elevato di persone che gravitano intorno al mondo della musica e non parlo solo di musicisti ma anche di realtà molto più complesse, solitamente lontane dalla provincia. Intendo studi di registrazione, webzine (Rockambula ha sede legale a Goriano ma il direttore, Riccardo Merolli e il caporedattore, che sarei io, viviamo a Pratola Peligna), etichette indipendenti, uffici stampa e di promozione e potrei elencare tante altre belle realtà, in questo senso. Mi sono sempre chiesto come poter mettere in contatto queste realtà per far tornare anche nel pubblico e nei gestori dei locali l’interesse verso la musica originale ed emergente e l’occasione buona si è avuta quando le idee mie e di Riccardo hanno incontrato quelle di Piergiuseppe Liberatore e tutta l’associazione Nuove Frontiere. Abbiamo quindi creato Streetambula con la scusa del contest ma con l’idea che sarebbe potuto diventare qualcosa di più, che permettesse ai giovani di avere i giusti spazi per esprimersi e aiutarli ad avere i mezzi per realizzare i loro sogni. Non a caso il Progetto Streetambula (che di Streetambula è appunto la parte organizzativa) nasce senza alcuno scopo di lucro (nessuna quota d’iscrizione e nessuna quota sulle serate; l’unica cosa che ci guadagniamo è promozione e visibilità) e i nostri contest prevedono sempre premi di spessore che servono ai gruppi per completare e continuare i loro peculiari percorsi artistici.

Siete riusciti già a creare una rete?
Abbiamo iniziato da poco ma, grazie al tanto lavoro e i tanti contatti che abbiamo grazie al sito Rockambula, possiamo dire che una rete già esiste. Vanno ancora rafforzati alcuni punti cardine e vanno allargate le trame ma possiamo dirci più che soddisfatti di come si stanno mettendo le cose. La rete è comunque in continua espansione, le band possono iscriversi in qualunque momento. La fase attuale è quella di contatto con i locali. Diciamo che il Progetto Streetambula ha quattro protagonisti. La stampa come voi e come noi di Rockambula che deve dare risalto alla cosa; le band e gli artisti che devono iscriversi. E fin qui possiamo dire che le cose procedono egregiamente. Poi ci sono i gestori di locali, perché senza di loro Streetambula può fare tanto ma non abbastanza; e quindi il pubblico che dovrà supportare le band e partecipare alle serate. Speriamo di non dover scoprire che uno di questi quattro protagonisti è il nostro nemico perché sarebbe non la nostra rovina (non ci fermeremo comunque) ma una sconfitta per la musica tutta.

Quanti gruppi o anche solisti si sono affidati al vostro servizio per ora?
Al contest tenutosi ad agosto scorso, parteciparono ventuno band, di cui una dalla Slovenia. Solo otto arrivarono in finale. Al Progetto Streetambula invece partecipano, per ora, quattordici band. Nel frattempo stiamo raccogliendo le iscrizioni per la sessione invernale di Streetambula Music Contest, che garantiamo, sarà emozionante per chi suonerà e per chi potrà ascoltare. Sempre per il progetto, abbiamo invece i contatti di oltre trenta locali.

Puntate a farvi spazio e ad agevolare la visibilità dei musicisti anche fuori l’Abruzzo?
Per quanto riguarda i contest non c’è alcuna limitazione territoriale e infatti, come ti dicevo, alle preselezioni hanno partecipato band, non solo da fuori Abruzzo ma anche da fuori Italia. Certamente, giacché le finali si svolgeranno, almeno per ora, solo sulle nostre terre, è più facile che a partecipare siano band corregionali a noi. Per quanto riguarda il Progetto Streetambula, il discorso è più complesso. Anche qui non mettiamo nessun paletto alla provenienza, anzi l’idea è di abbracciare tutto il territorio dell’Italia centrale. Ovviamente, garantendo noi anche partecipazione alle serate nei limiti del possibile, non possiamo negare che, questi limiti tendono a ingrandirsi a mano a mano che ci si allontana dalla Valle Peligna. Tuttavia Streetambula ha tanti organizzatori anche fuori dall’Abruzzo e siamo certi che, se ce ne sarà bisogno, qualcuno di noi potrà gestire anche eventuali situazione extra regione che dovessero presentarsi. Inoltre, sempre grazie a Rockambula possiamo promuovere le band partecipanti ai contest e al progetto attraverso recensioni (ultima quella dei Ghiaccio 1) sempre tuttavia imparziali, interviste e altro che sono lette da un pubblico vasto proveniente da tutta Italia come è quello di Rockambula, appunto.

Streetambula Contest: un bilancio dell’evento estivo, quali le aspirazioni future?
Il bilancio è ottimo. Tutto è andato esattamente come ci si aspettava anche grazie ai tanti partner che ci hanno sostenuto e gli amici che ci hanno aiutato con le foto (Alessandro Baroni), il sito Web (Andrea), i trailer e i video (Andrea Puglielli), la promozione e ogni immancabile problema che si è presentato è stato risolto immediatamente. È andata benissimo anche la sezione artistica, dove hanno esposto sia artisti e fotografi locali sia provenienti da tutto l’Abruzzo. Abbiamo anche avuto qualche disapprovazione, a volte condivisibile, altre volte meno.  Quello che posso garantire è che tutto è stato fatto nella maniera più trasparente possibile e le poche critiche che ci hanno tirato addosso, le prenderemo come un modo per fare meglio il prossimo anno. Del resto, se anche una critica è ingiusta, sarà comunque utile se presa come uno spunto per migliorare perché chiunque può sempre fare di più e questa è la nostra prima aspirazione, fare di più per la musica e per il territorio.

Da come mi hai fatto capire è in programma un evento invernale di Streetambula, dimmi un po’!
Hai ragione. Infatti, faremo meglio non dal prossimo anno ma già da quest’inverno. Stiamo organizzando un nuovo contest dal titolo Happy Birthday Grace (Streetambula Winter Session). In occasione del ventennale di Grace, mitico album di Jeff Buckley, Streetambula mette in palio la partecipazione all’album tributo che sarà realizzato e distribuito dagli studi milanesi di Qb Music. La band che vincerà il contest avrà diritto a registrare gratuitamente uno dei brani (che sarà assegnato dalla stessa Qb Music) contenuto nella tracklist di Grace presso gli studi di Milano. Avrà inoltre a disposizione un rimborso spese pari a € 100,00. Il brano, insieme con quello di altre nove band, andrà a completare la tracklist dell’album tributo a Grace che sarà poi distribuito dalla Qb Music. Ancora stiamo decidendo location e data e soprattutto sono in corso le preselezioni. Quindi, iscrivetevi numerosi. Vi aspettiamo.

Qual è la filosofia che caratterizza il vostro operato, cosa vi spinge a questo impegno?
Per quanto riguarda me e Riccardo, è la stessa filosofia che ci spinge a gestire, sempre senza scopo di lucro, una webzine di carattere nazionale come Rockambula. È l’amore per la musica, più nei suoi aspetti emozionali che non ultratecnici e freddi, che ci spinge ad ascoltare anche trecento dischi l’anno, pubblicare news, andare ai concerti, fare interviste, interagire con etichette e uffici stampa, scrivere articoli, recensioni, report e quant’altro. Adoriamo la musica vera, che sia Elettronica, Industrial, Pop o Rap. Adoriamo la musica tutta purché non si tratti di cover. In quel caso la questione si fa spinosa. La filosofia di Nuove Frontiere invece è nota ormai da anni a chi vive a Pratola e dintorni. Tutti i ragazzi, da Alessio a Piergiuseppe, da Duilia a Fabiolino, da Matteo a Luca, da Pino a Nicole e Francesco, da Lorenza a Stefano (scusate se non nomino tutti, ma sono veramente tanti) sono sempre stati attivi, nei modi più disparati, per animare la cittadina e la sua piazza, organizzare feste, eventi, dare una mano e soprattutto rendere viva Pratola. Lo spirito è quello. Divertirsi e far divertire i bambini come i ragazzi e gli adulti (pensate ai giochi popolari in piazza durante la Street by Street) e soprattutto farlo non tra fredde quattro mura ma nelle piazze. Nuove Frontiere è partecipazione attiva, impegno sociale e amore per la Valle Peligna. Streetambula è il riassunto di Rockambula e Street by Street (l’evento principale di Nuove Frontiere), amore per la musica che incontra l’amore per le proprie terre e le sue piazze. Non a caso la prima edizione si è tenuta proprio in piazza Garibaldi.

