Silvio Don Pizzica Tag Archive
Parranda Groove Factory – Nothing but the Rhythm
Written by Silvio Don Pizzica• 25 Ottobre 2016• Recensioni
Linfante 22 Ottobre 2016 Garbage Live Club
Written by Silvio Don Pizzica• 24 Ottobre 2016• Live Report
Il modo migliore per far sì che gli altri (il pubblico in questo caso) credano in te è essere il primo a credere in quello che fai e per crederci davvero bisogna fare le cose con il massimo sforzo, impegno, spirito di sacrificio e una notevole dose di organizzazione. È esattamente questo che fa Stefano Scrima, in arte LinFante, solista di Cremona che ha girato il mondo, tra Madrid e Barcellona, per stabilirsi definitivamente nella capitale. È proprio lui a consacrare il periodo dei concerti del Garbage Live Club di Pratola Peligna (Aq) dedicato alla reinterpretazione del Folk in tutte le sue varianti, fase che sarà conclusa dal modenese One Glass Eye il prossimo 5 novembre e che ha già visto esibirsi artisti come Give Vent e The Dead Man Singing. Dopo il Folk in chiave Punk, Emo e Post/Art Rock e prima della variante Math, tocca alla musica a metà tra bizzarrie liriche e sentimentalismo ironico de Linfante.
Stefano Scrima fa le cose per bene, dicevamo all’inizio; realizza videoclip curati e divertenti, spende attenzione su immagine e artwork dei suoi lavori, ultimo l’Ep Piccolo e Malato uscito il 29 settembre per La Fame Dischi, e infine non ha paura di girare l’Italia in autobus e treno, tra grandi metropoli e minuscoli paesini con la sua chitarra in spalla e un’armonica nello zaino. Stefano incarna un modo di proporsi e di fare musica che troppo spesso sembra essere dimenticato dal pubblico tanto quanto dai musicisti stessi, abbagliati dall’irreale e apparentemente immediato successo che sembrano avere quelli che riescono a infiltrarsi nella malvagia macchina dei reality show. Incarna un modo di fare musica che parte dal cuore e fa a pugni con la propria anima; si nutre di chiacchiere prima del concerto, di disperato bisogno di attenzione, di difficile ricerca di qualcuno disposto a dedicare pochi minuti della propria vita per ascoltare quello che si ha da dire.
Tutto questo è emerso dal piccolo live de Linfante nel piccolo Club abruzzese; un live diverso da ogni altro suo live non solo per il rapporto instaurato con i presenti, con i quali l’artista ha bevuto e scherzato prima, durante e dopo il concerto, ma anche per la scelta artistica di non seguire alcuna scaletta precisa, evitando anche di suonare alcuni dei suoi pezzi più belli e più noti come “Muoio di Sonno”, “La Bella Estate” e una delle mie preferite, “Chiudo gli Occhi e non Penso a Te”. Ovviamente tutti i pezzi dell’Ep faranno parte della serata, da “Serenata ai Grilli” al brano dedicato alla sua città d’adozione, passando per “Una Pianta Carnivora Mi Ha Detto Che Non mi Ami Più” e il brano che da titolo al disco. Simpatico siparietto, invece, quando suonerà “L’Amaro” e un bel bicchiere di Cynar finirà sul palco/non palco tra le risate dei presenti. Dal primo album Linfante sceglie forse i pezzi più introspettivi e meno immediati, come “Mentisenti”, “Medievalità” ma anche la bellissima “Non Mi Piace Niente”. Tra le tante sorprese che, dicevamo, renderanno la serata singolare, tantissimi inediti, un brano della sua band Sydrojé, “Bacche, Rabbia e Alcol” e un paio di pezzi presenti nel suo primo demo. Alla fine saranno circa quindici i brani proposti, in una sorta di viaggio virtuale nella “carriera” ancora tutta da scrivere di questo giovane musicista, dal passato degli esordi e dei suoi progetti paralleli, al presente con l’Ep appena edito, fino al futuro con brani mai incisi e che forse lo saranno in un futuro prossimo. Un live che ha dimostrato tanto, non solo delle qualità strumentali e vocali del musicista romano, ma anche di quanto sia importante ascoltare e supportare gli artisti nelle loro piccole esibizioni, affinché ci si renda conto del loro reale valore e si possa permettergli di continuare a dire ciò che hanno da dire fino a quando avranno qualcosa da dire che ci regali un’emozione. Un live che, tra le tante cose, ci ricorda cosa sia la musica, nella sua versione più umana e viscerale.
Xiu Xiu – Plays the Music of Twin Peaks
Written by Silvio Don Pizzica• 18 Ottobre 2016• Recensioni
Probabilmente non esistono molte persone nel mondo occidentale che non associno il nome Twin Peaks al capolavoro di David Lynch d’inizio anni 90. Se qualcuna di queste però sta leggendo la mia recensione, sappia che si tratta di una serie televisiva realizzata dal maestro del surrealismo cinematografico che racconta della morte della giovane Laura Palmer e delle indagini che ne sono seguite dentro una misteriosa cittadina al confine tra Stati Uniti e Canada. Chi sa di che parlo troverà riduttiva e semplicistica la mia descrizione ma non è questo il luogo per parlare della pellicola che invito tutti a riscoprire, in attesa dell’agognato seguito. Quello di cui discutiamo oggi è invece l’ultimo lavoro di una band meno nota del telefilm ma che meriterebbe più attenzione e almeno una volta nella vita una vostra presenza a un live.