Musica indipendente = cultura: vi state rendendo conto che state mettendo su un movimento culturale altro, puntate e in che modo a svilupparlo?
La grandezza di quello che stiamo facendo è solo il risultato del tanto che abbiamo fatto in passato, sia con Rockambula sia con Nuove Frontiere e che magari è meno sotto gli occhi di tutti. Musica (indipendente ma non solo) è uguale a cultura. È innegabile. Ma cultura è anche libertà e partecipazione. Sono concetti legati tra loro. Inutile scrivere recensioni su Rockambula se nessuno le legge, inutile organizzare eventi se le persone restano sedute al bar di altre piazze a guardare la partita e lamentarsi di quanto sia noioso vivere a Pratola. Nessuno dovrebbe essere schiavo dei suoi preconcetti, dei pregiudizi, delle sue false convinzioni, delle cattive abitudini. Purtroppo quello che fa più male è scoprire che persone a te vicine, conoscenti, amici, ragazzi che ritenevi potessero avere gli stessi tuoi interessi alla buona riuscita di Streetambula (contest e progetto) t’ignorano, non ti considerano e magari ti criticano in maniera cattiva, senza apparenti motivi. Tutti dovrebbero capire che Streetambula non è nostra ma è di tutti e che se Pratola Peligna o qualunque altro paese cominciasse a brulicare di musica, cultura e gente a guadagnarci sarebbero tutti, dal ragazzo che suona in una cover band perché solo cosi trova spazio e cachet dignitosi da queste parti, alla band arrabbiata per l’esclusione dalle finali, dal negozio di generi alimentari che non regala il minimo contributo perché non ha nulla da guadagnarci, all’appassionato di cinema che di musica s’interessa poco.  Come dicevo prima, Streetambula ha quattro protagonisti e tutti hanno la stessa valenza. Se solo uno di questi viene meno, il Progetto Streetambula può dirsi concluso, almeno per come lo conosciamo ora. Ma non sarà un fallimento comunque, perché almeno sapremo contro chi combattere.  Sapremo se la musica ha un nemico al suo interno e a quel punto dovremo portarlo dalla nostra parte oppure trovare il modo di sconfiggerlo. Noi crediamo in ognuno di questi protagonisti e sappiamo che Streetambula diventerà un movimento culturale e un centro nevralgico per tutta la scena musicale indipendente d’Abruzzo e chissà, magari di tutta l’Italia. Nessuno può essere nemico della Musica.

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The Martha’s Vineyard Ferries – Mass Grave

Written by Recensioni

Grandi nomi si celano dietro quello un po’ strampalato (poi si spiegherà tutto) del progetto statunitense The Martha’s Vineyard Ferries, trio dalla potenza e dal sound unico. Ci sono la voce e la chitarra di Elisha Wiesner, già con Kahoots discreta e misconosciuta band Alt Rock del nuovo millennio. Poi c’è il basso di un certo Bob Weston. Proprio lui. Uno dei tre Shellac, tra le più grandi band Post Hardcore mai scese sul pianeta terra e la creatura più nota del genio di Steve Albini. Bob Weston, tecnico degli strumenti nel capolavoro dei Nirvana, In Utero e membro, oltre dei già citati, anche di Crush Senior, basso e tromba, Mission of Burma, tape manipulation e loops dal 2002 e Volcano Suns, basso dall’87 al 92. A chiudere il trio meraviglioso Chris Brokaw, batterista e membro di band come Come, Consonant, Dirtmusic, Empty House Cooperative, The New Year, Pullman, Snares & Kites e soprattutto Codeine, una delle più clamorose stupefazioni dello Slowcore.

La nascita della band è delle più banali che si possano trovare cercando nelle biografie dei loro colleghi. “Tutto iniziò come uno scherzo”. Sono parole che accompagnano un’infinità di progetti e anche in questo caso calzano a pennello. Tutto iniziò come uno scherzo e divenne una cosa seria quando, nel 2010, per la Sick Room Records, The Martha’s Vineyard Ferries tirò fuori il primo Ep, In The Pound. E la storia comincia. La cosa più ovvia che ci si possa aspettare, viste le premesse, è che la musica gettata in questa fossa comune sonica sia un avvicendarsi delle diverse esperienze antecedenti dei tre membri ed effettivamente sono svariati gli elementi che possiamo riscontrare nei brani che accomunano stilisticamente i The Martha’s Vineyard Ferries ora alla potenza grezza del Post Hardcore di Shellac (“Wrist Full Of Holes”), ora alle ossessioni ritmiche dello Slowcore dei Codeine (“One White Swan”). E lo stesso ragionamento è replicabile per ognuna delle formazioni tirate in ballo nell’introduzione alla recensione. Eppure il sound che disegnano i tre yankee finisce per somigliare a tutto senza sembrare nulla di preciso. In talune circostanze pare di assistere alla prigionia soffocante di uno spirito Punk Hardcore (“Parachute” e la fantastica “Blonde on Blood”, una cavalcata elettrica verso la morte) nelle gabbie liquide e mentali del Folk psichedelico (“Wrist Full Of Holes”, “One White Swan”) e del Pop (“She’s a Fucking Angel (From Fucking Heaven)”, “Look Up”). Ogni brano è essenziale, potente e semplice allo stesso tempo, con tanti riff assolutamente lineari e per nulla sperimentali, ritmiche al limite dell’ossessione ripetitiva e melodie vocali spesso azzeccatissime, tanto che non sfigurerebbero in brani più delicatamente democratici. Molto interessanti anche i passaggi più complessi (“Ramon And Sage”, “One White Swan”) nei quali la musica mostra una maggiore varietà e la voce scende in territori abissali e inquietanti, abbandonando le tonalità più alte che caratterizzano i pezzi di più facile ascolto e impatto sul pubblico più sobrio. Un disco straordinariamente robusto che ha il solo grande demerito di avere una durata eccessivamente ridotta (circa ventidue minuti), la quale finisce per mettere sotto i riflettori altre debolezze come la spaccatura netta tra le scelte mainstream di alcuni brani e gli interramenti nelle oscurità dell’Alt Rock più angosciante. Inoltre, è molto stimolante la scelta di dare una vena psichedelica alle chitarre (vedi opening track) ma la stessa non è quasi mai proposta con efficacia. Il sound, nella sua globalità, sembra avvolto in una nebbia, come se ci fosse una patina di note a oscurare l’udito; questo rende necessario diversi ripetuti ascolti affinché sparisca o meglio si trasformi in qualcosa di apprezzabile e non restare un chiaro difetto.

Un gran disco, un bel pugno a un certo modo di suonare oggi che però poteva essere una bomba, con un po’ di coraggio in più. Stavo dimenticando. The Martha’s Vineyard è semplicemente il nome dell’isola di Elisha, raggiungibile solo tramite traghetti (ferries). Come vi dicevo, anche in questo caso, basta aspettare per far sparire la nebbia che sia sonora, di comprensione o che quella fisica, fresca e bagnata che immagino possa levarsi al mattino sulle rive di un’isola del Massachusetts.

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The Child of a Creek – The Earth Cries Blood

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L’assolo di chitarra Hard Rock che apre questo The Earth Cries Blood, ammetto avermi suscitato le stesse reazioni che può evocare una spezia esotica, pungente e inaspettata che si appoggia alle papille mentre gusti un piatto che pensavi di conoscere in tutte le sue varianti. Un sapore sgradevole all’impatto, che non oseresti mai centellinare come elemento portante del tuo pasto ma che si rivela un contraltare efficace per dare corpo e vigore a quel piatto che hai assaporato centinaia di volte.