Gli Xiu Xiu sono un’eclettica formazione californiana che ruota attorno al talento di Jamie Stewart e che, nel corso degli anni, ha visto più di una volta stravolto il proprio stile tanto quanto la sua compagine. Partendo da una materia prima New Wave, hanno esordito con lavori sperimentali degni di nota come Knife Play o A Promise di stampo sintetico ed elettronico, profondamente inclini ad ambientazioni malinconiche, sconfortate, mortifere, tragiche, tutto fino al capolavoro Fabulous Muscles in cui, mantenendo intatti i punti fermi estetici, hanno amplificato la loro vena Art Rock al massimo. Da qui in poi (era il 2004) hanno messo al mondo un numero impressionante di opere che non hanno disdegnato di accarezzare territori diversi e più morbidi come il Pop (“Angel Guts: Red Classroom”) ma anche lo Spiritual e l’Avant Rock oltre ogni immaginazione, con pochi lavori degni di nota e tante porcherie, specie in tempi recentissimi con Neo Tropical Companion Hearts, Tired of Your World… Peru e Kling Klang eppure quello che mi ha sempre spinto a tenerli d’occhio è un incredibile coraggio dovuto a una necessità di mantenere intatta la loro (in realtà sua, perché è Stewart il cuore degli Xiu Xiu) libertà espressiva.
A questo punto arriviamo a Plays the Music of Twin Peaks, una scommessa apparentemente persa in partenza viste la difficoltà di ridare linfa a una colonna sonora che è stata incredibile a tal punto da aver reso l’opera di Lynch ancor più intensa, terrificante, inquietante e memorabile tanto che bastano un paio di note di Angelo Badalamenti per far venire la pelle d’oca a noi trentenni che con l’incubo di Bob siamo andati a letto ogni sera.
Chi invece sa bene di cosa parliamo starà chiedendosi in che modo possano aver proposto questa parziale rilettura ed è quello che mi sono chiesto anch’io e che ho scoperto solo poco fa. Certamente lo stile tetro, perturbato e disperato degli americani ben si sposa con l’opera di Badalamenti eppure forte è il rischio che le esasperazioni sonore da loro adorate finiscano per stravolgere eccessivamente gli originali. Quello che, invece, hanno fatto ottimamente gli Xiu Xiu è stato abbassare i toni sugli aspetti loro meno consoni come quella certa eleganza jazzistica e quella soavità a metà tra Chamber e Dream Pop, per amplificare le parti più crude, brutali, senza per questo esagerare nell’interpretazione personale e suggerendo un punto di vista diverso allo “spettatore”, ora meno vittima sessuale e sacrificale al fianco della Palmer e più vicino alle figure malefiche del film. Tutto è meno tormentoso; le postille rumoristiche dilatano l’eccitazione e spezzano quell’inquietudine donando maggiore energia; la voce, nei pochi casi in cui compare, è perfetta nella sua disuguaglianza con l’originale per seguire l’impronta di questa versione disarmonica dei brani e il senso di angoscia è comunque riproposto con una forma dissimile (si pensi al lungo monologo -anzi no, ma non vi rovino la sorpresa- finale, “Josie’s Past”). Questo Plays the Music of Twin Peaks non può e non deve essere visto come una semplice riproposizione di vecchie canzoni e brani di una grande serie e soprattutto non deve essere inquadrato collegando le sue note alle immagini che avrete bene impresse nella mente se avete visto la serie. Quelle icone, le tende rosse, la luce soffusa, la nebbia del nord America, gli abiti sensuali delle ragazze del One Eyed Jacks, la convenzionalità yankee della casa di Leland, l’oscurità del bosco, sono già state descritte con perfezione e minuzia da Badalamenti e queste nuove trasposizioni non riuscirebbero a dare lo stesso effetto. Per riuscire ad apprezzare al meglio il collegamento tra audio e video dovreste vedere una versione di Twin Peaks che non è mai stata impressa su pellicola, mai probabilmente immaginata, una versione in cui ogni momento è vissuto nella testa disturbata dell’assassino.