The Child of a Creek (letteralmente, Il Figlio di un Torrente) è il nome dietro al quale si cela Lorenzo Bracaloni, trentacinquenne Folk Singer multi strumentista toscano che ha esordito solo nel 2005 con l’album, interamente autoprodotto, Once Upon a Time the Light Through the Trees con il quale ha subito evidenziato alcune sue peculiarità. Fra tutte la capacità di impreziosire una musica estremamente semplice e lineare grazie all’uso di una strumentazione quanto più variegata e, talvolta, bizzarra se paragonata alle classicità del Rock, specie nostrano. Se appunto, nell’esordio, alle chitarre acustiche, elettriche e slide venivano affiancate armonica, flauto, organo, piano elettrico, timpano, rullanti e percussioni varie come scatole di legno e bottiglie di metallo, già nel secondo lavoro “Unicorns Still Make Me Feel Fine” si passava a nuovi strumenti come una piccola balalaika russa suonata a percussione, un piano a muro Steiner, una vecchia chitarra Folk e un bodhran del Nord Irlanda. E cosi è sempre stato, a mano a mano che The Child of a Creek passava da una label all’altra, da un palco all’altro, da un album e una compilation all’altra fino ad arrivare a quest’ultima fatica fortemente apocalittica, The Earth Cries Blood. Quasi quarantatré minuti nei quali emerge tutta la parte emozionale, spirituale della musica del cantautore; si evidenzia una necessità espressiva che suona come canto liberatorio che leghi l’uomo alla sua terra. Anche in questo caso è utilizzata una strumentazione variegata per rendere appieno le intenzioni dell’artista. Quindi, oltre alle ovvie chitarre acustiche ed elettriche, troveremo flauto, piano, piano elettrico, organo, arrangiamenti d’archi e sintetizzatori. Come detto, questo è presentato come il lavoro più autobiografico targato The Child of a Creek ed effettivamente, Lorenzo Bracaloni è riuscito perfettamente a rendere l’idea della fase tormentata della sua vita che ha fatto da contorno alla composizione dei brani, ma, nello stesso tempo, ha rilevato la comparazione con la sofferenza della terra, intesa come madre trascendente e mistica prima ancora che naturale.

Se l’elemento Folk e la strumentazione multiforme e mutevole sono lo scheletro di tutta l’opera, l’anima è certamente racchiusa nella vocalità che, già dalle prime battute (“Morning Comes”) ma anche in diversi momenti seguenti del disco (“Journeys of Solitude and Loss”), ricorda un certo Tim Buckley, con le ovvie distanze da prendersi soprattutto sotto l’aspetto prettamente tecnico. In realtà sono diversi i brani che racchiudono ben nascosti alcuni rimandi alle opere più Folk del geniale cantautore e sperimentatore di Washington, a volte solo in alcuni scorci vocali, altri in brevi cenni di chitarra classica. Altro fattore di notevole interesse solo gli elementi elettronici, i synth, il piano e tutta la strumentazione accessoria che sembra avvolgere gli undici brani, alcuni più (“Remembrances”, “My Will to Live”) altri meno, in una nebbia magica, inquietantemente rassicurante, più che dare sostanza alla musica evocata dalle chitarre classica ed elettrica. Quando l’atmosfera si fa più conturbante, il cantato più soffuso e le note più ammalianti The Earth Cries Blood si scioglie con efficacia nei cliché del Neofolk (“Leaving this Place”) dei grandi maestri (Current 93, Death in June, Nature And Organisation) avvicinando in parte più le atmosfere bucoliche e sognanti di Ataraxia che non le reminiscenze storiche degli Ianva! o la potenza espressiva degli Spiritual Front. Nella parte centrale troviamo i brani meno impegnativi, soprattutto sotto l’aspetto empatico, dove ritroviamo quegli assolo di chitarra di cui parlavo (“The Long Way Out”, “Birds on the Way Home”) che fatico ad apprezzare presi nella loro singolarità ma che, nel contesto, riesco a sopportare e quasi mi fanno risaltare nelle orecchie il resto dell’ascolto. L’ultima parte inizia con “Don’t Cry to the Moon”, pezzo che vede la stupenda partecipazione della britannica Andria Degens, eccelsa voce già autrice di alcuni album a nome Pantaleimon ma nota soprattutto per le sue collaborazioni con la fenomenale creatura Apocalyptic Folk di David Tibet chiamata appunto Current 93. Da questo momento inizia una fase in cui la musica pare gonfiarsi di speranza, acquista una discreta energia e si evolve in un Dream Pop leggiadro, più denso e carico di contenuti difformi. La chiusura con la title track è tra i passaggi più toccanti di tutto il disco; carico di passionalità, le note dei diversi strumenti utilizzati si alternano in una carnale danza che sembra quasi un atto sessuale tra la terra e la vita, un ultimo canto che come un pianto si fatica a capire se nasconde gioia o sangue e quel sangue si trasformi in vita o morte. Oltre tre minuti interamente strumentali che chiudono degnamente un album che nasce tra infinite difficoltà che vanno oltre quelle personali del suo autore. Trovare band o cantautori che riescano a suonare Neo Folk senza sfociare nella caricatura di loro stessi o dei pochi nomi che sono riusciti nell’impresa di emergere dalla massa oppure senza finire nelle ridicolaggini anacronistiche o nei richiami nostalgico/politici assurdi; scovare band che sappiano fare musica che si possa ascoltare con un certo interesse, non è cosa facile nel piccolo mondo del genere Neo Folk. The Child of a Creek è, dunque, più che una felice scoperta e passano in secondo piano alcuni limiti, come le melodie non sempre puntuali e accattivanti o l’eccessiva alternanza tra atmosfera ed energia che finisce per non lasciar trasparire con convinzione né l’una né l’altra. Un album gradevole e nulla più se immerso nelle immensità dell’oceano musicale internazionale ma che, nell’acquario della scena Neo Folk italiana (ma non solo), può ergersi come assoluto protagonista.

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De Rapage – Si Sveglia la Mattina e ti Gode Davanti

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Quando qualcuno ha sollevato dubbi sulle capacità tecniche dei De Rapage o sul fatto che durante l’esibizione di Streetambula avessero sputato troppe parolacce, il mio primo pensiero è andato ai mostri sacri del Rock (Iggy, Johnny, Lou, Jim, Kurt, Giovanni Lindo, e tutta la compagnia dell’inferno). Quand’è che i giovani, soprattutto ma non solo, si sono dimenticati di che cosa significa questa parola, Rock, perdendosi nella mediocrità del tecnicismo puro e del politicamente corretto (o fintamente scorretto)?

Se c’è un motivo quasi oggettivo per cui valga la pena avere tra le mani una copia di ogni singolo lavoro targato De Rapage ma anche di fermarsi a guardare le locandine dei loro spettacoli, visitare le pagine web, facebook, i blog, vedere i video e le foto, questo è dato dalla maniacale cura con la quale gestiscono gli elementi visivi come, ad esempio, l’artwork sempre di pregevole fattura che contraddistingue le copertine, i booklet e tutto quanto riporti la firma dei suddetti. Saranno più che contenti e soddisfatti i fortunati presenti alle finali di Streetambula del 31 agosto dove i vincitori (appunto, i De Rapage) hanno regalato circa cinquanta copie di questo Si Sveglia la Mattina e ti Gode Davanti, realizzato in collaborazione con i Pastori Sardi in Licenza. Anche questa volta, Ficurilli e soci non hanno deluso le aspettative di chi si attendeva un lavoro degno di nota, in tal senso.

Poi c’è la musica, quello che più conta; ma andiamo con calma. Chi sono i Pastori Sardi in Licenza? Semplicemente il seme che ha fecondato la cittadina di Chieti che poi ha cagato i De Rapage. Nati idealmente nel 1995 dalla mente di Francesco Ficurilli, poi cantante dei De Rapage e Luigi Marrone, hanno visto la loro espansione con l’aggiunta di Fabio La Torre e infine Alfredo Iannone. Le caratteristiche della loro proposta sono semplici. Innanzitutto suonano rigorosamente chitarre classiche e acustiche e cantano a turno (“come il cazzo”, citando lo stesso Ficurilli). In fase di stesura e composizione il punto di forza è l’immediatezza; partendo da una frase, una situazione o un personaggio reale o inventato, compongono brani per lo più improvvisati. Ed è proprio questa estemporaneità che darà luogo a componimenti dalla demenzialità assolutamente fuori dal comune, proprio per la sua apparente totale irrazionalità. Non vi sono mai palesi riferimenti ideologici, politici o sociali dietro i testi ma solo la voglia irriverente di divertirsi senza farsi alcun problema a fare a pezzi ogni piedistallo che possa elevare chiunque, fosse anche il Papa, Cristo o loro stessi.

Il progetto Pastori Sardi in Licenza non ebbe un seguito diretto e la nascita dei De Rapage, con la succitata presenza di Ficurilli appare, in quest’ottica, come un segno divino della necessità di dare nuova vita alle deliranti proclamazioni di quei quattro folli. Come le emorroidi dopo uno stronzo particolarmente ostinato e tosto. I De Rapage attingono a piene mani dal repertorio dei loro “padri” e scelgono nove pezzi che ripropongono alla loro maniera. Rispetto al precedente Sberle, sono messe da parte le tante contaminazioni sonore e i pezzi sono proposti  attraverso le tecniche del più classico Alt Rock, comunque svariando da ritmiche più aggressive e Hard a passaggi più dolci, quasi giocosamente infantili. La follia dei Pastori viene dunque amplificata dalla potenza sonica dei De Rapage che ancora una volta si mostrano all’altezza della situazione.