The Dead Man Singing 15 Ottobre 2016 Garbage Live Club
Written by Silvio Don Pizzica• 16 Ottobre 2016• Live Report
In questi ultimi giorni si è parlato tanto, con consenso quasi unanime, del Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan.Prendiamo per buono che tale gratificazione sia in sostanza alla carriera e non soffermiamoci sulla reale portata dell’opera di Dylan considerando che mai tale riconoscimento è stato assegnato a Irvine Welsh, a David Foster Wallace o a Chuck Palahniuk. La cosa che da più fastidio è che questo premio alimenta un errore che sta dilaniando il mondo della musica. Un riconoscimento paragonabile al Pallone D’Oro a Oliver Hutton. Letteratura e Musica non sono la stessa cosa; probabilmente la Musica è anche una forma d’Arte più complessa rispetto alla Letteratura ma anche se non fosse, non sarebbe comunque la stessa cosa e considerare Dylan un poeta equivale a non considerare il valore artistico della Musica se non direttamente legata alle liriche e quindi alla poesia, nel caso specifico del Nobel. Questo è, quasi, lo stesso errore che fa il pubblico quando si approccia ai concerti. La musica (scusate la ridondanza, ma è necessaria) è un complemento tra una birra e l’altra, un sottofondo, uno svago, un motivo per fare festa e casino. Invece no, la musica è molto di più e non credo debba essere io a ricordarvelo. Anche per questi atteggiamenti, un live come quello che sto per raccontarvi, fa fatica a essere apprezzato e seguito da chi, questo ruolo della Musica, non riesce proprio a digerirlo. Prima di narrare, però, di questo strano, incredibile e affascinante progetto chiamato The Dead Man Singing, dobbiamo iniziare a parlare del live del cantautore teramano (già con Amelie Tritesse e Delawater), partendo dal pomeriggio passato al Garbage Live Club di Pratola Peligna (Aq). A scaldare gli animi e i cuori del pubblico che sarà presente poi alla serata e appagare quell’innata brama di artistica bellezza, sarà il disegnatore Gianluca Di Bacco, autore di fumetti, diplomato all’Istituto d’Arte Gentile Mazara di Sulmona, studioso all’Accademia di Belle Arti di Bologna e grande appassionato dei racconti di Roald Dahl. Il suo obiettivo dichiarato, lo scopo della sua arte è di portare le persone a interagire con storie e racconti figurati e l’obiettivo sarà pienamente raggiunto, con tanta gente coinvolta, felice, appagata e ottimamente predisposta al live che seguirà.
Le luci nella stanza sono ridotte ai minimi termini; alle spalle del cantautore, defilato sulla destra, c’è uno schermo sul quale saranno proiettati visual e le stesse immagini dell’i-phoneography artist Rino Rossi, rielaborate dal duo composto dall’eclettico Giustino Di Gregorio (al suo attivo un disco omonimo uscito nel 1999 per la Tzadik, etichetta di John Zorn, sperimentazioni sonore con Iver and the drIver e installazioni d’arte contemporanea con il duo Minus.log) e dal visionario architetto Pierluigi Filipponi (nonché chitarrista psichedelico con Orange Indie Crowd, Delawater e a Minor Place), saranno sparate con un proiettore addosso al musicista e quindi sulla parete nera alle sue spalle.
Chi non sa cosa aspettarsi dovrebbe aver capito che non sarà un concerto come gli altri. Le immagini iniziano a muoversi e, senza preavviso alcuno, Paolo Marini da voce alla sua chitarra e agli effetti elettronici che fuoriescono da un ipad e diverranno grandi protagonisti dello spettacolo. La sua musica è qualcosa di non semplice da definire, la voce assolutamente deliziosa tanto che saranno molti i paragoni che si divertiranno a fare coloro che avranno assistito, da quello con Roland Orzabal (Tears for Fears) a quello con Mark David Hollis (Talk Talk) fino a Dean Wareham (Galaxie 500) mentre io sto ancora scervellandomi cercando di ricordare invano a chi, quel timbro avvolgente, mi facesse pensare. L’idea musicale alla base è anch’essa di difficile definizione. L’Elettronica si gonfia di ridondanze glitch, suoni ai limiti del rumore, i pedali sono talvolta usati come un vero strumento per stuprare bonariamente le nostre orecchie in un infinito tripudio Noise. La prima cosa cui ho pensato, per i toni dimessi, mesti, incantevoli, eterei, è l’album Perils from the Sea del duo Mark Kozelek & Jimmy Lavalle (Album Leaf), anche per quella perfetta commistione tra Folk, Slowcore, Dream Pop, Downtempo, voce e liriche affascinanti ed Elettronica eppure, nel progetto The Dead Man Singing, c’è qualcosa di più, non tanto nelle capacità tecniche ed espressive, quanto nell’idea essenziale e nel suono che, come anticipato, supera certe atmosfere dimesse per sfociare in un’estetica più sperimentale ed estrema. Quello che di certo accomuna i due proponimenti è ciò che riescono a trasmettere, anche grazie alla voce; quel senso di pacata tristezza, di mortifera malinconia, d’introspettiva beatitudine. A dare ancor più enfasi allo spettacolo definito Live on the Moon, come già accennato, sono le immagini che si stagliano contro e alle spalle del musicista e quando queste sfoceranno, sul finire, in una luna enorme ad avvolgere il palco, sarà lo stesso Paolo Marini a spiegarci quello cui abbiamo assistito.
Ogni mese, nel giorno in cui ne ricorre la morte, è caricato sul canale personale un brano dedicato a un artista scomparso. Un cantante, un musicista, un attore, un pittore, uno scrittore e via dicendo. Sarà scelto in conformità a quanto abbia inciso nella formazione dei suoi gusti e del modo di esprimersi attraverso la musica. Il primo è stato nel luglio del 2011 con Syd Barrett. L’idea è di comporre 365 video cartoline acustiche, una per ogni giorno dell’anno, registrando 365 canzoni in presa diretta, con attitudine BLP (buona la prima). In poco più di trenta anni questa fase del progetto dovrebbe essere completata.
Ciò che abbiamo visto è The Dead Man Singing on the Moon, una trasposizione con l’aggiunta dell’elettronica live per far esibire dal vivo il morto che canta e le immagini contro servono a farlo sentire un po’ come un morto che canta sulla luna.
A spiegazione conclusa sarà più chiaro comprendermi quando affermavo che questo non è stato un semplice concerto e anche capire perché è inutile richiedere un bis, considerando anche l’assenza di pause tra i pezzi. Il Live on the Moon è qualcosa che va vissuto prima, seguendo il canale Youtube, durante, assistendo dal primo all’ultimo minuto del live e dopo, portandosi magari a casa la pen drive contenente la registrazione audio di un live di circa trentacinque minuti, la versione video del live, i testi delle canzoni, foto e una presentazione del progetto. Poi non resta che sperare che il prossimo artista morto cui sarà dedicata una canzone, non sia il vostro, ancora vivo, artista preferito.
Merkel Market – La Tua Catena
Written by Silvio Don Pizzica• 10 Ottobre 2016• Recensioni
Il progetto nato a Milano solo quattro anni fa è radicato ben più lontano negli anni; sia nello stile che nelle esperienze dei quattro componenti della band, già protagonisti della scena al fianco di Zona, Pino Scotto, Node, Yak la mente è costretta a tornare indietro fino all’inizio di fine millennio scorso. Proprio per questo, la loro proposta è tutt’altro che originale: onesta gravezza Post Hardcore in lingua madre stile Negazione con lezione Refused ben impressa nella mente miscelata all’immediatezza violenta dell’Hardcore Punk e al casino controllato del Noisecore che a tratti ricorda sia The Locust sia certi Today Is The Day.
La Tua Catena è un macigno in diciassette frammenti aguzzi, diciassette “canzoni” velocissime e dirette, costruite sulle semplici basi ritmiche fatte di due bassi e una batteria a reggere il peso delle parole urlate, cantate a fatica, stravolte, stuprate e sputate sulle nostre orecchie. La violenza non è solo narrata dalle note aggressive dei quattro ma è anche raccontata come il prodotto malsano e multiforme che marcisce e prende sapore ed odore sugli scaffali di questo orrido supermarket che è l’esistenza umana non sotto l’aspetto morale ma piuttosto comportamentale. Le canzoni sono la trasposizione ideale, la mercificazione di questi prodotti incorporei, offerti dai Merkel Market a prezzo scontato affinché assaggiando il male , chi ne è in grado, riconosca la miseria della società occidentale intesa come consumistica e falsamente globalizzata.
Messa da parte la ridondanza metaforica, ciò che resta è un disco sicuramente riuscito sotto l’aspetto dell’immediatezza e della brutalità che un po’ stanca all’ascolto ripetuto, nonostante non raggiunga i trenta minuti, per un’eccessiva omologazione al genere, senza alcuna variazione sul tema che desti reale interesse e fornisca nuova linfa a tutta l’opera. Certo è interessante l’inserto di alcune sonorità “extra occidentali”, così come ottimo è il lavoro di Marco Di Salvia alla batteria, capace di unire tra loro tutti i brani a creare un’entità unica, ma tutto questo non basta a fare di La Tua Catena qualcosa di più di un buon disco Italian Post Hardcore per amanti del genere.
Give Vent 8 ottobre 2016 Garbage Live Club
Written by Silvio Don Pizzica• 9 Ottobre 2016• Live Report
Reduce dalla tappa al Provo Cult Club di San Giovanni Rotondo, il Folk singer emiliano Give Vent sbarca al Garbage Live Club di Pratola Peligna (AQ) per presentare i brani dell’ultimo album Days Like Years uscito da poco per l’etichetta diNotte Records. Marcello Donadelli, questo il suo vero nome, messa per un attimo da parte l’esperienza Emo Punk Post Rock con gli You vs Everything e quella con i Moscova, stilisticamente non troppo distanti dai primi, si butta a capofitto in un progetto solista che, già su disco, suona molto più che semplicemente interessante e che, come il live dimostrerà, sarà una vera delizia per le nostre orecchie.