Esclusi alcuni pezzi come “California Dream Gay” e “Siringhe Perforanti” tuttavia, proprio la spontaneità e il cazzeggio allo stato puro sono anche il limite di questi pezzi, stesso ostacolo riscontrato nei precedenti lavori dei De Rapage, nei testi molto simili a questi targati Pastori Sardi in Licenza. Non sempre e non a tutti riescono a strappare sorrisi proprio perché le parole suonano come casualmente e totalmente fuori dagli schemi e il nonsense di taluni passaggi spinge piuttosto seguire le linee melodiche fregandosene del significato dei vocaboli, nella consapevolezza che oltre a non nascondere grossi contenuti ci sia il rischio di non sfociare neanche verso il divertimento dato da qualche frase ad effetto. Le stesse melodie mancano di orecchiabilità facile ad attecchire sul pubblico meno esigente e la forma canzone più classica si contorce alla ricerca di una configurazione più appropriata, più volte senza risultati efficaci. Perché tanta attenzione allora, nei confronti di questa band? Perché, per prima cosa sanno come costruire fisicamente i loro prodotti, tanto per tornare all’iniziale discorso sull’artwork. Secondo perché sanno suonare insieme (ma anche in senso assoluto) e molto bene, nonostante non abbiano le possibilità di provare frequentemente con formazione al completo (quando lo fanno però lo fanno sul serio). Terzo perché aiutano a sciogliere quella patina di snobismo e spocchia che contraddistingue un certo tipo di musica e i suoi seguaci. Quarto perché il limite dato dai testi è parzialmente giustificato dal fatto che c’è una piccola differenza tra quelli presi in prestito dai Pastori e quelli originali degli album precedenti che vi consiglio vivamente di ascoltare per verificare voi stessi le differenze stilistiche. Infine perché la loro dimensione ottimale è quella del live. Frase abusata che qui diventa dogma. Non è possibile disgiungere i brani da quello che sono suonati dal vivo ed io ho avuto la fortuna di essere sia al concerto di presentazione di Sberle che di questo Si Sveglia la Mattina e ti Gode Davanti. “Progetto Cane Morto” non ha senso senza Ficurilli che “offende” gli animalisti, “California Dream Gay” perde valore se prima non è introdotto da un vaffanculo corale del pubblico pungolato dal palco. La loro irriverenza e demenzialità non ha lo stesso rilievo se non vi ritrovate nel complesso di voci di quelli che mandano a fare in culo Zappacosta e la sua t-shirt del cazzo (letteralmente) e Schillaci. O Jimmy e Pasquale.  Aggiungete una ricerca melodica più puntuale e testi magari meno variegati, ma più lineari e meno cazzoni e avrete una band clamorosa. Ma poi non avreste più i De Rapage.

Cinque squilibrati che fanno i cazzoni ma sanno anche loro che potrebbero insegnare tanto ad una marea di ventenni se solo questi ricordassero cos’è il Rock!

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InSonar/Nichelodeon – L’Enfant et le Ménure / Bath Salts

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L’ultima cosa che avrei voluto fare è pronunciami su un prodigio di tale portata. Avrei preferito solo godermelo ma inevitabilmente è questo il modo migliore per farvi sapere che, in Italia, (già proprio nell’Italia de I Cani, Lo Stato Sociale, Vasco e Liga), qualcuno è capace di tirare fuori opere d’arte di pregevole fattura e totalmente slegate dalle logiche di mercato anche minime. Dietro tutto ciò c’è Claudio Milano nelle vesti della neonata creatura chiamata InSonar e di una vecchia conoscenza dell’Avant Prog, i Nicheloden.

Andiamo per ordine cercando di racchiudere in meno parole possibile tale progetto che in realtà avrebbe necessità di un tomo di oltre mille pagine per essere raccontato in modo esaustivo.  Lo split è composto di quattro cd per due parti. La prima è intitolata L’Enfant et le Ménure (il bambino e l’uccello lira) ed è realizzata dagli InSonar. il potere dell’immaginazione infantile che trasforma l’orrore in meraviglia. Sono i bambini a raccontarci delle fiabe per aiutarci a non avere paura del buio, dentro e fuori. Questo il tema. I due cd sono avvolti in un booklet per la prima metà in bianco e nero contenente alcune opere di Marcello Bellina (in arte Berlikete) e quindi mosaici di Arend Wanderlust. Il progetto di Claudio Milano e Marco Tuppo vede la partecipazione di sessantadue musicisti da tutti i continenti tra cui Elliott Sharp, Trey Gunn & Pat Mastellotto, Walter Calloni, Paolo Tofani, Ivan Cattaneo, Nik Turner, Dieter Moebius, Thomas Bloch, Ralph Carney, Dana Colley, Graham Clark, Richard A Ingram, Albert Kuvezin, Othon Mataragas & Ernesto Tomasini, Nate Wooley, Burkhard Stangl, Mattias Gustafsson, Werner Durand & Victor Meertens, Erica Scherl, Michael Thieke, Viviane Houle, Jonathan Mayer, Stephen Flinn, Angelo Manzotti, Roberto Laneri, Vincenzo Zitello, Elio Martusciello, Thomas Grillo, Pekkanini, Víctor Estrada Mañas, Eric Ross, Takeuchi Masami, Gordon Charlton, Francesco Chapperini, Luca Pissavini, Fabrizio Carriero, Andrea Murada, Andrea Illuminati, Max Pierini, Lorenzo Sempio, Andrea Tumicelli, Nicola De Bortoli, Francesco Zago, Michele Bertoni, Alex Stangoni, Michele Nicoli, Stefano Ferrian, Alfonso Santimone, Luca Boldrin, Andrea Quattrini, Beppe Cacciola, Simone Zanchini, Paola Tagliaferro & Max Marchini, Raoul Moretti, Pierangelo Pandiscia & Gino Ape.

Il primo disco intitolato appunto L’Enfant è un tripudio di sperimentazioni Progressive e vocali che partono da atmosfere giocose e fanciullesche per svilupparsi in arie più languide, tenebrose e inquietanti. Si passa da cantati in latino, alla lingua italiana, dall’inglese al francese, dal Progressive più classico, alle digressioni psichedeliche e cosmiche, passando per motivi fiabeschi e lisergici o melodie più Pop, sempre alla maniera di Milano. Tutta la prima parte è dedicata ai membri familiari, per poi rivolgersi a Dio o agli amici e la resa musicale è rifinita da una strumentazione variegata e, a volte, inusuale. Pensiamo al marimba (una specie di xilofono di legno), al theremin, la fisarmonica, la tabla, l’arpa, il didgeridoo (una specie di lungo e grande flauto), il glockenspiel, altri strumenti fatti in casa, altre bizzarrie etniche, oltre ovviamente a cose più consuete, per modo di dire. Si passa dai testi del compositore francese Charles Gounod, a brani totalmente originali targati Claudio Milano e/o Marco Tuppo; da citazioni del compositore Umberto Giordano a collaborazioni importanti; da prestiti illustri da autori celebri come Agatha Christie, Federico Garcia Lorca o la Bibbia fino a una cover assolutamente degna di “Venus in Furs”, dei Velvet Underground.