Solita atmosfera intima, come spesso accade in un piccolo club di provincia ricoperto di legno, libri, good vibrations e poster dei Nofx mentre fuori scende una pioggia gelida. Give Vent è pronto, chitarra in mano, a dare sfogo a tutta la sua energia; le sue sono canzoni scritte tempo addietro, per necessità espressiva più che con la diretta intenzione di forgiare un disco. Give Vent, ovvero “dare sfogo” in italiano, ed è esattamente questo che fa il musicista, ripiegandosi su se stesso e poi tirando all’esterno la sua anima, il suo cuore e il suo stomaco, con brani tutti in inglese che puntano dritti alla parte più sensibile di noi ascoltatori, narrandoci vita, sogni, rimpianti e sentimenti autodistruttivi. La sua capacità di scrivere canzoni, creare melodie sublimi senza troppe note, senza bisogno di decorare il tutto con arrangiamenti eccessivi, è la sua forza e da questo live acustico, i pezzi spogliati completamente rivelano la loro nuda bellezza. Brani come “Ashes” o “Black Sea” sono gemme miste di profondità e potenza espressiva; “Winter Will Have An End” nella sua semplicità è una delle migliori canzoni che abbia ascoltato negli ultimi tempi. Tutti i pezzi sono un continuo alternarsi e miscelarsi delle diverse anime che si scontrano e danzano nelle corde e nelle parole di Give Vent. Emo, Punk, Acoustic Rock e tanto Folk che s’ispira a band come Against Me!, Frank Turner, The Front Bottoms e poi una voce spettacolare, dalla timbrica inconfondibile e penetrante che, dal vivo, rispecchia pienamente la buona impressione avuta già prima. Circa a metà concerto una corda della sua chitarra decide di farla finita, il pubblico esce per l’immancabile astinenza da nicotina ma nel giro di cinque minuti tutto è sistemato. Give Vent decide di andare a riprendersi i suoi ascoltatori, esce dal locale e inizia a suonare un paio di pezzi con tutti i ragazzi in cerchio attorno a lui, con sorrisi stampati sul volto che raccontano la grandezza di questa passione chiamata musica. Il concerto proseguirà in un crescendo di emozioni e qualche bis, lasciandoci tutti soddisfatti e con la consapevolezza di essere persone migliori di un’ora prima.
Ovviamente prendo il suo ultimo disco, splendidamente confezionato a mano e numerato. Un packaging di carta grezza marrone racchiude un libretto di venti per venti centimetri che contiene il disco e le sue canzoni, raccontate attraverso splendide fotografie che è lo stesso Marcello Donadelli ad aver realizzato e, in più, per i feticisti spinti, il negativo di una delle foto, incastonato in una piccola cornice bianca. Quello che rimarrà più di tutto, però, è la consapevolezza di aver avuto l’onore di ascoltare una delle voci più promettenti del panorama Folk italiano.
Bol&Snah – So? Now!
Written by Silvio Don Pizzica• 28 Settembre 2016• Recensioni
In che modo si può mettere insieme il sound di una semi sconosciuta band norvegese oscillante tra Ambient e sperimentazione con l’esperienza Psych/Prog/Jazz Rock del fondatore dei Motorpsycho, Hans Magnus Ryan? A questo provano a rispondere Bol&Snah, band nordica di Trondheim miscelata allo pseudonimo di voce e chitarra della mitica formazione concittadina.
A tenere insieme questo delicato legame è soprattutto la voce di Tone Ase, perfetta, nonostante non sia proprio fuori dal comune, nella sua capacità di essere potente, intensa e delicata nel declamare le parole del poeta Rolf Jacobsen nelle sue digressioni sul tema del delicato rapporto tra uomo e natura, decantato non con idea unilaterale ma affrontando il problema da diverse prospettive, senza soluzione di continuità.
La profondità e l’attualità del tema, unite alla vocalità della Ase e alle peculiarità dei diversi musicisti, Snah in primis sebbene le sue doti di chitarrista puro non siano quelle più apprezzate dai fanatici tecnicisti, fanno sì che le sei canzoni che vanno a formare So? Now! si alternino in strutture composte, a volte più decise, altre più eteree, con diversi crescendo e in una scrittura musicale precisa ma capace di notevoli aperture sinfoniche e tendenti all’Hard Rock più irruente in diversi passaggi.
Un album costruito perfettamente, in melodie e arrangiamenti, capace di mettere in mostra qualità strumentali, vocali e liriche, con uno Snah in grado di palesare le sue doti, non tanto di virtuoso, quanto piuttosto di compositore, che ha l’unica grande pecca di suonare prolisso e ridondante ascolto dopo ascolto, con tante idee già usate e abusate che, tutto sommato, riescono comunque a reggere la facciata pur se con molta fatica.
Ottavia Brown – Infondo
Written by Silvio Don Pizzica• 19 Settembre 2016• Recensioni
Di certo apprezzabile l’ impegno e lo stile con i quali Ottavia Bruno (ironicamente in arte Ottavia Brown) ha confezionato in autoproduzione la sua opera prima. Dalla cover all’artwork fino al packaging tutto è fatto in maniera professionale e con la voglia di non passare inosservata e apprezzabile è anche che progetto grafico e illustrazioni siano curate dalla stessa la quale, oltre ad essere compositrice è, per l’appunto, anche illustratrice di professione. Questo, però, è solo una luce fluorescente tesa a carpire la nostra attenzione. Ciò che conta non si vede ed è nascosto in dieci tracce in italiano scritte sotto la produzione artistica di Marco Franzoni.