Il secondo cd, intitolato Ashima, si apre subito nella più totale inquietudine, rafforzando ancor più quel legame tra improvvisazione jazzistica, canto sperimentale ed elettronica. La citazione tratta dai sottotitoli italiani del capolavoro di David Lynch, Twin Peaks, sarà il presagio dell’atmosfera che ci accompagnerà in questo secondo tempo dell’opera mastodontica che stiamo ascoltando. Altro indizio importante sarà la cover di “Song to The Siren”, probabilmente il brano più noto del genio Tim Buckley che è anche tra i suoi componimenti più struggenti. Oltre a sviluppare leggermente il discorso di sperimentazione musicale, evolvendo in suoni più moderni ed etnici, il secondo disco regala l’aggiunta della lingua spagnola, d’idiomi infarciti di babelica confusione (in questo senso, perfetta la scelta di realizzare una cover di “Warszawa”, brano scritto da David Bowie e Brian Eno, dal linguaggio immaginario e prettamente musicale) di nuova strumentazione, kargyraa, buste di plastica opportunamente tagliate, eccetera, eccetera, eccetera. Il disco si chiude con la versione number  two di “Gallia”, questa volta con testo in italiano (nel disco uno era in francese) e poi un pezzo strumentale volto ad allentare l’atmosfera. La prima parte cessa cosi. Vi ho detto tanto e invece non vi ho detto quasi niente di quello che c’è dietro ai due dischi che formano L’Enfant et le Ménure ed è già ora di mettere sul piatto un altro cd. Da questo primo tempo quasi giocoso e bambinesco si passa alla seconda parte, targata Nichelodeon e quindi su un terreno più battuto, vista la vecchia conoscenza con il supergruppo di Milano (anche geograficamente parlando) ormai in circolazione da circa sei anni e all’attivo piccoli gioielli di Avant Prog e Free Improvisation (come No o Il Gioco Del Silenzio), che narra motivi come il cannibalismo nei rapporti interpersonali nell’epoca contemporanea, non dimenticando gli orrori che guerre passate, come fantasmi, hanno lasciato sedimentare nelle nostre coscienze. Il booklet in questo caso contiene i dipinti e le poesie visive di Effe Luciani e le foto di Andrea Corbellini. Claudio Milano è affiancato da Raoul Moretti, Pierangelo Pandiscia e Vincenzo Zitello, Michel Delville, Walter Calloni, Paolo Tofani, Valerio Cosi, Fabrizio Modonese Palumbo, Alfonso Santimone, Stefano Delle Monache, Elio Martusciello, Paolo Carelli, Lorenzo Sempio, Max Pierini, Andrea Breviglieri, Andrea Murada, Massimo Falascone, Sebastiano De Gennaro, Giorgio Tiboni, Laura Catrani, Valentina Illuminati, Ivano La Rosa, Luca Pissavini, Alessandro Parilli, Francesco Chiapperini, Andrea Quattrini, Fabrizio Carriero, Anna Caniglia, Marco Confalonieri, Simone Pirovano, Simone Beretta. I dischi che compongono Bath Salts sono due capitoli della stessa pellicola. Il primo, sottotitolato D’Amore e di Vuoto e il secondo Di Guerre e Rinascite. Si tratta di una miscela spettacolare d’improvvisazione jazzy, sperimentazioni vocali, testi criptici ed evocativi, atmosfere incantate ed inquietanti che sembrano spaziare tra le pieghe della fantasia umana. Anche in questo caso non mancano pezzi presi a prestito da Bertold Brecht, cover di Peter Hammil e tanto altro. Le sonorità Progressive sono ora dilatate, ora liquefatte, ora attorcigliate e deformate, ora ricomposte in forme più consone lasciando alla voce gran parte del palcoscenico e della luce. Il canto di Milano si avventura verso i suoi limiti invalicabili ma non disdegna le tenui passeggiate nelle nuvole della melodia più popolare figlia della tradizione cantautorale tricolore. Nel secondo disco la voce si attesta su tonalità più gravi e le situazioni si fanno più crude, feroci. I temi essenziali, quali l’amore, la spiritualità, la vita lasciano il posto a freddi riecheggiamenti bellici, a temi come la morte, la guerra, la sofferenza fino alla rinascita, anche musicale, alla quale si assiste a partire da “L’Urlo Ritrovato”, forse il punto più alto dell’opera.

Il capolavoro è una beatificazione sonica delle arti che vengono nei quattro cd rievocate e mescolate, elevate e sporcate le une dalle altre; l’arte visiva è messa egregiamente in mostra all’interno dei booklet, con foto di pregiatissima fattura ritraenti le opere di diversi, già nominati, artisti. La poesia è sia raffigurata dai testi dello stesso Milano ma si sposa anche con le arti visive e con la musica e le rievocazioni delle opere di altri grandi autori del passato, più o meno recente. Il teatro è parte integrante del cantato di Milano e diventa uno dei tanti protagonisti di tutta l’opera. Pittura, scultura, poesia, teatro, cinema, musica, fotografia. Musica Rock Sperimentale, Jazz, Progressive, Pop, Cantautorato, Ambient, Psychedelia e poi una moltitudine di autori, strumenti, ricordi ed evocazioni.

Per chiudere il cerchio sarebbe opportuno gustarsi anche dal vivo le performance di Claudio Milano e di tutti i diversi pezzi da novanta che lo accompagnano nelle sue svariate avventure, ma non ho la possibilità fisica di farlo nell’immediato e quindi non mi resta che sigillare questo mio scritto, più un consiglio per appassionati che una vera recensione. Dovrei ora aggiungere la classica frase a effetto, che riassuma l’opera tutta, le emozioni suscitate e vi lasci la voglia di ascoltare i quattro dischi. Non ci riesco perché letteralmente mi ritrovo ancora bocca aperta, con un sorriso ebete, a bearmi di quanto ascoltato e di quello che L’Enfant et le Ménure / Bath Salts rappresenta anche ben oltre i significati artistici e le chiavi di lettura fornite dai sensi e dall’intelletto. Vi lascio allora alle parole di Claudio Milano, tratte da una sua vecchia intervista. Forse vi aiuterà a capire cosa c’è dietro tutto questo:

Nell’attuale idea di arte, sostanza e forma collimano così come creatività, professionismo e peso economico. Non è possibile intendere l’artista come qualcuno che non appare ripetendo alcune dinamiche ed essendo immediatamente riconoscibile. Arte oggi coincide con specchio, è manifestazione di una società che ci dicono, si “autocrea”, ma che in realtà è sottilmente “facilitata” da abili venditori. Per me, arte rimane invenzione di nuovi linguaggi di contenuto e forma significante, capaci di spostare, anche solo di un passo più in là, la nostra capacità di visione e percezione. Esistono tanti musicisti che lo fanno tutt’oggi, che trovano tristemente pochi mezzi per arrivare a un pubblico più vasto. Sarebbe bello che la critica musicale avesse percezione della sua storia, così come fa la critica che si occupa delle arti visive”.

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Il Santo Niente – Mare Tranquillitatis

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Conobbi Il Santo Niente tanti anni fa, non ricordo bene il giorno, né l’anno ma ricordo bene il luogo. Ero nella stanza della sorella più grande di un mio vecchio compagno di scuola. Avete presente quelle situazioni molto anni novanta, camerette piene di poster e musicassette e musica che scivola lungo i bordi delle pareti? Ricordo benissimo quel giorno in cui ascoltai per la prima volta la voce di Umberto Palazzo, ben prima di conoscere i Massimo Volume che molti vedono come una delle due metà del progetto iniziato dallo stesso Palazzo ma che in realtà rappresenta una linea parallela alla vita artistica de Il Santo Niente. Ricordo esattamente le emozioni che m’ispirò ascoltare le note di quei brani. “Junkie”, “È Aria”, “’sei na ru mo’no wa nai ‘i”, “Angelo Nero” e sul lato A della tape casalinga le tracce dell’opera prima, “Cuore di Puttana (Hardcore)”, “La Vita è Facile” e poi la coppia di cui m’innamorai subito, “Il Pappone” e “L’Aborigeno”. Ricordo con un brivido sulla mia pelle le sensazioni che provai nell’origliare quei brani, portare a casa quella musicassetta, inserirla nel mio mini sound system e iniziare la copia che gelosamente custodisco come un inutile ricordo sbiadito; copia che avrei poi perfezionato inserendo con cura, a mano, a uno a uno i titoli di La Vita è Facile e ‘sei na ru mo’no wa na ‘i. Da quella circostanza iniziò un rinnovamento estremista nel mio modo di discernere e scoperchiare la musica. Non più solo rifrazione dei miei amici infossati nel Punk e non più banale conseguenza di qualche fugace ascolto radiotelevisivo. C’era tutto un mondo in fermento sotto l’asfalto; una realtà underground pronta a esplodere nel suo silenzio, nella sua disperazione. Sono trascorsi ben oltre quindici anni da quel giorno e troppi dall’ultimo album targato Santo Niente, Il Fiore Dell’Agave ed è ovvio che, cosi come ho atteso con trepidazione l’uscita del primo lavoro solista di Umberto Palazzo e seguito il progetto El Santo Nada (viste le ovvie distanze, più per curiosità che per altro, considerando poi che io sono un tipo che lega più con i brani che con i compositori/esecutori), con maggiore partecipazione ho assistito alla genesi lenta di questa quarta fatica della band, Mare Tranquillitatis. L’ho ascoltata ormai una decina di volte in pochi giorni e la prima cosa che mi ha trafitto è che qualcuno tra noi deve essere cambiato perché, nello strato più abissale della mia pelle, c’è una linfa che non sembra scolare e non pare vibrare allo stesso modo di tanti anni fa. Ovviamente non sono io lo stesso; ho il doppio degli anni, diverse idee per la testa, un modo differente di scorgere il mondo, qualche pensiero pratico in più e alcuni falsi problemi in meno, qualche birra di troppo sulle spalle e parecchi acciacchi ma allo stesso modo non sono gli stessi quelli che sento nelle casse. Tutto ciò, per fortuna, aggiungo.

Chiunque non abbia ancora ascoltato l’album ma si sia imbattuto volente o nolente nel singolo “Le Ragazze Italiane” non si lasci trarre in inganno da questo pezzo cosi dinamico (anche se molto vicino al classico sound della band), ossessivo e dal testo e dalla melodia un po’ “paraculo”; sia che sia piaciuto che in caso contrario. È quanto di più estraneo si possa trovare nei quaranta minuti di musica di cui è composto Mare Tranquillitatis. È evidente una certa presa di posizione, di distanza, dalla rabbia Garage degli esordi, anche se le sfuriate introspettive Post Hardcore stile Jesus Lizard (“Cristo Nel Cemento”) tengono ancorata la band a quelle che sono le loro radici anni 90. Stessa cosa, sia a livello testuale sia musicale, per quanto riguarda la forma canzone classica che è quasi interamente lasciata alle spalle nel tentativo di sviluppare una strada più predisposta all’Art Rock che tendenzialmente si risolve in Spoken Word impreziositi da chitarre distorte, tutto molto in stile Massimo Volume, per chi ha apprezzato la formula solo da questi “cugini” artistici bolognesi, ma che in realtà era stata già impiegata, anche se con ovvie varianti narrative e musicali, da Palazzo e compagni.

Soprattutto le strutture ritmiche riprendono in un certo modo quella che è la corrente più importante del Rock sperimentale teutonico, il Krautrock di Neu! specialmente ma anche di Faust e Can, sviluppandone le esasperazioni in una formula moderna e più vicina ai gusti del pubblico post Y2K bug e mantenendo la parte avanguardistica a livelli accettabili, in contrapposizioni ad alcune follie pure (vedi The Faust Tapes ad esempio) dei padri fondatori. Una delle immagini più avvincenti del disco è la parte testuale che mette in secondo piano l’elemento autobiografico e si concentra piuttosto su una sorta di analisi sociologica dell’universo che circonda l’uomo che sta dietro alle canzoni. Esempio è proprio il singolo “Le Ragazze Italiane” che riassume in pochi versi tutto quello che significa essere giovani, donne, oggi, in certi ambienti tra cui, immagino, quelli della vita notturna pescarese, acquario in cui s’immergono costantemente gli autori. Non uno spaccato generalista di ciò che può significare essere una sbarazzina ragazza oggi in Italia e nessun subdolo sistema per giudicare tutta una generazione. Nessuna accusa ma solo un atto d’amore nei confronti di alcune donne che hanno nuotato nello stesso acquario di Palazzo e d’odio verso certi atteggiamenti puritani di chi non ama mai bagnarsi. Se nel singolo l’elemento testuale si materializza efficacemente in tutta la sua franchezza, molto più soffuse sono le luci che circondano gli altri brani. Si passa da pezzi ispirati dalla letteratura o dalla storia (“Cristo Nel Cemento” è un brano suggerito dall’omonimo romanzo di Pietro Di Donato, figlio di un muratore abruzzese emigrato in America mentre “Sabato Simon Rodia” è un emigrante in America, creatore delle Watts Towers di Los Angeles) a brani che narrano (quasi letteralmente, visto lo stile usato nei pezzi) storie di violenza, droga, adolescenza e delinquenza (“Un Certo Tipo di Problema”, “Primo Sangue”) e disagio (“Maria Callas”, nome di un anziano travestito).

Come detto, la musica di Mare Tranquillitatis è una sorta di esperimento che vuole unire elementi propri della tradizione Alt Rock italiana (che va dagli stessi Il Santo Niente fino ai Massimo Volume ma anche ai Csi, rievocati in alcuni passaggi di chitarra di “Un Certo Tipo di Problema” ad esempio) al Post Hardcore dei Jesus Lizard ma anche molto “albiniano” (“Cristo Nel Cemento”); congiungere il Rock aggressivo, banalmente e volutamente diretto tanto da essere subnormale in perfetto stile Stooges (“Le Ragazze Italiane”) alle eccezionali e perfette deformità del Krautrock anni 70; fondere l’Elettronica e le sue ritmiche “danzereccie” (“Primo Sangue”) alle cacofonie soniche estreme (“Sabato Simon Rodia”) passando per cenni di psichedelia. Umberto Palazzo prova a utilizzare come legante di questa indagine sonora il sax di Sergio Pomante (eccezionale la sua opera prima con gli String Theory, mio disco italiano dell’anno nel 2012) ma restano alcuni dubbi sull’opera. Assolutamente da apprezzare la parte testuale (chi critica questo elemento dovrebbe consigliarmi qualche ascolto italiano), che scivola via senza inutili e ridondanti pesantezze, lasciando invece tante preziose oscurità che si lasciano scoprire elegantemente ascolto dopo ascolto (penso al fatto che molti abbiamo letto “Maria Callas” pensando alla diva e che ora, riascolteranno il pezzo scoprendone lati impensati). Certamente è risultato piacevole il distaccarsi dai cliché dei primi album ma, personalmente, mi aspettavo qualche rischio in più da un compositore esperto come Palazzo. Ovviamente è un concetto relativo quello di azzardo perché brani come “Primo Sangue”, quello che ho più ammirato o “Sabato Simon Rodia” sono tra le cose più lontane dalla normalità per l’ascoltatore medio italiano. Resta troppo in primo piano la vocalità mentre avrei preferito che Il Santo Niente avesse dato maggiore possibilità espressiva alle chitarre e soprattutto al sax che poteva veramente elevare Mare Tranquillitatis a uno dei migliori album degli ultimi vent’anni oltre che, magari, dare un’impronta innovativa al lavoro che altrimenti resta ineluttabilmente infangato nei ricordi di passate correnti. Tante influenze che rischiano di incanalarsi nel ricordo di tempi andati e una ricerca di strade Art Rock e sperimentali che appaiono ancora molto lontane. Inoltre crea qualche perplessità un brano come “Le Ragazze Italiane”; molto diverso dal resto dell’album  finisce per confondere l’ascoltatore, anche e soprattutto prima ancora di ascoltare il resto. Può avere senso come gancio per il pubblico, dato il tema e le sonorità immediate ma niente di più.

Se proprio vi piace fare un raffronto con i Massimo Volume, mi assumo la responsabilità di dirvi che c’è molto più coraggio in questo disco che nelle loro ultime cose (alcune delle quali fatico a riascoltare, nonostante non ne neghi il valore) e c’è anche di più della pura temerarietà perché Mare Tranquillitatis riesce nella difficoltà di non annoiare pur dislocandosi dalle vie sicure della canzone italiana (chiamatelo pure cantautorato Indie, se preferite). Un disco che non dimenticherò di lasciar partire dalle casse nel breve tempo ma che mi lascerà comunque sempre con un profondo dispiacere per quello che sarebbe potuto essere. Parafrasando L’inizio di “Sabato Simon Rodia”, (“Puoi essere solo ottimo o pessimo. Se sei buono a metà non sei buono”) se la sperimentazione è solo a metà non è sperimentazione. Oppure possiamo fare meno i puntigliosi, vivere la musica per quello che è e goderci semplicemente un disco pregevole.

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The Letter Yellow – Walking Down The Streets

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Solo poche settimane fa mi sono io stesso ritrovato a parlarvi del lavoro di un duo di Brooklyn chiamato Live Footage, per metà rappresentato dal batterista e percussionista Mike Thies. Ora lo stesso Mike torna a farsi sentire con il debutto di The Letter Yellow, al fianco di Randy Bergida (voce, chitarra e synth che con l’altra metà dei Live Footage, Topu Lyo, forma gli Skidmore Fountain) e Abe Pollack (basso, lap steel e synth) per non dimenticare la special guest Beck Burger (piano, rhodes e organo).