Non fatevi confondere dalle mie parole perché il legame tra i disegni e la musica è molto stretto e necessario per comprendere l’estetica della Brown che, parafrasando le sue parole, al momento della composizione da spazio prima agli occhi e poi all’udito, creando così un legame tra un brano e il successivo come quello che si crea tra le pagine di un libro. Dieci canzoni che parlano d’inquietudine e sogno e raccontano di personaggi apparentemente distanti ma spesso uniti da ambientazioni favolistiche. Assolutamente godibili gli arrangiamenti e lo stile, miscela di Pop moderno e Swing anni 50, con venature Folk e tratti da Film Score Noir, il tutto ad avvolgere una voce gradevole.
Certo, con qualche sforzo in più in fase di scrittura e di ricerca melodica si sarebbe potuto apprezzare con più fermezza, tralasciando il fatto che la voce stessa non è nulla più che una piacevole voce di una seducente songwriter italiana. La costruzione stessa di testi, arrangiamenti, ritmiche e tutto il resto sembra studiata a tavolino per suonare irreprensibile tanto da mancare di coraggio, originalità e voglia di superare taluni limiti. A queste condizioni, è solo un disco ben fatto che, tutto sommato, stanca dopo qualche ascolto, non lascia il segno in nessuna delle tracce e mai riesce a trasportarci dove solo i migliori riescono.
Goran Bregovic, Calcutta & Paolo Tocco (Pescara 04 settembre 2016)
Written by Silvio Don Pizzica• 5 Settembre 2016• Live Report
La chiusura dell’estate musicale pescarese regala ai cittadini, ai turisti e a tutti quelli che, come me, hanno macinato chilometri per esserci, una giornata carica di appuntamenti gratuiti per tutti gusti e di forti emozioni e divertimento. Almeno tre gli eventi, non direttamente collegati tra loro, ci hanno accompagnato già dal pomeriggio fino alla sera non troppo inoltrata visto il relativo rispetto degli orari previsti per i concerti. Alle ore diciassette, presso la libreria Feltrinelli, il produttore, promoter e cantautore chetino Paolo Tocco fa il suo ingresso in punta di piedi nel mondo della letteratura presentando l’opera prima edita da Tabula Fati, Il Mio Modo di Ballare, raccolta di racconti che sono trasposizione delle canzoni del suo fortunato ultimo album, dallo stesso titolo, particolarmente apprezzato dalla critica (me compreso) tanto da finire tra i finalisti del Premio Tenco. La presentazione è impreziosita da un live acustico per il quale, l’artista, sceglie la sua voce, una chitarra e due musicisti che saranno gli stessi del prossimo disco del musicista abruzzese già in fase di preparazione. L’esecuzione dei brani è alternata a un reading di estratti dei racconti a cura dell’attore Massimiliano Elia e alle domande dei giornalisti e moderatori Donato Zoppo e Luca Pompei. I pezzi già noti dell’album sono riproposti spesso con arrangiamenti che donano loro nuova vitalità e distolgono l’attenzione da un’esecuzione non sempre impeccabile. Del resto il protagonista oggi non è tanto la musica quanto le parole ed è proprio Massimiliano Elia a creare la giusta atmosfera per farci appassionare, emozionare e tutt’altro che annoiare nonostante la durata dell’esibizione che arriva a quasi due ore. Il momento più toccante si ha con la dedica al padre, oltretutto presente e in lacrime; è stato proprio lui a suggerire involontariamente il titolo dell’opera quando cercò ingenuamente di giustificare la sua impossibilità a camminare e muoversi come una volta. Non mancano momenti di critica velata da parte dei moderatori e di autocritica, come quando si fa notare l’accostamento impossibile tra architettura romanica e ambientazione a stelle e strisce o quando si fa cenno all’uso di nomi stranieri per “scenografie” italianissime, ma la grande umiltà e simpatia di Paolo Tocco riescono sempre a far scivolare talune incongruenze o eccessive licenze poetiche in un’aura di magia e umanità. Come lui stesso ammetterà, non ha la presunzione di credersi scrittore nel senso professionale e artistico del termine come non ne ha di essere un cantante. È soltanto un essere umano con diverse cose da dire e tanta voglia di dirle, senza mai svelarsi troppo ma cercando di colpire al cuore dalle più disparate prospettive. Il disco è riuscito nel suo intento, per il libro dobbiamo aspettare almeno il tempo di leggerlo.