Un debutto che vi anticipo carico di armonie e melodie malinconiche come passeggiate tra i viali di una New York colorata d’autunno e che racconta tutte le micro storie che questi letti d’asfalto rivelano ogni giorno. Una lunga camminata che parte da Greenpoint Brooklyn (quartier generale della band) attraversa le case di Bleecker Street, Hope Street, Harlem, Coney Island, lambisce quartieri nascosti, sorvola le linee ferroviarie di vagoni dipinti dalla strada, racconta dialoghi banali, innamoramenti, solitudine e ci porta dritti a scoprire la propria, di strada, dentro il caos della grande mela. Un album che va ascoltato con attenzione, anche nella sua parte testuale, perché proprio le parole saranno l’amplificatore emozionale di questo piccolo gioiello che, sotto l’aspetto musicale, presenta la stessa freschezza degli esordi di band ormai affermate del panorama Indie Pop, come Grizzly Bear o Fanfarlo. Eccezionale il trio iniziale “Changed”, “Hold Me Steady”, “I’ Can’t Get A”, meraviglia melodica, con spruzzate di tradizione Folk. Tre pezzi che, se approfonditi, perfezionati, e addobbati, specie nei crescendo pseudo orchestrali, sarebbero stati la chiave per inserire questo disco già nel limbo dei migliori dell’anno. Convincono meno invece i momenti più “neri” (“Hope Street”, “I Got You”) dove basso e voce prendono la testa della carovana. Per quanto apprezzabili le doti cantautorati di Randy Bergida, proprio la sua voce non sembra poter reggere sulle spalle lo scheletro di certi brani che dovrebbero trovare in lui la loro forza. Cosi come suonano inutili le ostentazioni Rock’n Roll di “14 Bar Blues”, che, per quanto sia solo un episodio sporadico dentro la tracklist, non ha il merito né di fare da intercalare a due tempi dell’album, né di allentare le tensioni soniche.

Meglio allora i pezzi in cui Randy Bergida si mantiene su binari più consoni, a metà tra il Folk Rock più popular che quasi ricorda gli Arcade Fire (“Hooray He’s Not Dead”), pur senza la magniloquenza e l’energia dei canadesi e derive quasi Chamber Pop. Molto meglio quando la musica abbraccia e danza con la sua timbrica (che troverete certamente familiare) scivolando senza patemi d’animo e inutili ridondanze stilistiche (“It’s Monday And I’m Dreaming”) in un Indie Folk ora più potente, quasi in stile british morrisiano (“Out on The Streets”) ma non solo (“In The Sun Making Waves”), ora più compassato e romantico (“Window”, “Southern Bound”).  Se dentro i dodici pezzi, le cose da cancellare sono veramente poche è anche vero che le cose che potremmo definire sopra la media sono anch’esse esigue e si limitano alla parte iniziale. Nulla è troppo originale o geniale ma quei tre brani che danno il via al cammino per le vie di New York suonano perfetti, melodiosi, evocativi, gradevoli, semplici ma mai spartani o grossolani e questo basta perché possano essere considerati come un ottimo inizio. Tutto ciò che viene dopo la traccia numero tre è pioggia e tuoni, schiarite, sole accecante dritto nelle pupille e vento freddo sulla faccia. Per non gettare tutto del tragitto basta guardare, come fossero foto, solo le cose più belle e sognare che il prossimo viaggio possa essere tutto come l’inizio di questa passeggiata.

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I 10 peggiori personaggi incontrati ai live estivi! Ci sei anche tu?

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Ed è finita un’altra stagione di concerti e festival, nonostante i tagli siano stati numerosi e abbiano ridotto di molto i live “delle grandi occasioni”. Non resta che programmare i concerti al chiuso che vorremmo andare a vedere nell’interminabile autunno-inverno e, nel frattempo, ricordarci la spensieratezza dell’estate. I pantaloni corti, le tipe in bikini e stivali anche a luglio perché gli stivali fanno Rock, le zanzare, la birra sempre sciacqua e sempre cara, il sudore del barbuto metallaro di fronte a noi, perché c’è sempre un metallaro a qualsiasi concerto, di qualsiasi genere e i rompicoglioni. E già… perché sì sì, che bello il live come momento di condivisione di una passione, sì sì che bello ritrovarsi lì, nello stesso posto, noi e centinaia di altre persone comenoi. Cazzate. Non ce la meniamo. A ogni concerto che si rispetti c’è sempre qualcuno con cui ciascuno di noi pensa di non avere proprio niente a che spartire. Esattamente come quando siete nella vostra spiaggia libera a leggere l’ultimo saggio che vi appassiona e di fianco a voi c’è quella che legge i romanzi Harmony o Novella 2000. O proprio come quando al mare siete lì a cercare relax e pace al largo, pensando a quanto sia bello farsi accarezzare dalle onde leggere e dal sole ma sentite dal bagnasciuga gente che impreca, starnazza o semplicemente passeggia con musica improponibile, a un volume improponibile che esce dal proprio smartphone, rigorosamente senza cuffie, così che tutti gli astanti possano compartecipare al cattivo gusto artistico del soggetto in questione.  Ai concerti è uguale. L’inopportuno, il rompicoglioni, quello che crede d’essere nel posto giusto e che magari si atteggia anche a grande frequentatore, grande appassionato, grande cultore e non ha mai imparato un minimo di etichetta. O quanto meno il vivere civile. Vogliamo ricordarli con voi, stilando un breve elenco che non vuole essere una classifica, ma solo una carrellata di macchiette da live con cui sicuramente vi sarete imbattuti anche voi. Così il quadro dei ricordi della nostra estate musicale può essere veramente completo. Eccoli:

1)      Il fotografo o cameraman raffazzonato che invece di guardare il concerto passa tutto il tempo con la macchina fotografica o il cellulare alzato impedendo anche a te di godere dello spettacolo. Nelle situazioni di scarso pubblico, alcuni s’improvvisano fotografi ufficiali piazzandosi nei posti più improbabili sul e vicino al palco.

2)      L’organizzatore di eventi che a fine concerto, palesemente ubriaco, blocca il cantante e ufficializza con contratto verbale una data a costo zero nel suo paesino, il prossimo anno, per la festa del patrono.

3)      Il fan che le sa tutte, le canta tutte, le canta male e, nelle pause, urla come una groupie di Justin Bieber in preda a crisi d’overdose. A fine concerto si lamenterà perché non hanno fatto il suo pezzo preferito nonostante per tutta la durata del live avesse suggerito la scaletta alla band, urlando il nome delle canzoni.

4)      L’indifferente e/o infastidito che dà le spalle al gruppo, rompe i coglioni chiedendo come possiamo apprezzare certa “roba”, sbuffa, si annoia ma dentro sta male perché vorrebbe scatenarsi anche lui. Non lo fa perché distruggerebbe la sua immagine di indie snob. Tende a sviare quando gli si chiede che cazzo ci sia andato a fare al concerto. Al limite risponde di aver avuto un accredito o di aver accompagnato qualcuno.

5)      Il giornalista. Ha avuto l’accredito stampa. Sta lì impassibile, passando il tempo a guardare ogni minimo movimento delle dita del bassista e giudicando ogni nota. Scatta al massimo un paio di foto che allegherà a un articolo, non balla, non ride, non può divertirsi. Lui sta lavorando. Ovviamente gratis.

6)      L’ubriaco che non ha neanche idea di chi stia suonando. Urla a caso, canta a caso, balla e poga a caso, litiga con quelli vicino, inveisce contro la band, sputa, suda (rigorosamente in canotta o a petto nudo) e ogni tanto vomita. Qualche volta è portato via dai buttafuori o da un’ambulanza.

7)      Lo spaesato. Ce l’hanno portato. Non voleva venire. Spesso è la ragazza o il ragazzo del fan. Non sa chi stia suonando e non sa nulla di musica che vada oltre Tv Sorrisi e Canzoni. Di solito ascolta la Pausini, Emma o Malika Ayane ma gli amici o il/la fidanzato/a non volevano lasciarlo/a solo/a di sabato.

8)      Quello che ci deve stare. Mocassino firmato viola, calzino leggero, pantaloncino lungo bianco, cinta a riporto, camicia di lino slacciata, petto abbronzato e depilato in bella vista, barba finto incolta e sorriso da piacione con cocktail in mano, per tutta la sera. Poteva suonare Gg Allin o i Pooh, lui sarebbe stato col gomito appoggiato a quel bancone.

9)      Il reduce degli anni 80 (anche 70). È sempre il più vecchio della serata, leggermente in sovrappeso; indossa una t-shirt di una vecchia band abbastanza nota ma senza esagerare. Ramones, Dinosaur Jr, Joy Division. Di solito è solo perché i suoi amici hanno famiglia, non beve troppo, non balla troppo, non si diverte troppo.

10)   Il commentatore. Ce ne sono di due tipi. Uno che parla bene di tutto e uno il contrario. Ti si piazzano di fianco e ti raccontano tutto sulla band, sulla serata, sul gruppo spalla, sulla loro vita, sulle loro passioni. Intervallano i momenti di semplice cronaca a considerazioni su quanto sia figo l’ultimo disco del gruppo, su quanto siano stati innovativi i riff del chitarrista o al contrario, si lamenta per il costo della birra, per l’assenza di parcheggi. Comunque, non sta mai zitto.

Sono anche loro che rendono speciale l’esperienza di un live che sia di un supergruppo o di una sconosciuta band Indie di Pavia. Ma inutile fare tanto i superiori, se leggi tra le righe, uno di questi dieci sei tu. Che numero sei? Io un misto tra cinque e nove.

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La Band Della Settimana: In Zaire

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In Zaire è un quartetto tribale psichedelico che ruota attorno al duo tutto italiano
G.I. Joe, cioè Alessandro De Zan (bass, voice, percussions) e Riccardo Biondetti (drums, electronics) e a Claudio Rocchetti (electronics, turntablism) e Stefano Pilia (guitar). La loro performance artuistica è in grado di portare il pubblico in un viaggio psichedelico eppure
la loro musica non è solo psichedelia. La loro è una perfetta miscela di ritmi di batteria Dub Funk, percussioni tribali e afro, melodie di chirarra e ritmiche esotiche e introspettivi suoni elettronici. White Sun Black Sun è il loro ultimo album uscito nel marzo di quest’anno.

Dal loro portale potete ascoltare e scaricare alcuni lavori della band mentre per mantenervi sempre aggiornati sulle loro iniziative, date uno sguardo alla pagina Facebook.

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Murcof & Philippe Petit – First Chapter

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Questo primo capitolo è anche la prima collaborazione tra il barbuto genio (dell’Elettronica) di Tijuana Fernando Corona (in arte Murcof), dal 2001 in poi autore di alcune delle più luminose gemme Drone Music, Minimal/Ambient Techno e Glitch come Remembranza del 2005 e Philippe Petit, multistrumentista marsigliese, ex giornalista e Dj fortemente legato agli aspetti più sperimentali della musica Elettronica e Rock. L’opera è un trittico di brani, per una durata complessiva che raggiunge i quaranta minuti, che si rivela uno strumento di ricerca interiore attraverso l’esperienza meditativa. Lo stile utilizzato è quello consono ai due artisti e il più efficace per raggiungere il suddetto obiettivo. Si passa quindi dall’Elettronica Minimale alla Musica Cosmica, dall’Ambient alla Musica da Camera, passando per gli inserti elettronici Glitch tipici del messicano. Il pezzo d’apertura, “The Call of Circé” racchiude nella sua imponenza tutte le caratteristiche di quest’unione artistica, iniziando con una lieve, delicata, spaziale salita sonica che sfocia nei vocalizzi e nei cori barocchi del mezzo soprano Sarah Jouffroy. La manipolazione sonora di Murcof è già qui evidenziata e portata a livelli sublimi ma, nei passaggi successivi, riuscirà con prepotenza a mettersi in mostra, con vesti nuove, pur nella magniloquenza della multi strumentazione del francese.

Esempio di questa commistione tra struttura e aggraziato caos rumoristico è il secondo pezzo, “Pegasus”, nel quale è addirittura introdotta un’inquietante reminiscenza mediorientale nelle note di Philippe Petit coadiuvato dalla viola da gamba di Gabriel Grosbard. Se questi primi due lunghi momenti dell’opera prima del duo hanno rilevato la stilistica pura, nell’ultima traccia, “The Summoning of The Kraken” si concreta tutta la materia oscura accumulata in precedenza. Gli elementi d’angoscia e tensione sono sottolineati anche dalle puntuali pause mentre, a differenza della prima parte, sono ridotte all’osso le intelaiature più vicine alla realtà, preferendo scenari di stampo metafisico. Sono quindi gli iniziali circa venti minuti di “The Call of Circé” che danno a First Chapter tutta la sua forza espressiva. Sta tutto in quella cavalcata morbida; tutta la tecnica, il tocco magico e la natura psichica del duo che proprio in quel brano può trovare la propria strada eventuale futura, sviando da un semplicistico accostamento delle due forme espressive alla ricerca di una sommatoria che sia più della semplice addizione formale. I due passaggi successivi rivelano invece alcune sostanziali debolezze che vanno dall’eccessiva ostentazione manierata e convenzionale di “Pegasus”, al caos smodatamente deforme del brano di chiusura. Nessuna bocciatura, dunque, per questa coppia in prova che anche in quest’occasione si mostra un gradino sopra alla concorrenza ma solo l’esternazione di una speranza che ha sfavillato nella mia mente durante l’ascolto di “The Call of Circé” e che, per ora, resta tale. Una speranza.

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Land Lines – S/t

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Il progetto Land Lines è poco più della naturale prosecuzione di una lunga collaborazione tra un gruppo di amici intimi che, per oltre dieci anni, hanno suonato e scritto canzoni e musica insieme sotto il nome di Matson Jones, gruppo di Fort Collins, Colorado. Anche il quartier generale dei Land Lines è da individuare in quello stato federato degli Stati Uniti dalla forma rettangolare, non in quel piccolo paradiso che è Fort Collins ma novanta km più giù, nella capitale Denver, città resa mitica e immortale anche grazie a John Fante, Neal Cassady e Jack Kerouac.

Saranno quelle toccate dal mito della beat generation le linee di terra evocate dal trio Martina Grbac (violoncello, voce, percussioni), Ross Harada (batteria e percussioni) e Anna Mascorella (violoncello, voce, percussioni) in quello che è il loro primo full lenght ufficiale e che si annuncia come il primo di una lunga serie di lavori che ci presenteranno. Le dieci tracce altro non sono che una raccolta di canzoni rielaborate, originariamente scritte durante una pausa di quattro anni e ispirate dalle costrizioni della vita d’appartamento e poi registrate e mixate da Xandy Whitesel al Mighty Fine Audio di Denver e masterizzate da Bob Weston al Chicago Mastering Service.

L’opera si fonda su tre elementi portanti che si sviluppano e diventano l’emblema di tutto il sound e la proposta del trio americano. Per prima cosa c’è l’aspetto vocale, totalmente in mano o meglio affidato alle corde vocali di Martina e Anna. La loro voce diventa il protagonista quasi assoluto delle canzoni, l’elemento che permette alla musica di elevarsi e conquistare un’energia peculiare e assoluta. Non che la coppia dia uno sfoggio di tecnica senza uguali (diciamo che evitando ogni eccesso stilistico ci lasciano il beneficio del dubbio) ma riesce a inventare melodie avvolgenti e presentare una timbrica gradevole e forte, pur nella sua apparente delicatezza, ricordando per impostazione un’altra storica coppia femminile, le sorelle Casady conosciute come Cocorosie, anche se la voce delle due Land Lines, presenta spigolature e code ebbre più consone al grunge femminile anni ’90. Altra caratteristica importante è la struttura e l’architettura sonora (per lunghi tratti costeggiante il Dream e il Folk Pop) e gli arrangiamenti che riescono a essere perfetti senza suonare eccessivi; niente è di troppo e il risultato suona esattamente come dovrebbe, regalando momenti di femminea tragicità e altri di voluttuosa speranza, passaggi più eterei e altri maggiormente aggressivi, ora arricchendosi di fronzoli appariscenti, ora scivolando come un volo ad ali spiegate sotto la voce melliflua e ferma al tempo stesso. Ultimo fattore che diventa chiave di lettura di tutto quest’album che riprende il titolo dal nome stesso della band, è la presenza del violoncello di Martina e Anna, che riesce a sostituirsi con efficacia e ad accompagnare con eleganza le parti vocali, mentre la ridotta parte ritmica, si limita a ricalcare e portare il tempo delle musiche spesso ossessive, ben oltre le melodie vocali.

Se tutto sembra perfetto, nella sua semplicità e nel suo candore, è proprio nelle melodie che troviamo il muro più difficile da superare, perché se è vero che la musica dei Land Lines si presenta di una cedevole graziosità è anche vero che, per colpire, servirebbero quantomeno delle linee melodiche non solo ricercate ma anche d’impatto e immediatamente gradevoli. Le canzoni invece finiscono per suonare come un magma senza forma, pur se di bellezza innegabile. Un difetto da poco se si guarda all’interezza dell’opera ma che rischia di rappresentare un limite difficile da colmare, se si cerca anche un riscontro immediato del pubblico per sua natura, volente o nolente, legato all’impatto dell’orecchiabilità musicale. Non è un caso che gli episodi più riusciti siano proprio quelli nei quali tali limiti sembrano essere messi da parte per un attimo (“Bomb Blast”, “Sleepwalking”) e sono questi momenti del disco che lasciano intravedere possibilità sconfinate per i Land Lines.

Land Lines :: Wreckage from Mighty Fine Productions on Vimeo.

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