Chiusa la presentazione tocca spostarsi verso il mare. Due sono gli avvenimenti che si svolgeranno di lì a poco quasi in contemporanea: da una parte c’è la festa dei Giovani Democratici con l’inspiegabile fenomeno di massa Calcutta e, ad aprire, I Missili, giovane, allegra e interessante formazione Pop Rock abruzzese messasi in evidenza con l’album Vitamine del 2014 edito da V4V Records. A qualche centinaio di metri, nell’Arena del Mare, c’è Bregovic, con la sua Wedding & Funeral Band. Faccio la mia scelta e, nonostante avessi già visto in passato un suo spettacolo, ma mai quello di Calcutta, mi reco dall’artista serbo occupando posto nelle retrovie, con i piedi nella sabbia e il palco dritto davanti a me. La World Music di Goran Bregovic è quella che conosciamo, lo show non si discosta affatto da quello che ricordavo, i suoi pezzi più noti sono tutti palesati, i fiati, le percussioni, le voci regalano un momento comunque unico a tutti i presenti; ragazzi sdraiati sulla spiaggia, adulti che non riescono a stare fermi e tanti bimbi che ballano come pazzi, per la gioia del genio di Sarajevo (del resto il tour ha il titolo Chi non Diventa Pazzo non è Normale). La scelta della regione Abruzzo nell’ambito Open Day (progetto di promozione turistica voluto dalla presidenza della Giunta regionale “per far crescere la competitività dell’Abruzzo” con la collaborazione dell’amministrazione comunale di Pescara e di Banca Intesa) di finanziare e dare voce a Bregovic si rivela indovinata non tanto o non solo per l’atmosfera di festa che è riuscito a creare ma anche per la sensibilità e l’acutezza con la quale tocca temi importanti come l’integrazione o la guerra. Durante la serata viene anche promossa la raccolta fondi avviata dalla regione a sostegno delle popolazioni colpite dal sisma (se volete dare una mano, il conto corrente è 1034127231 intestato a “Regione Abruzzo – Pro Sisma 2016”, codice Iban IT-73-A-07601-03600-001034127231) secondo modalità probabilmente rivedibili, almeno per aumentare la partecipazione dei presenti; alla fine poco conta se l’ovvia conclusione del concerto si avrà con la sua nota versione di “Bella Ciao”, poco conta se la Festa dell’Unità dei Giovani Democratici è da tutt’altra parte, poco conta se non tutti gli astanti si sentono rappresentati dal famoso canto popolare partigiano. La sabbia salta via dai piedi nudi dei ragazzi, le braccia volano verso il cielo, la danza collettiva resuscita uno spirito di partecipazione e solidarietà che non si vedeva da qualche tempo e anche se non tutti sono mossi da sincero trasporto ma piuttosto dalla voglia di fare “casino” il risultato è di quelli che ci rimarranno nel cuore a lungo.
Finito il concerto, mi fiondo verso Calcutta, sperando, per una volta, che gli orari non siano rispettati e riesca a vedere la conclusione del live. Arrivo e mi accorgo che le mie speranze possono andare e farsi fottere ma comunque posso scambiare quattro parole con i ragazzi che hanno organizzato e visto il concerto. C’è profonda delusione, mi dicono. Il concerto è durato pochissimo, è costato un sacco, avrà cantato quattro canzoni, oltretutto malissimo e si è rivelato anche tutt’altro che disponibile, rinunciando a incontrare i suoi fan con la scusa che non ama il contatto fisico. Del resto non è un obbligo, per chi suona, darsi in pasto alle folle ma il giudizio sulla sua esibizione mi lascia soddisfatto della scelta di essere altrove e, tutto sommato, sembra confermare tutto quello che temevo circa l’eccessivo, inutile, sconsiderato fragore intorno ad un ragazzo senza troppo talento che si è trovato al posto giusto al momento giusto. Il bilancio della serata resta positivo e, per ora, lasciamo da parte le critiche sulla contemporaneità di eventi di grande risonanza, non solo di Calcutta e Bregovic ma anche con la serata Aquilana, il Jazz Italiano per Amatrice. Per una volta, siamo contenti della vasta possibilità di scelta e dell’abbondanza. Presto torneremo ai piccoli e appassionati concerti nei minuscoli club di provincia e a “emigrare” verso le grandi città del nord per assistere a qualcosa d’importante che, nella mia regione, non si trova con troppa frequenza quando il sole si fa più mite e la brezza della sera si trasforma in un freddo pungente. Oggi mi godo il fresco ricordo di una caldissima giornata sulla riva del mare pescarese.
President Bongo – Serengeti
Written by Silvio Don Pizzica• 5 Settembre 2016• Recensioni
Perché un artista islandese dovrebbe narrare in note terre tanto lontane fisicamente e idealmente? La risposta è nella definizione che Stephan Stephenson (suo vero nome) si è cucito sulle spalle: lui è un carpentiere emozionale e in quanto tale non può che superare ogni sorta di limite per costruire addosso a ognuno di noi l’emotività voluta. Se a qualcuno il nome President Bongo non ha detto nulla, considerando anche che questo è un disco d’esordio, il succitato nome di battesimo dovrebbe ricordarvi una band fondamentale per l’Elettronica nordica che si è sviluppata dai Novanta. Il nostro President è stato, infatti, dalla formazione al 2015 uno dei membri dei GusGus, band di Reykjavik che ha brillantemente esplorato territori vasti dall’House alla Techno, dal Trip Hop all’Elettronica passando per il Pop più “sintetico”.
Se non lo avete capito dall’incipit, Serengeti (disco uscito nell’ottobre 2015 ma, in edizione italo-francese con bonus, nel 2016) narra dell’Africa e, più nello specifico, dell’annuale e mastodontica migrazione dei mammiferi nella regione orientale del continente, raccontando attraverso una miscela molto aderente al concetto dell’opera, la ciclicità eterna di tale spostamento, in apparenza sempre uguale a se stesso ma in realtà ogni volta difforme a causa di diverse condizioni climatiche e non, piccole variazioni che rendono ogni esperienza unica. Quasi a esprimere e ampliare uno dei concetti fondamentali di Eraclito, President Bongo vuole esprimerci tutta la forza del mutamento, del cambiamento e del divenire anche quando l’apparenza sembra suggerire un’illimitata reiterazione del momento.
Per esprimere tutto questo, l’artista islandese sceglie strumenti tutto sommati simili a quelli usati nel progetto GusGus ma il risultato è certamente differente, molto più teso verso un’Ambient e un’Elettronica old style, di chiara ispirazione Eno e con elementi etnici e Afro Jazz che tanto ricordano i Dead Can Dance, oltre ad elementi Folk, Blues e Neo Classic (“Levante”) ed è proprio questa varietà che finisce per fare da legante tra le terre gelate del nord e il Serengeti.
Nonostante i pezzi siano stati scritti tra paese d’origine, New York e Berlino, il riferimento al continente nero non è solo frutto del suo ingegno ma deriva anche dall’esperienza che l’autore ha fatto su queste terre cariche di vita e musica ancestrale; e la scelta di questa terra è anche un omaggio alla sua musica che in fondo è la genesi di tutto quello che abbiamo oggi.
In atto di ossequio all’Italia, gli otto brani che rappresentano un diverso momento di questa grande migrazione, a volte attimi, a volte intere giornate, hanno tutti il nome di venti italiani (l’autore è affascinato da come ogni nostro vento prenda nome diverso secondo la provenienza cardinale) e lo stesso nome non è stato scelto a caso ma con riferimento alle caratteristiche del vento stesso e a come queste si legano con il suono del brano.
Serengeti è un disco complesso nella sua genesi e non semplicissimo all’ascolto, variegato e multiforme, la cui descrizione è fondamentale per comprenderlo al meglio. Allo stesso tempo è opera di pregio assoluto, con alcuni spunti strepitosi, decisamente in grado di esprimere tutto quello che si era preposto in fase di scrittura. Non aggiungerà molto al panorama nel quale possiamo inserirlo ma il pregio e la cura con cui è realizzato e la resa all’ascolto ne fanno uno dei migliori dischi dell’anno passato che noi poveri italiani possiamo goderci nell’anno in corso.
Quanto è Rock una bestemmia?
Written by Silvio Don Pizzica• 8 Agosto 2016• Articoli
È il 30 luglio del 2016 in una piazzetta di un paesino di provincia; sotto il palco del festival Streetambula c’è tanta gente, sopra il palco è appena salito Giorgio Canali. L’ex chitarrista dei Csi impiega molto a lanciare una sonora bestemmia; noi sappiamo che è fatto così, sapevamo che avrebbe fatto così e quella non sarà la prima ma neanche l’ultima imprecazione della sera. La maggior parte dei presenti non ci farà neanche caso ma, in quella piazza, c’è qualcuno cui la cosa non va affatto giù.
Deerhoof – The Magic
Written by Silvio Don Pizzica• 5 Agosto 2016• Recensioni
Per la band statunitense più nipponica che ci sia (la presenza di Satomi Matsuzaki non è pura estetica) non è ancora arrivato il momento di porre fine a un percorso artistico lungo oltre vent’anni eppure ancor più prolifico che duraturo. Mai capaci di fare breccia tanto nel grande pubblico quanto in quello più avvezzo a sperimentazioni di sorta, nella loro vasta produzione vantano solo una manciata di opere davvero degne di nota, tutte da ricercarsi nel periodo che va da Reveille del 2002 a Offend Maggie del 2008. Da quel momento si sono susseguite, fino a questo The Magic, una serie di uscite sulla stessa falsa riga, sia stilistica, sia qualitativa, con album di buona fattura ma mai capaci di andare “più in là” e sancire una mai troppo palesata ricerca di grandeur. Mantenendo intatto il loro stile forgiato su una miscela pazzoide di Rock, Noise Pop, Experimental, Art Pop/Rock con quelle reminiscenze da Sol Levante già accennate (vedi “Kafe Mania!”) stavolta provano ad aggiungere qualche elemento, non certo nuovo ma meno caratterizzante le loro precedenti elaborazioni come il Punk, il Glam, l’R&B (“Model Behavior”) ad esempio, con qualche suono rubato all’Elettronica anni 80. Ad arricchire la tracklist enorme (quindici pezzi) ma abbordabile (poco più di quaranta minuti) la voce di Satomi, sempre intrigante senza suonare fuori dal comune e qualche interessante trovata melodica, oltre a quella capacità che li ha sempre contraddistinti di amalgamare perfettamente striduli rumoristici a ritmiche ammalianti, insistenti e armonie distensive. The Magic è ciò che un buon amante della band di San Francisco dovrebbe aspettarsi ma purtroppo non è ciò che un loro vero amante avrebbe desiderato. Eppure, a pensarci bene, un sincero amante dei Deerhoof non avrebbe mai pensato che Greg Saunier e soci sarebbero stati capaci di andare oltre a questo The Magic.